di Niccolò Ernesto Maddalon & Jari Padoan
La mia ossessione per la paura, per il maligno, per ciò che può nascondersi dietro la realtà,
ha una ragione concreta in certe difficoltà che ho vissuto.
Difficoltà profonde che fortunatamente, invece di tradurre in qualcosa di distruttivo,
sono riuscito a trasformare in una carriera sullo schermo.
John Howard Carpenter, regista e compositore
Dio (non) scrive romanzi dell’orrore! – Il Seme della Follia
Nel 1994 esce nelle sale uno dei più grandi film horror moderni, una delle migliori opere esplicitamente ispirate alle pagine di H. P. Lovecraft[i] e l’innegabile “canto del cigno” cinematografico di John Carpenter (nonché, a parere di chi scrive, il suo capolavoro assoluto ex aequo con gli ormai classici 1997: Fuga da New York, Fog, La Cosa o Il Signore del Male). Questo e altro ancora rappresenta Il Seme della Follia (In the Mouth of Madness), capitolo conclusivo della ideale Trilogia dell’Apocalisse carpenteriana[ii], in cui ancora una volta le barriere tra “realtà” e “incubo” si infrangono (definitivamente?).
Il film, che in parte riprende e estremizza ulteriormente certe soluzioni narrative de Il Signore del Male (come le differenti dimensioni spazio-temporali, un’idea qui resa ancora più sottilmente con vari piani di narrazione interconnessi in modo apparentemente assurdo e discontinuo) le peripezie di John Trent (un Sam Neill qui agli antipodi rispetto al ruolo del suo paleontologo idealista Alan Grant nel film Jurassic Park, uscito l’anno precedente), un cinico, arrogante, borioso, ma, a suo modo, simpatico investigatore assicurativo indipendente. Il prologo del film è l’internamento di John Trent in una clinica psichiatrica, mentre dichiara furiosamente di non essere pazzo.
I guai di Trent, racconta l’uomo allo psichiatra al quale viene affidato, iniziarono «con la Sua scomparsa… la scomparsa di Sutter Cane». Contemporaneamente, si lascia intendere dalla conversazione tra l’ex investigatore e il medico, una inspiegabile epidemia di follia omicida si sta diffondendo negli Stati Uniti, di pari passo con le vendite stratosferiche dei libri del suddetto Sutter Cane.
A Trent era stato affidato l’incarico di rintracciare lo scrittore, scomparso nel nulla assieme alla seconda parte del suo romanzo incompiuto, appunto In The Mouth of Madness – Nelle Fauci della Follia. Cane è un famoso quanto ambiguo romanziere horror che agisce nell’ombra e che “Ha battuto persino Stephen King… perché Cane vende di più», come fa notare a Trent il personaggio di Linda Styles (Julie Carmen), l’ambigua segretaria di Jackson Harglow (un “sedentario” e serafico Charlton Heston in uno dei suoi ultimi ruoli), grande capo della casa editrice Arcane (qualcuno nota una vaga assonanza con la Arkham House, casa editrice fondata da Donald Wandrei e August Derleth dopo la scomparsa del loro maestro Lovecraft?).
La ragazza diviene così la spalla di John Trent nella ricerca dell’autore scomparso (i cui romanzi citati nel film sono, naturalmente, una serie di palesi riferimenti ai vari titoli del corpus lovecraftiano[iii]), una ricerca che li condurrà nei più sperduti recessi rurali finiranno presso un obsoleto villaggio del New England (ovviamente!) chiamato Hobb’s End, presente nel penultimo romanzo di Cane: The Hobb’s End Horror – Orrore a Hobb’s End , un evidente rimando ad un classico del Solitario di Providence: The Dunwich Horror (L’Orrore di Dunwich).
Un po’ come nel caso di Dunwich, anche su Hobb’s End grava una maledizione assopita in una sorta di satanico letargo, ma pronta a ridestarsi: presto, infatti, gli abitanti del borgo in questione cominciano a mutare fisicamente e a rendersi autori di bestiali e insensati atti di violenza. Dopo aver abbandonato al suo destino la signorina Styles (anch’essa posseduta da forze disumane e mutata), Trent tenta una futile sortita in auto… solo per trovarsi coinvolto in una sovversione dello spazio-tempo che lo riporta con la sua macchina al punto di partenza, dinanzi ad una marmaglia di villici deformi e tutt’altro che amichevoli. Tentando di investirli, John ha un sinistro e sviene. Riprenderà conoscenza dentro un confessionale della locale chiesa sconsacrata, ora adibita a luogo di culto del diabolico Cane, in qualità di Anti-Dio (e si noti, nella diabolica “divinizzazione” di Cane, come Carpenter e De Luca abbiano voluto parodiare, oltre alla super-celebrità di Stephen King, anche alla controversa figura di Ron L. Hubbard, autore di fantascienza ma soprattutto “guru” di una delle più potenti e pericolose sette para-religiose attive nell’ultimo secolo, ovvero Scientology[iv]).
