Qualche tempo fa “Ereticamente” ha pubblicato un articolo di Riccardo Rosati, Le meraviglie dell’impossibile, che dovrebbe essere una recensione del libro omonimo a cura di Riccardo Gallesi (edizioni Mimesis) che contiene una serie di saggi scritti da Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, e che porta come sottotitolo Fantascienza: miti e simboli, ma è piuttosto una sintetica panoramica del lavoro svolto da questi due critici e curatori (marginalmente anche autori) in un sodalizio che ha ormai superato il mezzo secolo di vita, essendosi formato nel 1962.
Io a questo riguardo vorrei dire che mi capita di condividere solo parzialmente l’approccio di De Turris e Fusco alla letteratura fantastica e fantascientifica, ma che a ogni modo non si può contestare loro l’enorme merito di esserci e di rappresentare un punto di riferimento per così dire ineludibile, e non solo per l’amplissimo lavoro svolto in questo lungo sodalizio che rappresenta indubbiamente una parte non trascurabile della nostra cultura.
Io adesso dovrò scendere sul personale, perché il lavoro dei due critici e curatori si sovrappone alla mia personale esperienza. Io ho, ho avuto fin dall’adolescenza un interesse per la narrativa fantastica che si è espresso nel corso degli anni in una produzione narrativa alquanto vasta, nel corso della quale credo di aver toccato un po’ tutte le tematiche della fantascienza, della fantasy, dell’horror.
Una piccola premessa: mi capiterà qui di usare termini stranieri. In generale io sono contrario alla tendenza oggi così diffusa a imbarbarire la nostra lingua infarcendola di espressioni anglosassoni: è una forma di provincialismo e di arretratezza culturale per cui si ritiene di essere “fighi” dicendo in inglese quello che si potrebbe dire benissimo in italiano, e quello squallido personaggio che è attualmente – e speriamo ancora non per molto – presidente del Consiglio, ce ne ha dato parecchi esempi incentivando questa sciagurata tendenza; tuttavia l’uso – ovviamente con moderazione – di termini stranieri diventa legittimo quando si tratta di rendere concetti che non hanno un preciso sinonimo italiano, ed è questo il caso in questione; “fantasia” e “orrore”, infatti, in italiano indicano piuttosto delle disposizioni d’animo, dei sentimenti, non dei generi letterari come “fantasy” e “horror”, e dobbiamo essere grati a Mario Monicelli, primo curatore di “Urania” per aver coniato la parola “fantascienza” liberandoci dalla necessità di dire “Science Fiction”.
Se si ha la fortuna di disporre di una certa apertura mentale, è quasi impossibile non chiedersi cosa ci possa riservare un futuro certamente ignoto, ma che con tutta probabilità sarà diverso dal presente non meno di quanto il tempo in cui viviamo lo è dal passato anche recente; se poi si dispone anche di un certo talento per lo scrivere e inventare storie, allora il gioco è fatto.
Occorre anche evidenziare che in realtà la scelta del fantastico come genere narrativo non implica un minore realismo rispetto alla narrativa cosiddetta realistica e che qualcuno giustamente definisce “mimetica” (cioè che imita la realtà), anzi è probabilmente vero il contrario; ad esempio, l’abitudine a pensare in termini di “qui e ora” ci dice che è impossibile che la nostra vita cambi radicalmente nel giro di un minuto; la fantascienza ci avverte che ciò è perfettamente possibile a seguito, ad esempio, di un conflitto atomico o di una catastrofe naturale.
Tuttavia, premesso tutto questo, devo dire che mi è capitato di percepire, a volte come una contraddizione dolorosa, l’impressione di muovermi tra due orizzonti mentali, due mondi, del tutto diversi e contrapposti, infatti perlopiù nella fantascienza domina una mentalità “progressista” che è in totale contraddizione con il mio modo di vedere le cose (e anche suppongo con il vostro) quando applico gli strumenti dell’analisi sociale e politica, e per questa ragione credo sia opportuno dimostrare gratitudine a Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco perlomeno per il fatto di dare l’esempio del fatto che è possibile accostarsi a queste tematiche – e con strumenti culturali di valore tutt’altro che disprezzabile – con un approccio del tutto diverso da quello delle vestali del progressismo.
