Nelle parti precedenti abbiamo esaminato la letteratura fantastica secondo l’angolatura delle suddivisioni per generi, sempre tenendo d’occhio le implicazioni politiche: fantasy, fantascienza, horror, ma ancora di più utopia e distopia (utopia negativa, che ha avuto come maestri Orwell e Huxley), ucronia (la storia fatta con i se), futurologia, fantapolitica, che dal nostro punto di vista presentano un maggiore interesse. Ora è arrivato il momento di cercare di trarre qualche conclusione.
Nei nostri ambienti, l’interesse per la narrativa fantastica è considerevolmente diffuso, e la cosa non desta certo meraviglia: esso è direttamente espressione dell’insoddisfazione che proviamo per il mondo così come ce lo vediamo attorno a noi. Riconosciamo che questo vale in una certa misura anche per la sinistra, o almeno per quella parte della sinistra che si crede opposizione. Tuttavia, il rapporto che costoro hanno con il fantastico è completamente diverso da quello che abbiamo noi. Se infatti, come abbiamo visto, c’è stato un tentativo di dare vita a una “fantascienza di sinistra”, d’altro canto sappiamo che alcuni dei maggiori autori del fantastico sono stati e sono ancora oggi oggetto di un’ostilità feroce da parte dei “compagni”. Qualche nome: John R. R. Tolkien, Howard P. Lovecraft, George Orwell, Jorge Luis Borges, Robert E. Howard, Robert Heinlein.
Il caso di Tolkien è forse anomalo rispetto agli altri, perché, vista l’enorme popolarità acquisita a suo dispetto dal Signore degli anelli e dal suo autore, la sinistra ha cambiato tattica, è passata dal rifiuto al tentativo di annessione, all’Anschluss ideologico, tentativo invero destinato a dimostrarsi alquanto grottesco. Poiché lo scrittore, di nazionalità inglese, è nato a Blohemfontein in Sudafrica, si è preteso che avrebbe partecipato a delle manifestazioni anti-apartheid, il che se fosse vero, implicherebbe una notevole precocità, perché la famiglia di Tolkien rientrò in Inghilterra quando il futuro autore del Signore degli anelli aveva due anni.
In generale, si può dire che la Weltanschauung che vediamo nell’opera tolkieniana, ispirata alla morale cavalleresca medioevale, fatta di onore, fedeltà, tradizione, senza alcuna paura di apparenti anacronismi, è del tutto incompatibile con una visione del mondo di sinistra, e tutti i tentativi di annessione in questo senso non possono essere che spuri. Dobbiamo però vedere se essa, con il suo ostentato cattolicesimo, sia rapportabile tranquillamente alla nostra visione del mondo senza riserve, e se l’entusiasmo che alcuni di noi manifestano nei confronti di Tolkien non sia per caso eccessivo, ma questo è un altro problema.
Io ho scelto nella mia esposizione un approccio basato sulla suddivisione tra i vari generi, sottogeneri o filoni di questa narrativa, ma si tratta di una scelta personale e, ad esempio, un approccio di tipo storico, sarebbe stato ugualmente legittimo.
Ora, riesaminando il lavoro sin qui fatto, si può facilmente notare quella che a prima vista può sembrare una stranezza: lo spazio relativamente modesto che ho accordato alla narrativa di fantascienza in senso stretto, confinata in una metà della terza parte, mentre ho dedicato l’altra metà all’horror. La ragione di ciò è semplice: anche se la fantascienza costituisce probabilmente la parte numericamente di gran lunga maggioritaria della narrativa fantastica (si pensi ad esempio che “Urania” della Mondadori, per tacere di tutto il resto, ha pubblicato e pubblica un romanzo o un’antologia di fantascienza con una cadenza settimanale o in certi periodi bisettimanale ininterrottamente dal 1952 a oggi), a parte poche eccezioni che ho debitamente menzionato come Robert Heinlein, è perlopiù inquinata dai paraocchi di un’ideologia progressista che, senza un briciolo di realismo, sogna espansioni umane nella Galassia che sono più o meno fotocopie tecnologicamente travestite di quella che è stata “la frontiera” degli Stati Uniti nel XIX secolo.
“Science Fiction”, è il nome che Hugo Gernsback ha dato al genere da lui creato e che iniziò a decollare vertiginosamente a partire dal 1926, e che nel 1952 in Italia Mario Monicelli, primo curatore di “Urania” (nata dapprima come rivista, poi trasformatasi in collana libraria) tradusse come “fantascienza”. Sia il termine inglese sia quello italiano (e l’invenzione semantica di Monicelli è stata forse l’unico tentativo di tradurre invece che semplicemente adottare il termine anglosassone) sono andati incontro a un grande successo e sono rapidamente entrati nell’uso comune, al punto che raramente ci domandiamo quanto siano appropriati.
