9 Ottobre 2024
Punte di Freccia

Mia madre mio padre… – Mario Michele Merlino

Di mia madre ho sempre parlato poco e poco scritto. Come le radici profonde che si nascondono nel terreno eppure, senza la loro tenacia, il tronco dell’albero i suoi rami e frutti cederebbero al primo soffio di vento autunnale. Ella tenne dritta la barra tra marosi avversi fino al giorno in cui la sua mente si racchiuse in ostinato vuoto. E, senza quel timone e la vela, saremmo stati preda dell’onda e del capriccio delle correnti. In nome della famiglia, da lei tanto desiderata e, simile alla lupa descritta da Dante nel Canto dedicato al Conte Ugolino, difesa con le unghie e i denti. Silenziosa. Eppure tanto ci donò come, pur nata negli Stati Uniti, si dovesse avversare ‘il male americano’… E, nel concreto, ci iscrisse in sezioni della scuola media ove si studiasse la lingua francese e non l’inglese.

Mio padre, grande affabulatore, ci teneva lezioni di storia durante il pranzo. Una storia adatta prima per noi quattro bambini, ricca di aneddoti ed episodi tanto simili ai romanzi di Emilio Salgari, che ci esaltavano ci facevano sognare e che si riproducevano nel gioco convinto dei buoni (ad esempio i garibaldini) e dei cattivi (gli austriaci). Il Risorgimento era il terreno fertile ove egli seminava emozioni e valori e sentimenti – egli, fiero delle origini piemontesi e sabaude (suo padre era cresciuto direttamente a palazzo Carignano), non lesinava lode e plauso al Mazzini e a Garibaldi, sottacendo le diversità divergenze contrasti fra gli artefici di quelle vicende. Con gli anni, oramai noi adolescenti, la rese più prossima al saggio, ma mai dimentico di esaltare i singoli personaggi, dando loro come un tratto di pennello un volto e un’anima…

Di Giuseppe Mazzini amava ricordare come avesse imposto la rigorosa disciplina dei doveri contrapponendosi di fatto ad un mondo che pretendeva ed esigeva soltanto i diritti. Era il rifiuto degli aspetti nefasti della Rivoluzione Francese (mio padre non ne negava l’importanza e l’afflato rivoluzionario come accesso della borghesia alla vita pubblica) e di quegli aspetti estremi ed utopici di una concezione utilitaristica materiale ed egoistica dell’esistenza ‘intesa – queste sono parole di Gentile, tratte da Memorie italiane – come campo di diritti da rivendicare, anziche come palestra di doveri da compiere, col sacrificio di sé per un ideale’. Aggiungo di mio come oramai, nel vorticare rovinoso della democrazia, a imitazione del modello liberal degli USA, tutti reclamano i diritti i più disparati e si trascurano i doveri fondamentali, quali il rispetto dell’uomo e del lavoro. Senza i quali, rifletto, ogni forma di diritto diviene maschera e trappola per creduli…

Confesso come anche da insegnante abbia conservato il gusto del particolare, degli uomini in carne ossa e sangue, ben più delle cifre aride e sciatte intorno alla economia e similari chiacchiere da listini di borsa registro entrate ed uscite della spesa. Roba da retrobottega del droghiere. Da sinagoga. E sempre, con l’ausilio della memoria, quanto ci raccontava mio padre, magari con meno capacità narrativa. Cercando, però, di preservare onestà intellettuale e, al contempo, coerenza ideale… (Egli era di sentimenti liberali e monarchici, però riconosceva la ‘gran brutta figura’ di un sovrano in fuga l’8 settembre e la legittimità della nascita della repubblica, il 2 giugno del ’46, perché – affermava – una monarchia può sussistere solo con ampio e convinto consenso, di cui la repubblica può fare a meno). E, tornando da scuola, mi attendeva ansioso di conoscere quali argomenti di storia avessi trattato per darmi, mentre mi predisponevo al pranzo, una sua lezione aggiuntiva e pertinente.

