11 Ottobre 2024
Beni Culturali

Morti e sepolti: il Museo Geologico Nazionale e il Museo Coloniale di Roma, una vergogna tutta italiana – Riccardo Rosati

Per chi ha a cuore il Patrimonio nazionale, i fatti di cui andremo a parlare possono solo che causare ulteriore rabbia, mista a sconforto, per lo scandalo nella gestione delle nostre impareggiabili risorse culturali. Mentre fissano bramosi il “petrolio d’Italia” – definizione coniata anni or sono da Gianni De Michelis – Renzi e Franceschini se la ridono col fiammifero in mano, pronti ad appiccare fuoco alla nostra storia, dunque a bruciarlo quel “petrolio”. Già, poiché i due musei oggetto di questo articolo fanno parte integrante delle vicende italiane della triste era contemporanea; giunti come siamo nella coda del “Kali Yuga”, dove dal crepuscolo, stiamo inesorabilmente passando a una notte alla quale non seguirà un mattino.

Ricordate la “finanza creativa” di Giulio Tremonti? Probabilmente no – si sa che l’italiano ha memoria corta – e fate male, poiché i suoi danni si ripercuotono tutt’ora, e tra le sue vittime ci sono, per l’appunto, due musei di altissimo livello, due gemme “non convenzionali”, giacché non si tratta delle “solite” collezioni di archeologia classica o di pittura rinascimentale. Come vedremo, un altro pezzo del nostro Patrimonio è stato letteralmente gettato alle ortiche e salvarlo, con i tempi che corrono, sarà impresa assai ardua.

Il primo è il Museo Geologico Nazionale di Roma. Forse non tutti sanno che fino a venti anni fa in Largo Santa Susanna si trovava uno dei più prestigiosi e antichi musei di geologia esistenti, le cui collezioni erano di valore pari, se non superiore, a quelle presenti a Berlino, Londra e San Pietroburgo. A Palazzo Canevari, sino al 1995, hanno avuto sede l’Ufficio Geologico Nazionale e l’annesso “Museo Geo-Paleontologico” (in origine denominato Museo Agrario Geologico). Quest’ultimo raccoglieva in preziose teche: le collezioni Paleontologiche e Litomineralogiche (oltre 150.000 reperti), la collezione di 17 plastici geologici e la strumentazione tecnica che, dalla seconda metà dell’800 agli anni ’70 del ‘900, è stata utilizzata per la redazione della “Carta Geologica d’Italia”. Riportiamo qui di seguito un appello uscito tempo fa per salvare il Museo, da parte di alcuni addetti ai lavori.  In queste ore, con forza, facciamo nostro l’appello di Italia Nostra rivolgendoci con chiarezza al ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, affinché lo     storico Palazzo Canevari di Largo Santa Susanna a Roma, risalente all’800,  ridiventi Museo Geologico Nazionale. Quintino Sella in quel Palazzo volle il Regio Ufficio Geologico. Oggi apprendiamo che questo storico edificio di proprietà dello Stato, tramite la Cassa Depositi e Prestiti – Cdp Immobiliare, sarebbe destinato a ospitare gli uffici dei suoi dipendenti.

Diciamo solo ai firmatari di questa sacrosanta denuncia di non illudersi che Franceschini possa anche persino dedicare del tempo a leggerla. Del resto, egli è troppo impegnato ad apparire in TV e autocelebrarsi, anziché dedicare anima e corpo a difendere i nostri Beni Culturali.

Tornando al Museo, di grande effetto sono proprio i plastici: eseguiti tra il 1875 e il 1915. Essi hanno una enorme importanza storica, perché, fino al 1870, la documentazione cartografica relativa al territorio italiano era pressoché inesistente, specialmente sul Meridione. Si tratta in sintesi della prima rappresentazione dell’assetto demografico e geomorfologico del Paese. Ecco, quindi, che l’ennesimo frammento di storia patria – in piena coerenza con l’appiattimento identitario così caro al Nuovo Ordine Mondiale – sparisce. Per non parlare della sezione litiomineralogica – nota in tutto il mondo – con campioni raccolti in varie nazioni e suddivisa in: reperti edilizi e decorativi, reperti litologici e minerali. Tuttavia, ciò che è necessario rammentare è che nell’insieme tali collezioni consentono di ricostruire la storia del nostro territorio. Ragion per cui, non si è trattato solamente di un danno storico-artistico, ma soprattutto scientifico, in una Nazione, come l’Italia, che si sgretola dopo ogni acquazzone. Un unicum mondiale che giace imballato da decenni, mentre il Ministro della Cultura ha la faccia tosta di gridare costantemente al miracolo in corso sul recupero del Patrimonio Italiano.