Dopo avere compreso di essere egli stesso un personaggio letterario di Cane, Trent viene rimandato a New York con la parte mancante di In The Mouth of Madness – Nelle Fauci della Follia (ennesimo omaggio nel titolo a Lovecraft e al suo romanzo At the Mountains of Madness – Le Montagne della Follia). Nonostante il nostro antieroico protagonista tenti più volte di distruggere il plico affidatogli, il diabolico romanziere lo fa magicamente pervenire a nome di Trent nelle mani del editore Harglow, il quale farà mettere alle stampe l’ultimo romanzo di Sutter Cane, scatenando epidemie di follia omicida su tutto il mondo (insomma, una versione moderna del mitico, e lovecraftiano, Necronomicon). Ormai folle, John Trent decide appunto di trovare rifugio nella follia, arrivando ad assassinare in pieno giorno un fan di Sutter Cane con una accetta, in modo da farsi internare per restare al sicuro. Ma… fino a quando?
Infatti, dopo che una folla ormai subumana e inferocita assedia nottetempo la clinica dove era stato internato a inizio film, Trent, miracolosamente risparmiato dal raccapricciante massacro, si ritrova a vagare nottetempo lungo le strade deserte di Manhattan. Mentre un messaggio radio su di una frequenza di emergenza allerta di guardarsi da tutto e tutti, Trent decide di andare a vedersi il film tratto dall’ultimo romanzo di Cane (naturalmente … per la regia di John Carpenter!).
Rivedendo le proprie rocambolesche disavventure sul grande schermo, Trent si rende conto che la normale successione temporale (già inizialmente complessa, dato che tutto il film è un lungo flashback cominciato nella cornice narrativa che vede Trent internato che narra il suo racconto allo psichiatra), e la sua percezione di essa, è ormai in cortocircuito. L’affermazione che l’investigatore ripeteva tra le vie decadenti di Hobb’s End, per convincere Linda e sé stesso che non stesse succedendo qualcosa di orribile, ovvero «Non è la realtà!» si trasforma in un mantra folle e privo di senso.
Il cerchio si chiude (o si riapre?): l’orrore cosmico ha vinto, o forse c’è sempre stato, ed è proprio questa consapevolezza che fa esplodere John Trent in una risata folle, infinita e liberatoria.
Un remake (dannatamente) poco coinvolgente – Il Villaggio dei Dannati
Nel 1995 Carpenter dirige Il Villaggio dei Dannati, remake di un classico della fantascienza: tratto dal romanzo di John Wyndham I Figli dell’Invasione (che a sua volta ispirò una prima trasposizione cinematografica dal titolo Il Villaggio dei Dannati), il rifacimento contemporaneo diretto dal regista di Carthage sposta gli eventi narrati dall’Inghilterra agli Stati Uniti e si caratterizza per certe scene particolarmente crude e violente (quali, a titolo d’esempio: una pediatra che si versa dell’acido su di un occhio, un rozzo e burbero bidello che si butta dal tetto della propria scuola facendo harakiri col bastone di una ramazza contro un’automobile sita nel sottostante parcheggio e un prete che si suicida puntandosi un fucile sotto il mento, tanto per rendere l’idea).
