“Vi è davvero dell’ineffabile: esso mostra sé, è il Mistico.”
(L. Wittgenstein; Tractatus logico-philosophicus, 6.522)
Hugo von Hofmannsthal è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo vissuto fra la fine dell’ottocento e i primi del novecento (1874-1929). Perlopiù sconosciuto per la sua attività poetica e saggistica, viene ricordato prevalentemente come drammaturgo poiché f
“Siamo fatti della stessa materia di cui s’intessono i sogni”.
Di volta in volta attribuita erroneamente ai più svariati autori, è tratta dalle Terzine sulla caducità di Hofmannsthal e già di per sé traluce una profonda visione del mondo onirica, in cui il tessuto della forma si disgrega in voto a quello dell’insostanziale. Il mondo non è una totalità di fatti compiuti e inamovibili, non è la somma di un insieme di oggetti determinati, quanto, piuttosto, un mosaico di interpretazioni; il mondo, in altre parole, non è una agglomerato di cose ma una rocambolesca sciarada di avvenimenti e in ciò ritroviamo, senza dubbio, un elemento di quel vitalismo di matrice nietzscheana che aveva mostrato i limiti della logica nel voler affermare e delimitare la vita in delle categorie inanimate:
“l’anima vanifica le cose trasformandole in sogni; o, nel senso della preesistenza, l’anima vive veramente solo se s’identifica, sognando, con quelle cose che sono vere e sognate a un tempo”.
Se tuttavia questa messa in discussione della realtà concreta del mondo era stata operata dall’arte e della filosofia nei secoli precedenti, a partire dal filosofo greco Gorgia, fino a Berkeley e Schopenhauer, e nel mondo orientale dalle Upanishad e dai Sutra buddisti, Hofmannsthal arriva a mettere in discussione lo stesso linguaggio che viene utilizzato per dubitare. Qui si arriva, con un magistrale artificio, a mettere in dubbio il linguaggio usato per mettere in dubbio, portando ad un esplosione che non può che avere come epilogo il sogno. Hofmannsthal fa questo in un suo lavoro del 1902, intitolato la Lettera di Lord Chandos. Qui il drammaturgo anticipa di mezzo secolo le idee di Wittgenstein, con l’aggiunta dell’aspetto poetico. Ludwig Wittgenstein appare nella scena filosofica nei primi decenni del novecento fondando la filosofia del linguaggio e rivoluzionando in modo radicale la filosofia del secolo. Di fatto ha rovesciato un intero modo di approcciarsi ai problemi dicendo che tutti i problemi su cui discutevano scienziati e filosofi erano riconducibili a un problema linguistico, che le domande erano mal poste, che era da chiedersi quale fosse il significato logico e semantico a monte delle parole, nella grammatica. In uno dei suoi ultimi lavori, uno dei più maturi e fecondi, scritto negli anni ’50 e intitolato Della certezza, Wittgenstein afferma che:
“Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe nemmeno a dubitare” perché “lo stesso gioco del dubitare presuppone già la certezza” (Fr.115)
“altrimenti, nessuna operazione filosofica o linguistica, inclusa quella di dubitare, sarebbe più sensata” (Fr. 341).
Ma se il linguaggio per potersi porre è un “gioco” come lo definisce, una convenzione, allora lo è la realtà tutta, non c’è, detto altrimenti, un fondamento ontologico oltre la convenzione, il tutto è svuotato di una realtà ultima e definitiva ma diviene, come avrebbe detto lo stesso Hofmannsthal:
“fluttuante, l’insostanziale dai mille nomi e dietro ad esso stanno gli spaventosi abissi dell’esistenza”.
Ma torniamo alla citata Lettera di Lord Chandos. In questa lettera il giovane scrittore Chandos si confida con il suo maestro Francis Bacon, esprimendogli la sua profonda crisi interiore che lo ha gradualmente allontanato dalla possibilità di esprimersi a parole.Egli prova una paralisi seguita da una riflessione profonda sull’uso delle parole e dei suoi significati. Le parole “corpo”; “anima”, “spirito” ma anche i più elementari giudizi della vita quotidiana, una volta analizzati e scomposti, gli sembravano inconsistenti, incapaci di descrivere la realtà. “Le singole parole fluttuavano intorno a me (…) turbinavano senza posa e, traversatili, si giunge al vuoto (…) e la parte più profonda, personale del mio pensiero rimaneva esclusa dalla loro danza” Qui il giovane intellettuale inizialmente è animato dall’entusiasmo che il linguaggio possa essere descrittivo della realtà, attraverso una scomposizione ai suoi elementi costitutivi, che potessero essere “attaccati” alle cose reali come etichette e così descrivere il mondo senza alcun margine di ambiguità. Questo fu, peraltro, anche il sogno di Leibnitz con la characteristica universalis un linguaggio formale e universale in grado, attraverso i simboli logici, di descrivere il mondo. Un sogno che fu sognato anche da Wittgenstein, con quella che chiamerà poi “proposizioni atomiche” ma destinato inevitabilmente a tramontare perché fra il linguaggio e il mondo c’è sempre uno scarto, uno iato ineffabile: “è qualcosa che assolutamente non ha nome e per cui è quasi impossibile trovarne uno” prosegue Chandos nella sua lettera.
Ecco che di fronte a questo abisso di incomunicabilità e solitudine dovuto ai limiti intrinsechi del linguaggio Chandos comprende che c’è una realtà infinitamente superiore al linguaggio, e questa realtà ineffabile è la semplice presenza delle cose, nella loro muta semplicità, in cui “Un annaffiatoio, un erpice abbandonato nel campo, un cane al sole… tutto può diventare il vaso della mia rivelazione”. Qui abbiamo uno dei vertici mistici di Chandos che ci ricorda lo svuotamento dell’Io descritto da un altro grande mistico: Meister Eckhart. Quello smarrimento in cui, come diceva Eckhart “devi essere morto ed annientato per tutte le cose” e in cui è “così privo del suo proprio sapere, come lo era quando non era ancora”.
Similmente Hofmannsthal fa dire a Chandos: “Io non ne so dire più niente. Potremmo entrare in una nuova presaga relazione con tutta l’esistenza se cominciassimo a pensare col cuore”. Entrando in “quell’Uno la cui forma poco apparisce, la cui presenza da nessuno avvertita, la cui muta essenza può diventare fonte di quel misterioso, ineffabile, sconfinato rapimento”.
Questo processo, che è poi amabilmente descritto dalla diade psichica della morte e della rinascita, della nigredo e dell’albedo degli alchimisti, passa inevitabilmente attraverso la scoperta di una realtà sovra linguistica. Wittgenstein, decenni dopo, avrebbe detto che: “su ciò di cui non si può parlare occorre tacere”. Hofmannsthal è un pensatore e un mistico che indubbiamente merita di essere riscoperto alla luce della sua profonda capacità di penetrazione e di essere in anticipo rispetto al suo tempo.
Bibliografia:
Hugo von Hofmannsthal; L’ignoto che appare: scritti 1891-1914, a cura di Gabriella Bemporad, Adelphi 1991
L. Wittgenstein; Tractatus logico-philosophicus, Einaudi 2009
Meister Eckhart; Sermoni tedeschi, Adelphi Edizioni 1974
Emanuele Franz
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