Sia chiaro, che la soppressione del Museo è in buona parte dovuta a meri fini speculativi. Infatti, esso ha sempre seguito le sorti del Servizio Geologico Nazionale, passato nel 1986 sotto le ali del neonato Ministero dell’Ambiente, successivamente accorpato nel 1989 con altri servizi per costituire quel Dipartimento per i Servizi Tecnici Nazionali, dipendente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, confluito in ultimo nel 1999 nell’APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i Servizi Tecnici). Proprio in quel momento il palazzo di Largo Santa Susanna, non essendo più sede del Servizio Geologico Nazionale, perse lo status di proprietà demaniale. Nel 1994, si è disposto il restauro di Palazzo Canevari, stanziando 9,5 miliardi delle vecchie lire, svuotando l’immobile delle raccolte museali. I lavori si arrestarono nel 2001 per una apparente morosità della Pubblica Amministrazione, e solo di recente sembrano essere ripresi. Per far cosa dell’edificio? Beh, un albergo o degli uffici; per lucrarci ovvio. Le straordinarie collezioni geologiche e storiche sono state trasferite più volte in vari magazzini, e dal 2008 una parte è stata destinata a formare una piccola esposizione presso la sede dell’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), situata vicino la Stazione Termini.

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La Capitale d’Italia ha perso il suo Museo Geologico, malgrado di una ricchezza che forse non ha eguali sul pianeta. Ciononostante, Renzi e accoliti si esaltano davanti a una stampa addomesticata, per aver restaurato sei domus a Pompei. Chissà se i piani di speculazione su Palazzo Canevari saranno compromessi dal rinvenimento di una dimora del VI secolo a. C. nelle sue fondamenta. Gli esperti ritengono che si tratta di una scoperta straordinaria, grazie alla quale sarà possibile ridisegnare la mappa di Roma tra il VI è il V secolo a. C. Fino a questo ritrovamento, infatti, si credeva che in epoca arcaica la zona fosse esclusivamente adibita a necropoli e, perciò, non presentasse una area abitativa.

Il primo museo sorto dopo l’Unità d’Italia – la cui collocazione non fu affatto casuale, visto che a poche centinaia di metri si trova Porta Pia – inaugurato da Re Umberto I in persona nel 1885, è stato spensieratamente buttato via e con esso la sua storia, che ha accompagnato quella delle capitali d’Italia: dapprima impiantato a Torino nel Castello del Valentino, poi trasferito a Firenze e, infine, a Roma. Con la fondazione del Museo Geologico Nazionale, si intendeva rendere omaggio al pensiero scientifico laico, avviando così il Paese verso uno sviluppo industriale di tipo moderno. Ora, a distanza di poco più di 130 anni, la chiusura di questa fondamentale Istituzione sta semplicemente a dimostrare la disfatta del sogno di una nazione che voleva essere avanzata e leader mondiale, e che tale è stata forse soltanto durante quel Ventennio odiato da questa Repubblica che ama cementificare e chiudere i musei. Non è certo questo quel pensiero scientifico e moderno che aveva in mente Quintino Sella.

Passiamo a un altro “scandalo museale” di altrettanta gravità. Stiamo parlando dell’ex-Museo Coloniale di Roma, sulla cui sorte segnaliamo il libro di Francesca Gandolfo (“Il Museo Coloniale di Roma [1904 – 1971]. Fra le zebre nel paese dell’olio di ricino”, Roma, Gangemi, 2014): una imponente monografia, alla quale è seguito un interessante convegno tenutosi a Roma il 28 novembre 2014. Una iniziativa assolutamente benemerita, nel tentativo di far uscire questo Patrimonio nazionale dal silenzio in cui è relegato da anni.