Dopo un collasso collettivo dell’intera popolazione della cittadina californiana di Midwich, dieci donne (vergini e non) si ritrovano inspiegabilmente gravide. I fanciulli crescono, rivelandosi incapaci di provare emozioni positive (…tanti piccoli Michael Myers?), oltre ad essere dotati di facoltà psichiche che permettono di influenzare i gesti di chi è percepito come una minaccia e a condividere una sorta di simbiosi telepatica che li spinge ad agire come un’unica persona (il tema del gruppo o del popolo di alieni “cattivi” che agiscono come un’unica mente e un insieme di unità conformi è del resto un leitmotiv del B movie fantascientifico, dalla Guerra dei Mondi all’Invasione degli Ultracorpi). Su tutti, due dei sinistri ragazzini dagli occhi violacei e i capelli biondo platino spiccano per le proprie notevoli facoltà psichiche: Mara, la cinica leader della loro compagnia, che arriverà a spingere al suicidio la propria madre biologica terrestre, e David, l’anello debole della poco allegra compagnia di marmocchi albini, e, a suo modo, l’unico a dimostrarsi quasi “umano”.
Dopo aver scatenato una carneficina contro chiunque abbia scoperto la loro inumana natura, i diabolici ragazzini saranno sconfitti da Alan Chaffee, il medico locale (Christopher Reeve, nel suo penultimo ruolo prima della paralisi permanente, a seguito di un incidente dovuto ad una caduta da cavallo), il quale, dopo aver scoperto di essere in grado di “schermare i propri pensieri”, si immolerà con una bomba che farà perire anche gli insidiosi fanciulli di origine extraterrestre. Tutti meno David, portato al sicuro fuori città dalla sua “madre biologica” Jill McGowan (Linda Kozlowski), la preside della scuola elementare di Midwich. Mentre Jill e David si allontanano in auto, quest’ultimo fissa intensamente l’orizzonte e ignora le domande postegli dalla sua genitrice umana. Forse ponderando qualcosa, dato che i suoi occhi si accendono improvvisamente di un luminescente quanto inquietante bagliore…
Sicuramente “carpenteriano” sotto tutti i punti di vista, compreso il finale-shock e aperto all’interpretazione dello spettatore, questo nuovo remake-omaggio alla buona vecchia fantascienza anni Cinquanta non è paragonabile alla precedente opera che il regista aveva realizzato in questo ambito, ovvero il capolavoro La Cosa, ma rimane una interessante e personale riproposizione delle atmosfere fantascientifiche e orrorifiche d’antan tanto care a Carpenter. Ovviamente, rivedute e corrette: gli effetti gore sono abbondanti e potenziati, mentre l’ambientazione è spostata dalla sonnolenta Inghilterra rurale del Villaggio originale all’assolata provincia californiana. Ed è proprio nella apparentemente serena provincia americana, insegna Carpenter (e assieme a lui, tra gli altri, Richard Matheson, Stephen King o il miglior David Lynch), a volte, si possono aprire varchi per l’orrore e per l’ignoto.
Hollywood Capta Est: Fuga da Los Angeles
Il 1996 vede l’uscita di uno dei film più attesi e più controversi (per non dire deludenti, a detta di molti…) girati da John Carpenter. Simbolo e protagonista della nuova feroce critica (auto)distruttiva verso lo stile di vita americano e i nuovi falsi miti della Hollywood degli Anni Novanta sarà nientemeno che il redivivo Snake Plissken, impegnato questa volta in una Fuga da Los Angeles. Seguito, che all’epoca fu in effetti attesissimo[v], del “mitico” 1997: Fuga da New York, in realtà questo Atto Secondo delle avventure di Plissken ne è praticamente un auto-remake che ripropone la storia che ha reso celebre il personaggio con qualche variante, ma per il resto rimane quasi una copia carbone.
Nel 1998 Los Angeles è devastata dal crimine e dall’immoralità. Un nuovo Presidente bigotto s’insedia come primo cittadino d’America a vita, profetizzando che Los Angeles “Verrà separata dalla parte sana del Paese!”. Nel 2000 un terremoto di ottavo grado di magnitudo della scala Richter rade al suolo L.A., facendo inabissare nel Golfo della California parte del terreno attorno a cui la metropoli in questione si trova ed isolandola così dal resto degli Stati Uniti.
Un po’ come avvenne per la città-prigione di New York nel 1997, la Los Angeles del 2013 diverrà una terra di nessuno in mano a tribù-gang armate fino ai denti. Nessuno è mai riuscito ad attraversare a scopo evasione la baia che separa l’isola su cui sorge la Città degli Angeli Caduti dalla terraferma.