Tuttavia, a ben guardare, quelle che ci propone la fantascienza non sono tanto estensioni della nostra conoscenza scientifica, quanto piuttosto della tecnologia di cui disponiamo: l’astronave interstellare, il robot il cui aspetto e il cui comportamento sono sempre più simili a quelli umani, l’esplorazione di mondi alieni, i contatti con intelligenze extraterrestri, macchine che ci consentano di viaggiare nel tempo come ci spostiamo nello spazio, e via dicendo. La scienza vera e propria, la visione del Cosmo e della posizione dell’uomo in esso, non sono molto diverse da quelle dei tempi di Gernsback, un eterno 1926 potremmo dire, compresa la fede nel progresso, un ottimismo, una fiducia nella possibilità dell’umanità di espandersi indefinitamente, che alla luce degli eventi che si sono succeduti nell’ormai quasi un secolo successivo, appaiono del tutto ingiustificati.
Gli sviluppi successivi della scienza, una percezione più esatta delle distanze interstellari unita all’insuperabilità della velocità della luce spiegataci dalla teoria della relatività (a meno che quest’ultima non sia del tutto falsa), semmai si presentano come ostacoli da superare, e lo stesso si può dire per l’inabitabilità degli altri mondi del sistema solare, è come se l’acqua sotto la chiglia del vascello fantascientifico si sia ridotta a un filo sempre più esiguo.
A volte mi è capitato di notare, non senza un’amara ironia, che persino la sociologia della fantascienza sociologica sembra essere rimasta tale e quale a quella del 1926, ad esempio un tema ricorrente che vediamo riproposto con insistenza da una serie di pellicole come L’uomo che fuggì dal futuro, La fuga di Logan, La decima vittima (dove il protagonista nasconde i genitori in casa per sottrarli all’eliminazione) è che anderemmo incontro a un mondo sempre più giovanile, dove le persone anziane sono semplicemente soppresse, mentre il trend chiaramente emerso negli ultimi decenni è esattamente il contrario, con anziani trattenuti fino a età sempre più elevata sul posto di lavoro e giovani perennemente al palo. Non è un Paese per vecchi, era il titolo di un film di qualche anno fa. Non è un pianeta per giovani, potremmo dire oggi del nostro mondo.
In un articolo successivo dedicato alle serie cinematografiche e televisive, abbiamo visto che peraltro quello condotto dal sistema hollywoodiano (non solo attraverso le pellicole di fantascienza) si può considerare un vero e proprio indottrinamento a base di ideologia progressista, democratica, cosmopolita, multietnica e via dicendo, tutte cose di cui dobbiamo essere consapevoli proprio per potercene guardare.
La fantasy, lo abbiamo visto, implica un discorso diverso: essa non significa affatto invenzione gratuita; piuttosto la descrizione di un mondo (o di un tipo di mondi) dove le condizioni di vita in definitiva sono quelle normali per la nostra specie, dove il contatto con il resto del mondo naturale non è precluso dagli immensi, grigi, pollai di cemento dove perlopiù viviamo, dove le relazioni umane non sono complicate fino all’assurdo dalla burocrazia, dove le comunità umane sono rette da valori e tradizioni come è normale che sia.
Tuttavia, anche in questo caso le cose sono un tantino più complesse di come possono apparire a prima vista. Esiste infatti una sorta di conflitto all’interno del genere fra fantasy “tolkieniana” e “howardiana”, fra quella che in qualche modo ricalca Il signore degli anelli e quella che si ispira alla figura del barbaro Conan. La differenza fra l’una e l’altra sarebbe data dal fatto che nella prima il richiamo a valori trascendenti, a qualcosa di simile a una metafisica con connotazioni religiose sarebbe chiaro ed esplicito, nella seconda invece assente, e quest’ultima sarebbe caratterizzata da una fisicità virile, “muscolare”.
La cosa è arrivata al punto che lo scrittore Fritz Leiber, per risolvere la questione senza far torto a nessuno, ha proposto di considerare i due filoni come due generi distinti, riservando al secondo, quello “howardiano” la definizione di Sword and Sorcery (“spada e stregoneria”), ricalcando l’espressione “cappa e spada”, e volendone sottolineare l’aspetto avventuroso, scanzonato e – potremmo dire – picaresco.
