(recensione a cura di Luca Valentini)
Un approfondimento sull’immenso patrimonio artìstico e museale dell’Italia, con le dovute connessioni con le idee espresse dal cosidetto mondo della Tradizione, era un’analisi di cui si avvertiva onestamente la mancanza, e questo vuoto d’analisi è egregiamente colmato dallo scritto “Museologia e Tradizione” di Riccardo Rosati, che in un bel volume delle Edizioni Solfanelli, raccoglie una serie di articoli già apparsi sulla pagina telematica de Il Borghese. In un momento storico in cui la tutela e la salvaguardia dei siti artistici e museali è affidata quasi esclusivamente alla sensibilità di privati facoltosi (vedesi la triste vicenda del Colosseo e dei Della Valle), con l’assenza quasi permanente delle istituzioni pubbliche, ed in cui le opere di Dante sono oggetto di ostracismo da parte di organismi Onu, foraggiate dalle solite e ben note lobbyes, per non sappiamo quali assurde accuse di razzismo, il volume, che qui presentiamo, rappresenta una vera svolta di prospettiva, l’innesto di una marcia diversa, controcorrente, eretica, rispetto alla concezione con cui solitamente si affronta lo spinoso tema dei Beni Culturali.
Il patrimonio museale, nelle pagine del Rosati – che giustamente non si esime nel distribuire qualche sacrosanta “randellata” contro la gestione infausta di alcuni e non poco noti siti – viene “vissuto” come, non solo una risorsa, ma come il simbolo di un’appartenenza, di una radice, di quell’origine da cui è sorta, cresciuta e si è immortalata nei secoli la civiltà italiana ed europea tutta. In merito, molto condivisibile riteniamo che sia l’espressione di Claudio Tedeschi, nella sua presentazione dell’opera: “Dalla Grecia a Roma, l’antichità politeista ha sempre amato il bello che l’uomo poteva trarre dalla materia che la circondava…tutto raccontava la storia dell’Uomo e il suo rapporto sia con il mondo terreno sia con quello etereo”(p. 6). E’ importante come per l’Autore il museo sia primariamente un luogo dell’anima, un ritrovo filosofico della memoria collettiva della nostra Nazione, in cui bisogna assumere quel rispetto, quella venerazione che un credente fa propria in un pellegrinaggio. Qui si ritrova l’arcaica idea dell’Arte come espressione allegorica del Sacro e non, come modernamente intesa, come espressione estetica delle psicopatie dell’ego alienato. L’amore che il Rosati dimostra per la propria ricerca va ben oltre un mero interesse erudito e puramente culturale, ma scaturisce da un’adesione sottile ad una dimensione del Bello, come adesione ascetica all’Arte, con connotati quasi di mistica jungheriani: “Il silenzio del museo è un momento di astrazione e riflessione alla pari del romitaggio in una foresta”(p. 28).
L’opera è suddivisa in tre capitoli: il primo affronta gli annosi problemi della museologia (dalle collezioni straniere, alla ricerca, fino al ruolo svolto dalle Fondazioni); il secondo ci offre un bello spaccato delle preferenze dell’autore, in cui notiamo non solo la passione per l’italico e l’antico, ma anche un saggio apprezzamento per ciò che l’Oriente ha saputo esprimere nei nostri siti, come per esempio nel caso del Museo d’Arte Orientale di Trieste; nel terzo capitolo viene affrontata la situazione attuale dei Beni Culturali in tutta la sua problematicità, tra disinteresse, incompetenza e scarsa sensibilità.
In tutto ciò, in un bell’affresco sul nostro patrimonio e museale, così antico, ma anche diversificato e multiculturale, è un grande merito da ascrivere al Rosati quello di aver dedicato una posizione di assoluta preminenza a Roma, intesa non come concentrazione urbana del passato o del presente, come espressione spirituale dell’Eternità: “…se l’Italia è da considerarsi un Museo Universale proprio in virtù delle molteplici sfaccettature delle sue collezioni, la sua capitale è però universale non solo per la sua arte, ma soprattutto per essere una città che per sua natura è il centro di un afflato spirituale che coinvolge numerose fedi, giacché Roma non rappresenta soltanto la più
Qui, però, è d’uopo, una precisazione, per una migliore comprensione dell’ottimo volume del Rosati. Museologia e Tradizione possono e devono essere due concezioni correlati, ma tra cui non può stabilirsi un’identità, l’arte potendo essere un grande patrimonio allegorico e di memoria che riconduce l’animo umano verso la prima intuizione di dimensione trascendenti. Su tale punto, molti sviamenti si sono attuati nel decenni nell’ambito del tradizionalismo italiano. Una statua, un dipinto, un tempio sono la testimonianza di una realtà storica, ma anche il principio funzionale e simbolico di una realtà sottile, ma non sono quella realtà sottile. Ciò che un Massimo Scaligero denunciava come predisposizione lunare, come passatismo di forme estinte, è assolutamente il manifestarsi di codesta confusione. Il silenzio del pellegrinaggio a cui ci invita l’autore è un silenzio essenzialmente interiore, la sua ricerca e la sua riscoperta. In tale ottica, l’accostamento di Museologia e Tradizione è assolutamente positivo se assunto secondo l’amoroso approccio del Rosati; diviene, invece, assolutamente limitante e fuorviante se si esplicita in una limitazione formale, di rievocazione cimiteriale e polverosa, quasi da rievocazione storica e carnevalesca, di ciò che bisognerebbe assumere nel suo aspetto di perennità e non tramite il suo aspetto transeunte.
In conclusione, è con vero piacere che segnaliamo la giusta ed doverosa indignazione, contenuta nell’Appendice, circa la chiusura dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, la “più antica e prestigiosa istituzione di studi asiatici d’Occidente” … anche questi sono Segni dei Tempi!
Museologia e Tradizone di Riccardo Rosati, Edizioni Solfanelli, Chieti 2015, p. 122, 11 eu.