Snake Plissken, arrestato in una località estera sotto protettorato statunitense, viene costretto previa il solito ricatto (stavolta tramite un virus geneticamente modificato, inoculatogli con un semplice lieve graffio su di una delle sue mani) ad accettare l’ennesima missione all’inferno e ritorno: questa volta Snake dovrà recuperare un dispositivo in grado di provocare blackout permanenti previ impulsi elettromagnetici mirati. Non solo: il dispositivo in questione è addirittura dotato di un’opzione in grado di spegnere tutte le risorse energetiche dell’intero pianeta Terra, riportandolo così al Medioevo. Il secondo obiettivo della missione affidata a Plissken è quello di rintracciare ed eliminare Utopia, la figlia ribelle del dispotico Presidente, la quale ha trafugato il suddetto kit “stacca-corrente” per poi eiettarsi con la capsula monoposto d’emergenza dell’Air Force One su Los Angeles e unirsi ai detenuti-ribelli guidati dal terrorista terzomondista Cuervo Jones, la controfigura macchiettistica del Duca di New York impersonato da Isaac Hayes nel 1981 (nonché, naturalmente, di Ernesto “Che” Guevara in versione post-apocalittica).
Con Fuga da Los Angeles, Carpenter gira tra l’altro un nuovo film meta-cinematografico deliberatamente cartoonesco e consapevolmente brutto, al fine di poter criticare a modo suo una Los Angeles e una Hollywood “novelle Sodoma e Gomorra”. Ad esempio, il Presidente (interpretato da Cliff Robertson) ricorda una sorta di versione reazionaria di Bill Clinton combinato con George Bush Sr., mentre il grottesco episodio della clinica per curare le “vittime del silicone” (in cui Plissken ha a che fare con bizzarri personaggi interpretati da Valeria Golino e Bruce Campbell, protagonista della serie di Evil Dead) è un iconico riferimento all’altra faccia della medaglia della moda tipicamente hollywoodiana della chirurgia estetica. Superfluo aggiungere che il film venne subito “snobbato” da buona parte del pubblico e dei fan di Carpenter, mentre ha spaccato in due la critica tra chi lo ha definito «un nostalgico sequel-fotocopia… lo spirito blandamente anarcoide è di maniera, il cast è fiacco e tutto sa di dejà vu…[vi]» .
Ciononostante, se il confronto con il magnifico capostipite è improponibile, gli unici elementi di interesse di Fuga da Los Angeles rimangono l’interpretazione di Kurt Russell, sempre intenso e versatile in questo ritorno nei panni del suo personaggio più iconico, e il finale-resa dei conti tra Plissken e lo “Stato Maggiore” al quale, manco a dirlo, l’Anarca carpenteriano non si piegherà nemmeno per idea.
«Se spegno il Terzo Mondo, loro perdono e voi vincete; se spengo l’America, voi perdete e loro vincono. Più le cose cambiano, più restano le stesse» riflette a voce alta Plissken, quasi “salomonico”, prima di spegnere letteralmente il pianeta, l’unico momento del film davvero notevole, se non grandioso nella sua trovata distopica.
Cattivo Sangue non Mente: Vampires
Reduce dal mezzo insuccesso di Fuga da Los Angeles, Carpenter torna ancora una volta alla classica strategia da opera a basso budget. E il nuovo film, Vampires, dovrà unire una … sanguigna ambientazione western contemporanea (l’inguaribile passione giovanile di Carpenter prende vita esplicitamente in questo film più che in tutte le altre sue opere) e un classico archetipo dell’horror, quello del vampiro, in questo caso nella sua accezione più brutale e ferina. Il tema vampiresco, nel cinema horror degli Anni ’90, è indelebilmente segnato da una pietra miliarie quale il Bram Stoker’s Dracula girato da Francis Ford Coppola, nel 1992; un’opera sicuramente superiore al patinato e decisamente sopravvalutato film (tratto dai romanzi di Anne Rice) attorno ai vampiri “superstar hollywoodiane” de Intervista col Vampiro, risalente a pochi anni dopo (e la serie di Twilight all’epoca era ancora lungi dall’essere girata, fortunatamente…). Discorso differente per il celebre Dal Tramonto all’Alba di Robert Rodriguez, molto vicino nell’ambientazione e nella caratterizzazione dei vampiri al film di Carpenter (ma, rispetto al quale, Dal Tramonto all’Alba riscuoterà molto più successo di pubblico visti i nomi coinvolti nel cast: George Clooney, Juliette Lewis, Harvey Keitel e soprattutto un Quentin Tarantino all’epoca in piena esplosione della sua fama).