Il primo filone gode nei nostri ambienti di un entusiasmo probabilmente esagerato, per esso si è voluta coniare addirittura l’espressione di “sacro genere”, quasi che Il signore degli anelli e gli altri scritti tolkieniani fossero una sorta di nuovo vangelo. In ciò c’è parecchio malinteso. Tolkien vantava in maniera ostentata il suo cattolicesimo (anche perché i cattolici inglesi sono solo un po’ meno rari dei denti di gallina), eppure l’atteggiamento dei suoi eroi che combattono a fil di spada il male incarnato dai servi dell’Oscuro Signore, sono ben lontani dal cristiano porgere l’altra guancia.
Il regista neozelandese Peter Jackson ha realizzato la trasposizione cinematografica del Signore degli anelli con grande attenzione al testo di Tolkien. Ebbene, cosa dice il suo Gandalf?
“Non abbiate pietà, perché voi non ne riceverete”.
Riuscite a immaginare qualcosa di più lontano dal buonismo bergogliano?
Ma è proprio vero che il mondo di Robert Howard e del suo Conan è un mondo privo di valori? L’onore, il coraggio, il non ritirarsi dalla lotta quando si è in condizioni di inferiorità, non lo sono? Scusatemi se anche in questo caso menziono la trasposizione cinematografica che del resto mi sembra molto aderente al personaggio, ma nel suo Conan, John Milius mette in bocca al suo personaggio questa bellissima “preghiera” prima dello scontro finale:
“Neppure Tu ricorderai se eravamo uomini buoni o cattivi, ma saprai che pochi si sono battuti contro molti, e di questo Ti compiaci”.
Chi ritiene Robert Howard un autore arido non lo conosce o semplicemente non l’ha letto. Mi è capitato altre volte di citare un suo racconto non di fantasia eroica, Per l’amore di Barbara Allen, la storia struggente di un amore spezzato dal turbine della guerra civile americana.
Vi ho parlato nella diciassettesima parte dell’articolo che scrissi per la rivista “La soglia” In difesa di Conan dagli attacchi della “critica” canadese Elisabeth Vonarburg che per “difendere” l’heroic fantasy dall’attacco di un “critico” tedesco orientale, Hanns Joachim Alpers, pensò bene di “salvare” Tolkien e la fantasy femminista, condannando però Howard e il suo personaggio con una durezza estrema quanto priva di fondamento. La sua colpa era quella di aver proposto un modello di uomo forte e virile.
La fantasy femminista è un discorso a parte o forse un fenomeno degenerativo. Senza negare che esistano buone storie di heroic fantasy scritte da autrici, ad esempio il Ciclo di Earthsea di Ursula Le Guin, fin troppo spesso queste scrittrici mettono in campo guerriere, amazzoni, eroine cui fanno da contraltare personaggi maschili scialbi, sottomessi o decisamente negativi. Il tipo di narrativa concepito per solleticare l’ego di casalinghe frustrate.
Se fino a tempi estremamente recenti in cui la tecnologia ha cambiato del tutto il volto della guerra, il motivo per cui le donne sono state perlopiù escluse dal portare le armi, non è lo spirito di sopraffazione maschile, né (non principalmente) un fatto di differenza di forza fisica. I vuoti nella popolazione maschile possono essere facilmente rimpiazzati, perché un uomo può fecondare molte donne mentre una di loro porta a termine una gravidanza. La fecondità di una popolazione dipende dal numero delle donne in età fertile. Queste ultime costituiscono biologicamente un capitale troppo prezioso per arrischiarlo sui campi di battaglia, per questo il “modello amazzone” è sempre stato perdente.
Nel genere horror troviamo delle ambiguità ancora maggiori. I grandi classici del passato, da Edgar Allan Poe a E.T.A. Hoffmann, a Mary Shelley (il pretesto che il dottor Frankenstein riporta in vita il mostro con mezzi “scientifici” è un argomento debole per considerare il romanzo della scrittrice un precursore della fantascienza piuttosto che rientrare nell’horror), a Bram Stoker, a H. P. Lovecraft, appaiono oggi desueti. In libreria, anche se recentemente il fenomeno è scemato (ma pare che l’arte della lettura si vada perdendo), abbiamo visto un pullulare di storie vampiriche e licantropiche erotico-sentimentali, mentre sugli schermi dominano incontrastati gli zombi. Siamo agli antipodi della tradizione classica che metteva in luce l’inquietudine dell’uomo di fronte al mistero e al soprannaturale, per passare agli effetti truculenti di bassa macelleria.
Rimarrebbe da completare il discorso su quei sottogeneri: utopia, distopia, ucronia, fantapolitica, che sono poi quelli sui quali in precedenza mi sono maggiormente soffermato per la loro connessione evidente con la dimensione politica. Vedrò perciò ora di essere sintetico. Il classico dei classici in questo campo rimane un autore ferocemente odiato dalla sinistra: George Orwell, coi suoi romanzi 1984 e La fattoria degli animali.