Oggi la fantascienza, almeno come è vista da costoro, fa riferimento a una “mitologia” o a una serie di convenzioni letterarie sempre meno credibili: in un mondo limitato e affollato da un’umanità strabocchevole, è possibile uno sviluppo tecnologico illimitato? Cosa dire di “effetti collaterali” come l’esaurimento delle risorse e la distruzione dell’ambiente? E là fuori, fuori dal nostro pianeta non c’è nulla di propizio all’espansione umana: pianeti che sono inferni gelati o roventi, mentre le stelle più vicine a noi ci sono negate da abissi di vuoto incommensurabile. Lo sviluppo ha dei limiti che non possono essere superati, l’aveva già spiegato il Club di Roma nel 1970, ma non gli si è voluto credere.
Dell’horror forse non varrebbe nemmeno la pena di parlare, tanto oggi il settore è ridotto a rappresentazioni truculente già pensate per la trasposizione cinematografica a uso e consumo di un pubblico rozzamente infantile che vuole solo veder scorrere il sangue, o al filone vampirico-sentimentale.
Rimane la fantasy come genere probabilmente oggi più vitale, genere particolarmente inviso ai “progressisti” che l’accusano di essere semplicemente “un’evasione”. John R. R. Tolkien rispondeva – è noto – che questo tipo di condanna confonde la “santa fuga” del prigioniero con la diserzione del soldato. “Chi è contrario all’evasione?”, diceva, “Ovviamente, i carcerieri”.
Io credo tuttavia che la lettura di Tolkien (probabilmente sopravvalutato come autore e ancor più come critico) sia ancora riduttiva. L’evasione del prigioniero non può che essere fittizia, durare il tempo in cui ci si immerge nelle pagine di un libro, ma un mondo da cui si sente il bisogno di fuggire, un mondo in cui ci si sente prigionieri, non dev’essere poi un gran bel mondo.
Forse l’hanno capita meglio i “progressisti” per contrastarla di quanto l’abbiamo capito noi stessi, ma la fantasy, soprattutto l’heroic fantasy, ha anche una valenza politica a partire dal fatto che si presenta come un rifiuto degli errori e degli orrori della modernità.
Contro una burocrazia che ha complicato fino all’assurdo le relazioni umane, essa ci dipinge un mondo in cui i rapporti umani sono semplici: lealtà fino alla morte o odio mortale. Contro una scienza sempre più esoterica e incomprensibile, ci presenta una magia casalinga. Contro una tecnologia che ha trasformato le comunità umane in giganteschi pollai di cemento, essa raffigura un mondo in cui la vita umana si svolge a stretto contatto con l’ambiente naturale, fra campi, foreste, mari ignoti, monti dalle cime inviolate; in ultima analisi ci rappresenta quelle che sono le condizioni di vita normali per la nostra specie, e mette sotto accusa ciò che la modernità ha prodotto in nome di utopie più o meno folli e deliranti, quello che un grande scienziato non a caso anch’egli inviso alla sinistra, Konrad Lorenz, ha definito l’auto-addomesticamento della specie homo sapiens.
Questo messaggio, presente in Tolkien in maniera edulcorata e ambigua, disperso e mimetizzato tra nanetti, maghi e folletti, è invece esposto con “barbarica” franchezza da Robert E. Howard, il creatore di Conan.
Non a caso, mentre l’atteggiamento della sinistra nei confronti di Tolkien è sempre stato ambiguo e ondivago (Negli anni ’70 all’apparire in Europa e in Italia del Signore degli anelli, l’opera fu subito circondata da un generale rifiuto e ostracismo, ma nel frattempo essa era diventata nientemeno che “la bibbia” degli hippy californiani che la interpretavano come una rivolta anarcoide contro il potere, senza distinguere tra potere legittimo e quello basato solo sulla brutale costrizione), Robert Howard ha sempre ricevuto e continua a ricevere da essa un’ostilità senza mezzi termini.