Tratta dal romanzo Vampire$ di John Steakley, la pellicola narra dello sporco lavoro di Jack Crow (James Woods, memorabile interprete di C’era una volta in America e di Videodrome), rude e cinico capo di una squadra di mercenari ammazza-vampiri alle dipendenze del Vaticano: l’incipit con i membri del “Team Crow” che fanno irruzione e disinfestano un intero ranch adibito a covo di un branco di famelici succhia-sangue, passando l’intera giornata nell’operazione/epurazione, è da antologia non solo per l’opera di Carpenter, ma una delle trovate più innovative del cinema horror degli Anni Novanta).
Come accennato, Carpenter coglie l’occasione per mettere in scena la sua personale versione del mito del vampiro: in questo horror/western ambientato on the road ed insolitamente “solare”, infatti, i vampiri «Non parlano con un falso accento europeo, non sembrano dei transessuali in abiti da damerini, né dormono in bare foderate di velluto e merletti…» come fa notare un esagitato Jack Crow (degnamente doppiato da Francesco Pannofino) al personaggio di Padre Adam (l’attore Tim Guinee nel ruolo di un simpatico ed impacciato prete novizio) altro non sono se non delle laide belve (sovra)umane spietate e bramose di soddisfare la propria insaziabile sete di sangue. In questo modo, Carpenter riporta i vampiri dello schermo all’immagine tradizionale del folklore est-europeo (combinato con la concezione hobbesiana di homo homini lupus), di cui si trova traccia ad esempio nei racconti ottocenteschi La famiglia dei Vurdalak di Aleksej Tolstoj e Il Vij di Nikolaj Gogol.
Sottovalutato in patria (tanto per cambiare) e osannato dal pubblico e dalla critica qua da noi in Europa, Vampires concederà a Carpenter ulteriore fama e budget per eventuali futuri progetti. Tuttavia, il regista newyorchese preferirà allontanarsi dalle scene per ben tre anni.
Terrore sul Pianeta Rosso Sangue: Fantasmi da Marte
Dopo oltre tre anni di auto-esilio da Hollywood, nel 2001 John Carpenter torna dietro la macchina da presa con un nuovo soggetto: vengono così girate, presso una miniera di gesso dismessa sita fra il New Mexico e la California, le prime scene di Ghosts of Mars – Fantasmi da Marte, un esplosivo e adrenalinico mix di horror, fantascienza, thriller, western e action… ambientato nel 2176, su un quasi del tutto terra-formato pianeta Marte in mano ad uno stato di polizia interamente al femminile.
Fortemente (auto)debitore del classico carpenteriano Distretto 13 – Le Brigate della Morte (torna il tema dell’assedio e dell’alleanza fra le forze dell’ordine e i prigionieri, entrambi assediati da implacabili, sinistri e glaciali figuri), laddove in Distretto 13 gli assedianti erano una imponente banda di guerriglieri metropolitani, qui le poliziotte e i galeotti in loro custodia si ritroveranno a fronteggiare dei minatori posseduti dagli spiriti dei nativi marziani (questi ultimi destatisi dopo l’accidentale apertura di un sepolcro sotterraneo ad opera di una incauta archeologa, interpretata da Joanna Cassidy), una situazione in cui si potrebbe leggere un riferimento alla vera e propria invasione europea e al quasi totale sterminio dei popoli amerindi. Il film è inoltre, con ogni evidenza, debitore di 1997: Fuga da New York. È palese come il ricercato capobanda Desolazione Williams, impersonato dal rapper Ice Cube, sia un (auto-)rimando tanto al Napoleone Wilson di Distretto 13 – Le Brigate della Morte quanto, in buona parte, allo stesso Snake Plissken, per quanto il personaggio interpretato dal noto gangsta-rapper abbia decisamente meno mordente del laconico reietto messo in scena da Russell, al quale conferiva un gelido carisma quasi epico. Il film marziano di Carpenter arriva a citare nello stile narrativo addirittura Rashomon di Akira Kurosawa. Proprio come in Rashomon, in Fantasmi da Marte la storia è raccontata da più punti di vista, passando da un flashback ad un altro, spiazzando lo spettatore previa le continue versioni dei fatti esposti in stile polifonico.