Agli esami di Quinta Elementare il mio tema girò tra le maestre, incuriosite forse stupite, perché paragonai un campo di grano tempestato di papaveri con il rosso delle camicie dei garibaldini a Calatafimi. Vocazione precoce alla scrittura… ahahah… Così si comprende come divenire insegnante fu un destino le cui basi mi furono ‘imposte’ davanti al piatto di spaghetti o la minestra di cavoli. E, ormai studente liceale, volli ricordare al mio professore (un omino rotondetto che oggi definirei senza esitazione ‘indecente e servile’), che esaltava Giuseppe Mazzini quale figura ideale della libertà e della democrazia, come il Fascismo lo avesse elevato ad Apostolo e suo precursore (tramite soprattutto l’opera del filosofo Giovanni Gentile). Ricordai Italo Balbo, il ras dello squadrismo di Ferrara, poi figura mitica e pioniere dell’aviazione italiana, che si era laureato proprio con una tesi sul Mazzini. Dimostrando l’assunto, a me caro, che bastoni e barricate ben si coniugano con il frutto pensoso della penna. In particolare nella RSI dove il volto ascetico e barbuto venne a sostituire quello volitivo e squadrato del Duce, troppo spesso scaduto in piaggeria.

E avrei potuto ancora fargli presente essere il suo pensiero e la sua azione da intendersi fautrici di quella terza via ‘tra Mosca e New York’, antesignane ad esempio di un Berto Ricci e di quella Carta del lavoro, ‘fondamentale pilastro dello Stato corporativo’, ove si propugna e si sostiene il dovere sociale del lavoro e l’armonia fra tutti coloro che collaborano alla produzione del bene comune. Contro lo sfruttamento e l’ingiustizia del liberalismo contro la risposta del mero conflitto di classe del socialismo. Insomma, ieri come oggi, eterna guerra del sangue contro l’oro.

Forse per questo accostamento – peccato di fatto imperdonabile – la figura del Mazzini, dopo il ’45, divenne patrimonio da nicchia e per pochi (a differenza di Garibaldi, pur anch’egli inserito fra i prefascisti ma divenuto, tramite le brigate comuniste, un mito resistenziale). A me viene a mente l’immagine di Mussolini, in camicia nera e in una mano il fucile e nell’altra un libro, sul balcone di Palazzo Chigi(?). Così il motto ‘libro e moschetto fascista perfetto’. E le parole del Gentile da Origine e dottrina del fascismo

‘si trae al più rigoroso significato la verità mazziniana – pensiero e azione –, immedesimando così i due termini da farli coincidere perfettamente, e non attribuire più nessun valore a nessun pensiero che non sia già tradotto ed espresso in azione…’.

E si potrebbe tanto e di più aggiungere (nel saggio di Rodolfo un capitolo, va da sé, gli è dedicato).

La sua religiosità – Dio e popolo – nella convinzione che prossimo fosse il tempo di quella Terza Roma (e l’Italia ‘proletaria e fascista’ che, successivamente, divenne tanto cara al Duce fino ai giorni ultimi nella Prefettura di Milano voleva esserne eco nella modernità). Un dio fattosi svolgimento, resosi storia e un popolo resosi tale e non più volgo perché il compito che gli s’impone urge. Nietzsche aveva annotato nei tempi estremi della sua esistenza, prima del grande silenzio: ‘Il genio italiano è di gran lunga quello che ha fatto l’uso più libero e sottile di ciò che ha ricevuto; vi ha messo cento volte di più di quel che non abbia avuto, essendo il genio più ricco, quello che aveva maggiormente da donare’. La grande illusione o il crollo ad opera di orchetti invidiosi e plebei?

Mazzini, dunque, apostolo del Risorgimento e precursore del Fascismo. Enea fugge da Troia in fiamme, portando con sé il vecchio padre sulle spalle e per mano il figlio ancora fanciullo. Alla ricerca di una nuova patria (dando il verso al mito di Roma) – con il passato e il futuro inscindibili compagni di viaggio. Segno d’ogni esistenza. Ed io, la memoria di mio padre e mio figlio (artefice, qualche anno fa, di un monologo dal titolo La chitarra di Mazzini), mentre simile a ombra silente mia madre, pacificata ormai nella mente, ci sorride come fu il suo ultimo sguardo rivoltomi dal letto della clinica, poche ore prima di morire…

 

Fonte Immagine: Corriere.it

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