Quella del Museo Coloniale è una vicenda quasi del tutto sconosciuta e dai connotati politici inquietanti. Sempre la nostra “onestissima” Repubblica, dopo la guerra, ha deciso di sbarazzarsi gradualmente di una Istituzione considerata decisamente scomoda, il perché è abbastanza chiaro. Peccato però che il suddetto Museo racchiudesse una collezione di valore internazionale, composta da circa 12.000 oggetti e persino da un tesoro. Ovvero, il Tesoro Archeologico della Libia, trasferito in Italia nel 1942 dall’ex-soprintendente reggente Gennaro Pesce e, si pensa, riportato in seguito in Libia. La storia di questo tesoro torna di nuovo alla ribalta, intrecciandosi con la guerra civile libica, il 25 maggio 2011, quando dal caveau della Banca Nazionale Commerciale di Bengasi gli inestimabili oggetti che lo componevano sono stati trafugati. Un episodio a riprova di come la guerra dichiarata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti al regime di Mu’ammar Gheddafi sia stato l’ennesimo atto criminoso e unilaterale nei confronti del Medio Oriente da parte di questa famigerata “Triade Occidentale”, che ha gettato una nazione indipendente nel caos più assoluto. Non ci vuole molto per capire che i reperti rubati verranno piazzati sul mercato nero dagli affiliati dell’ISIS, così da far cassa e, magari, comprati da qualche collezionista americano; lo strano cerchio tra statunitensi e jihadisti si chiude puntualmente.

Il Museo Coloniale di Roma rappresentava uno spaccato politico e sociale della storia nazionale, discutibile forse, ma che non andava rimosso e, di certo, nessuno si doveva permettere di smantellare una collezione di tale pregio. Parliamo, come detto, di una raccolta imponente: al suo trasporto a Roma da una prima mostra temporanea che si era tenuta a Genova, le casse riempirono ben diciotto vagoni di un treno. Uno straordinario gruppo di reperti e oggetti artistici trattato in modo indegno da questa sedicente Repubblica democratica. Un museo “girovago”, visto che ha cambiato diverse sedi nella Capitale, fino a giungere in quella definitiva di via Aldrovandi, dove condivideva lo stabile con l’ormai defunto IsIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente).

Segnaliamo qui un fatto abbastanza inquietante. Nelle catalogazioni delle raccolte del Museo effettuate nel Dopoguerra, sono risultati mancare alcuni migliaia pezzi. Che fine hanno fatto? Sono forse stati trasferiti in Istituzioni affini, ad esempio, nel Museo Pigorini, il quale, ma nessuno lo sa, possiede la più preziosa collezione africana d’Occidente? Sono stati rubati? Ecco il pericolo che si corre quando si chiudono i musei nelle casse, li si mette a rischio di furti e smarrimenti. Cosa dire per giunta della collezione di sementi storiche dalle ex-colonie? Alcuni informatori ci hanno detto che è stata addirittura buttata al momento della chiusura del Museo. Quale vergognoso scempio, specialmente se si considera il fatto che esso è nato insieme al suo Erbario.

Le ultime notizie che abbiamo sono che questo ricchissimo “museo fantasma” nel periodo 2006 – 2007 è stato trasferito in alcuni locali inaccessibili al pubblico di Palazzo Brancaccio, che ospita il Museo Nazionale d’Arte Orientale ‘Giuseppe Tucci”, per poi essere depositato nei magazzini del suddetto Pigorini, a tener compagnia alla miriade di pezzi etnografici che la prestigiosa Istituzione dell’EUR non può esibire, per mancanza di fondi e spazi: è il caso della splendida collezione asiatica che non ha mai visto la luce in una esposizione permanente.

“Mala tempora currunt”, disse Cicerone. Le vicende quasi romanzesche di questi musei sono l’epitome del disastro in cui ci troviamo; di una memoria collettiva cancellata, e il destino di queste due Istituzioni incarna perfettamente l’intento da parte di chi ci governa di obliterare la nostra storia recente. Precisamente, chiudendo il Museo Geologico Nazionale, si è distrutta una parte rilevante delle tracce collegate alla Unità d’Italia; mentre con la eliminazione di quello Coloniale, non si sono soltanto volute colpire le reminiscenze del fascismo, ma, ancor di più, di un momento che ha visto l’Italia essere un vero stato sovrano. In effetti, se ci pensiamo meglio, per la plutocrazia oggi al potere tali musei rappresentavano delle “pericolose” testimonianze della identità nazionale, e andavano obbligatoriamente fatti fuori.

Riccardo Rosati

 

 

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