“Zombie-movie” interplanetario e, forse, aggiornamento futuristico e spaziale di Distretto 13 e Fuga da New York e La Cosa, Ghosts of Mars viene presentato fuori concorso alla 58esima Mostra del Cinema di Venezia e spaccherà nettamente il giudizio della stampa. Poche saranno le recensioni positive ed il pubblico (fan di Carpenter in primis) e la critica internazionale in linea di massima storceranno il naso, decisamente poco convinti da questo western fantascientifico a basso budget volutamente rétro. Oramai siamo all’alba del Terzo Millennio, ed il pubblico in sala è ghiotto di film saturi di effetti speciali digitali [vii], poco importa se questo significa uccidere il Cinema con la C maiuscola.
Cinefilia & impegno sociale in salsa “gore”: Cigarette Burns e Pro-Life
Poco tempo dopo l’uscita nelle sale di Fantasmi da Marte (e il relativo insuccesso), Carpenter viene avvicinato dal collega regista Mick Garris: quest’ultimo ha radunato attorno a sé i nove più famosi registi horror degli ultimi trent’anni (John Landis, Takashi Miike, Dario Argento, Joe Dante, Don Coscarelli, Tobe Hooper, Larry Cohen, William Malone e Gullermo del Toro) affinché dirigano due film televisivi a testa della durata massima di un’ora circa l’uno. Convinto della validità dell’operazione, Carpenter si unisce al collettivo. Prodotta e distribuita da quella stessa Showtime che nel 1993 bocciò Body Bags – Corpi Estranei, nel 2005 nasce la miniserie televisiva di due stagioni Masters of Horror: Carpenter dirigerà Cigarette Burns (edito nella versione italiana con lo scialbo titolo Incubo Mortale, che non rende minimamente giustizia!), l’ottavo episodio della prima stagione.
Il mediometraggio brilla della propria luce oscura nella filmografia carpenteriana, in quanto restituisce un maestro dell’horror in grande forma e cosciente dei propri mezzi: il risultato è un film a tratti davvero inquietante. Per certi versi paragonabile, dal punto di vista di meccanismi narrativi, a Il Seme della Follia e a La Nona Porta di Roman Polanski (1999), Cigarette Burns racconta la discesa agli inferi del giovane proprietario di un cinema d’essai ed esperto di rarità e anticaglie cinematografiche, interpretato da Norman Reedus. Il “cinematografaro”, peraltro afflitto dalla depressione dovuta alla morte per overdose della sua fidanzata, viene contattato da un inquietante collezionista di film rari (Udo Kier), che vanta l’originale proprietà di un angelo caduto e mutilato tenuto prigioniero nella propria magione, e che commissiona al giovane il ritrovamento dell’unica copia di un film, La fin absolue du monde, dalla fama a dir poco infausta e, appunto, apocalittica.
Come sanno entrambi, pare che la detta opera, forse previa misteriosi messaggi subliminali, indurrebbe a raptus omicidi di massa (come accadde in occasione della prima del film). Il giovane “indagatore del cinema” parte per una allucinante odissea tra Nord America e Europa…
Brutale, e allo stesso tempo insinuante e disturbante come ben pochi altri film horror moderni, Cigarette Burns si dimostra un piccolo capolavoro di John Carpenter nella sua nuova riflessione sul terrore, sul cinema del terrore e sulle barriere tra realtà e incubo che si infrangono ancora una volta (con una efficacia quasi paragonabile ai gloriosi e oscuri fasti del Seme della Follia o del Signore del Male). Notevole, in questo caso, è la mancanza di ironia tipica del cinema carpenteriano (se si esclude la grottesca trovata “splatter” delle interiora utilizzate al posto della pellicola dall’ormai folle Udo Kier, nel suo mini-cinema privato dove avviene la strage finale), di cui si potrebbe trovare un precedente nell’orrore cosmico senza scampo in cui ci precipita La Cosa. Non casualmente abbiamo citati i capitoli della “Trilogia dell’Apocalisse”, poiché Cigarette Burns, incentrato sul film- “pseudobiblium” La fin absolue du monde, potrebbe in un certo senso essere considerato un ideale quarto capitolo della serie, o un suo epilogo, dopo La Cosa, Il Signore del Male e Il Seme della Follia, pur senza raggiungere le vette (o gli abissi?) quasi metafisici dei succitati film.