Gioverà ricordare che Orwell è “nato” a sinistra. Di formazione anarchica, combatté volontario dalla parte repubblicana nella guerra civile spagnola, e qui ebbe modo di rendersi conto che, mentre combattevano il franchismo, i comunisti conducevano una guerra civile parallela contro le altre formazioni repubblicane, che sostanzialmente il comunismo è incompatibile con qualsiasi altra opzione politica e il suo scopo è quello di privare la gente della libertà, di costruire la tirannide perfetta che egli ha raffigurato in 1984.
Forse però, con il suo tono da favola, La fattoria degli animali è ancora più esplicito, ci mostra come la rivolta degli umili (in questo caso gli animali di una fattoria che ne scacciano i padroni umani), adeguatamente manipolata, possa convertirsi in una tirannide ancora peggiore, esattamente come è avvenuto con la rivoluzione d’ottobre e le altre rivoluzioni-fotocopia comuniste. Non a caso, i membri della nuova classe dirigente, della nomenklatura sono i maiali.
E’ stata una mia scelta, di cui mi prendo la responsabilità, quella di considerare la futurologia, questa “nuova scienza” che si pensava dovesse dare oggettività a quella che era un tempo l’arte del vaticinio, ed è poi sostanzialmente scomparsa, alla stregua di un genere letterario o di una branca della fantascienza. Tutto parte, lo ricorderete, da un famoso discorso tenuto nel 1961 da John Kennedy, allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti, in cui introdusse il concetto di nuova frontiera. In poche parole, lo spazio sarebbe dovuto essere il luogo di sviluppo di un’umanità sostanzialmente a stelle e strisce, come lo era stata per gli Stati Uniti la frontiera del West nel XIX secolo. Dal punto di vista propagandistico, fu un colpo di genio che andava a rinsaldare l’ormai esangue mito progressista mentre I limiti dello sviluppo (come titola il rapporto del Club di Roma del 1970) diventavano sempre più evidenti. Lo spazio si è dimostrato impossibile da colonizzare come lo fu il West, e l’interesse è rapidamente scemato. Il dubbio maggiore è se lo stesso Kennedy credesse a questa illusione che comunque gli fruttò la presidenza, o se si trattò invece di un inganno consapevole.
“Abbiamo provato il futuro”, ha detto qualcuno, “Non rende”. Ma il futuro comunque arriva, anche se non è quello che ci eravamo aspettato.
Un ultimo punto che sarà il caso di riesaminare, è quello dell’ucronia (termina mutuato da utopia – ou kronos “nessun tempo”, al posto di ou topos “nessun luogo” -) per indicare quella che potremmo chiamare “la storia scritta coi se”: se l’impero romano non fosse caduto, se i sudisti avessero vinto la guerra di secessione, se la seconda guerra mondiale fosse stata vinta dall’Asse, eccetera.
Abbiamo visto che in questo campo, a parte alcuni classici come La svastica sul sole di Philip K. Dick, la produzione degli autori italiani è in genere nettamente migliore di quella statunitense. Vorrei ricordare, oltre a numerosi romanzi di questo genere l’ottima antologia della Vallecchi Se l’Italia curata da Gianfranco De Turris alla quale pure il sottoscritto ha avuto l’onore di partecipare.
Questo non solo perché in genere abbiamo una cultura storica, almeno quelli della mia generazione o precedenti, nettamente superiore a quella degli statunitensi, ma soprattutto perché mentre gli autori ucronici americani hanno il compito di rassicurare il loro pubblico che qualsiasi svolta storica diversa da quella serie di disgraziate coincidenze che li ha portati a essere i signori del pianeta (o a reputarsi tali) sarebbe stata peggiore, noi possiamo prospettare delle alternative migliori che si sarebbero potute verificare rispetto a una storia sfortunata che ci ha “regalato” quindici secoli di dominazioni straniere e poi la catastrofe della sconfitta nella seconda guerra mondiale. E poi, diciamolo, gli autori italiani sono bravi, più di quanto si pensi a causa dell’esterofila imperante.
Un po’ di orgoglio nazionale? Con la lunga storia che abbiamo alle spalle, penso che possiamo proprio concedercelo.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra Il signore degli anelli di John R. R. Tolkien, capolavoro della fantasia eroica, al centro un’antologia di racconti di H. P. Lovecraft, maestro del genere horror, a sinistra 1984 di George Orwell, capolavoro della fantascienza sociologica e della distopia.