Carpenter dirigerà anche il quinto episodio della seconda stagione di Masters of Horror, intitolato Pro-Life – Il Seme del Male. Rielaborando il tema demoniaco / anticristico, da lui già frequentato con i grandi risultati de Il Signore del Male (e un po’ meno in Villaggio dei Dannati) Carpenter riesce a inserire anche in questo caso il suo amato assedio para-western. Ai danni, in questo caso, di una clinica abortista presa d’assalto dalla sinistra famiglia di un folle patriarca-predicatore biblico (interpretato dal possente Ron Perlman, inquietante volto assurto alla celebrità nel ruolo del monaco disagiato in Il Nome della Rosa di Jean Jacques Annaud), intenzionato a “salvare” la giovane figlia incinta di un’entità innominabile.
Pro-Life è quindi una sulfurea (ma più ironica di Cigarette Burns) riflessione sulla vita, la morte, il fanatismo religioso e su quando in certe date circostanze sia giusta o sbagliata l’interruzione di gravidanza, spingendo il quesito all’estremo e all’assurdo (senza quindi suggerire nessuna esplicita posizione ideologica da attivista “progressista” o da cattolico estremista, ovvero le “fazioni” dei personaggi del film): se una donna sapesse di essere incinta di un’entità portatrice del Male Assoluto, l’aborto sarebbe lecito o meno?
Trattamento Sanitario Orrorifico: The Ward
A tutt’oggi, l’attività cinematografica di John Carpenter si è conclusa nel 2010. Dopo un nuovo auto-esilio dalle scene, l’autore torna alla ribalta con un soggetto che ponderava da tempo (dal titolo provvisorio e poco ispirato di Psychopath, risalente al 2008, progetto arenatosi in fase di pre-produzione): hanno così inizio le riprese di The Ward – Il Reparto.
Ambientato nel 1966 (si potrebbe vedere in questa scelta l’idea di Carpenter di chiudere idealmente e simbolicamente il cerchio della sua carriera, dato che all’epoca frequentava l’università progettando i suoi futuri lungometraggi), il film racconta come la giovane e misteriosa Kirsten (Amber Heard) viene ricoverata in una sinistra clinica psichiatrica, a seguito di continui episodi di amnesia e inspiegabili atti di piromania. Qui, perseguitata dal fantasma di una ragazzina di nome Alice, la protagonista prima avrà dei conflitti (a volte sfocianti in aggressioni violente) con le altre pazienti e col personale, poi tenterà più e più volte di evadere dalla clinica (solo per essere ripresa e sottoposta a sedute di elettroshock ad opera dell’equipe guidata dal cinico Dr. Stringer). Convinta infine che Alice faccia parte di un gruppo di ex pazienti scomparse e uccise fra le mura dell’ospedale psichiatrico, Kirsten viene presa di mira assieme alle sue compagne di degenza da Alice, la quale arriverà ad uccidere una ad una le internate. Fino ad un inquietante finale a sorpresa degno di un episodio de Ai Confini della Realtà: tutta la storia, compreso il fantasma della misteriosa Alice e le stesse ragazze ospiti della clinica, non erano altro che una visione psicotica della protagonista. Ma è davvero così? O è un “poesco” sogno dentro a un sogno, espediente narrativo ricorrente nel cinema di Carpenter? L’inquadratura finale, dal tocco inconfondibilmente carpenteriano (solo ai grandi è concesso citare sé stessi…), ci spiazza ancora una volta, chiudendo degnamente il film e un’intera carriera cinematografica.
Se, forse, nemmeno stavolta siamo di fronte al miglior John Carpenter (le impressioni di critica e pubblico su The Ward sono varie e discordanti, ma siamo sicuramente qualche spanna sopra a un Fantasmi da Marte…), il tratto del regista rimane inconfondibile, in quanto, anche questa volta, riesce a proporre vari generi in un solo film: thriller (para)psicologico, ghost story, “slasher movie”.
L’unico riferimento, forse, che pare mancare nei vari ingredienti stilistici di The Ward è proprio il western (caso pressoché unico nell’opera carpenteriana, a parte il precedente Cigarette Burns), se si esclude l’onnipresente sequenza di assedio-inseguimento ai danni di Kirsten tra i meandri della clinica. Anche certi tratti caratteriali della protagonista, paranoica e complessata ma all’occasione dura e risoluta, potrebbero ricordare facilmente la Laurie Strode di Halloween, o addirittura una risposta femminile a personaggi carpenteriani come Snake Plissken e Jack Crow…
Nonostante una buona produzione (ad opera della Echo Lake Entertainment e della A Bigger Boat), del minuzioso impegno del regista newyorchese e della partecipazione di un cast abbastanza giovane e promettente, senza ovviamente dimenticare il supporto che gli appassionati carpenteriani riservarono al film attendendolo al varco, The Ward passerà – indovinate un po’? – quasi del tutto inosservato nelle sale.
«L’industria cinematografica appartiene a Wall Street, alle grandi società che guardano solo al profitto. Quello che importa è fare denaro. Punto. Nient’altro.
Ai vecchi tempi, i capi degli studios facevano film di successo, ma anche coraggiosi, film più noir o dark, o commedie, ma amavano il cinema. Per quanto duri fossero amavano il cinema.
Molti dei proprietari oggi non amano i film. Per loro una cosa vale l’altra.
È come fare macchine, o hamburger. È come McDonald’s![viii]»
Considerava, in tempi recenti, un disilluso John Carpenter, grande artigiano dell’horror cinematografico che, nel bene e nel male, ha fatto il suo tempo lasciando molto ai posteri. Il regista di Carthage, considerato che mala tempora currunt per l’horror artigianale e per l’immaginazione al potere, ha ormai appeso la macchina da presa al chiodo per dedicarsi a tempo pieno alle sue composizioni.
Non resta che apprezzare quanto le sue opere cinematografiche (ma anche musicali, considerando l’esistenza del progetto dark-synth francese che ha scelto di chiamarsi emblematicamente Carpenter Brut!) abbiano influenzato buona parte della cultura popolare contemporanea. Dai fumetti (quanti ragazzi italiani hanno scoperto il cinema di Carpenter attraverso le pagine di Dylan Dog?), ai videogiochi d’azione (il personaggio di Iroquois Plissken, protagonista della saga videoludica Metal Gear Solid porta un nome che suona quantomeno familiare), fino, naturalmente, a buona parte degli ultimi film fantascientifici a tema distopico e ai più inquietanti horror di nuova generazione, come si è ampiamente detto. E se mai un giorno vi saranno dei Premi alla Carriera dei Registi Anti-Hollywood, John Carpenter, uno dei più grandi teorici della decostruzione del Sogno Americano attraverso il mezzo del cinema fantastico, sarà il primo a farne incetta.
Nel frattempo, sappiamo che Snake Plissken, da qualche parte, continuerà a fumare silenzioso osservando il declino dell’Occidente, e le porte verso l’Altrove aperte da Sutter Cane faranno nuovi proseliti …
Niccolò Ernesto Maddalon & Jari Padoan
NOTE
[i]Giuseppe Carradori, La fin absolu du monde. L’apocalisse secondo Carpenter, in AA.VV., John Carpenter. L’antieroe del cinema americano, Weird Book, Roma 2020, p. 115.
[ii]A guisa di curiosità, anzi, di particolare non di poco conto, anche in questo caso Carpenter si occuperà della colonna sonora del film (con la collaborazione di Jim Lang), ed è interessante notare come i rispettivi, principali temi musicali dei film della “Trilogia” siano in effetti molto diversi. Lento e cupissimo l’incedere del tema de La Cosa, magniloquenti e quasi epico-medievali le atmosfere del Signore del Male, mentre nel Seme della Follia i titoli di testa e di coda sono accompagnati da un roccioso e cadenzato giro heavy metal che ricorda tanto i Black Sabbath più granitici quanto il celebre brano Enter Sandman dei Metallica (NdA).
[iii]Cfr. Mark Welder, I Semi della Follia: riferimenti a H.P. Lovecraft e Stephen King nei libri di Sutter Cane, in Studi Lovecraftiani n.21, Teramo 2022.
[iv]Giuseppe Carradori, cit., p.120.
[v]Cfr. AA.VV., Nathan Never presenta: Almanacco della Fantascienza 1997, Sergio Bonelli Editore, Milano 1997, p. 31.
[vi] Cfr. Paolo Mereghetti, Alberto Pezzotta, Paola Malanga, Il Mereghetti. Dizionario dei Film 2000, Baldini & Castoldi Milano, p. 731.
[vii] Michele Caricola, Incursioni nella Fantascienza, in AA.VV., John Carpenter. L’antieroe del cinema americano, cit., pp. 166-167.
[viii]John Carpenter, nota introduttiva in AA.VV., John Carpenter. L’antieroe del cinema americano, cit.
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