L’autore di Conan è troppo esplicito per non urtare contro il muro dell’ortodossia del “politicamente corretto”, per il suo affermare senza peli sulla lingua che la barbarie, magnificamente incarnata nella figura di Conan, è in definitiva lo stato naturale dell’essere umano e forse il suo torto maggiore, o quanto meno non da poco, è quello di presentare con Conan una figura virile in faccia a un’epoca e una cultura in cui i modelli virili sono stati letteralmente cancellati per far posto alle anomalie gender.
A questo riguardo, c’è una storia che vorrei raccontare, e penso non sia priva d’interesse.
Negli anni ’70 un critico di fantascienza dell’allora Germania orientale, Hanns Joachim Alpers pubblicò su “Science Fiction Studies”, una delle più importanti pubblicazioni a livello mondiale un articolo che era un durissimo attacco contro il genere fantasy, un attacco i cui argomenti non ci vuole davvero molta difficoltà a immaginare: la fantasy sarebbe espressione dell’alienazione capitalistica, mistifica i rapporti di classe e via dicendo, tutto il consolidato sciocchezzaio dell’ideologia marxista. Considerato che allora gli scrittori dei Paesi dell’est, tranne pochi ed emarginati dissidenti, scrivevano sotto dettatura dei rispettivi regimi, verrebbe proprio da dire: senti da che pulpito viene la predica. Da un altro punto di vista, potremmo considerare questo articolo come la scomunica ufficiale della fantasy da parte del potere sovietico e regimi ad esso collegati: tutto talmente scontato che non varrebbe la pena di occuparsene ora se la vicenda non avesse avuto un seguito piuttosto interessante.
In risposta all’articolo di Alpers, l’autrice canadese Elisabeth Vonarburg scrisse un ampio saggio in difesa della fantasy che fu pubblicato suddiviso in tre puntate sui numeri 25, 27 e 28 della rivista “Requiem”- “Solaris” (la pubblicazione cambiò testata mentre la pubblicazione del saggio era in corso).
A leggere la “difesa” della fantasy della Vonarburg, c’è da rimanere allibiti, essa si rivela più devastante dello scontato attacco di Alpers. In pratica si fonda sulla distinzione tra “Sword and Sorcery” (“spada e stregoneria”), ossia il sottogenere proprio di Robert Howard e dei suoi epigoni da un lato, e quella che a parere della Vonarburg sarebbe l’heroic fantasy vera e propria dall’altro, cioè Tolkien e le autrici femministe come Leigh Brackett, Ursula Le Guin, Marion Zimmer Bradley. Salvata in qualche modo la seconda, la prima è condannata senza appello per il suo carattere “maschilista” in toni ancor più roventi di quelli usati dal critico tedesco-orientale.
Sulle ambiguità di Tolkien ho insistito più volte in diverse sedi, anche sulle pagine di “Ereticamente” (si veda ad esempio l’articolo Tolkien, un maestro della Tradizione?), quanto alle autrici femministe citate dalla scrittrice canadese siamo a volte nel delirio puro, che ci dipinge un universo di amazzoni virago cui si contrappongono uomini perlopiù svirilizzati ed effeminati. Ricordo che diversi anni fa una mia conoscente mi convinse a leggere Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer Bradley. Onestamente, in vita mia ricordo di aver letto ben pochi libri altrettanto brutti e sgradevoli (e io sono uno che di libri ne legge parecchi, almeno una trentina all’anno): il ciclo arturiano ridotto a pettegolezzo, a gossip sulla bocca delle damigelle della corte di Camelot.
E’ da notare poi che nel suo saggio, la Vonarburg usa una metodologia “critica” talmente scorretta da essere non al limite della malafede, ma abbondantemente dentro di essa; ad esempio, in nessuno dei tre ampi articoli che compongono il suo saggio, analizza nemmeno un rigo scritto da Howard e in compenso di diffonde sull’analisi dei presunti atteggiamenti misogini di un suo semi-sconosciuto imitatore, Gardner Fox.
In definitiva, sia i deliri materialisti dialettici di Alpers, sia quelli femministi della Vonarburg non fanno che riconfermarci l’odio della sinistra per quella che non è semplice “evasione” ma, espressa in forma letteraria, una visione del mondo radicalmente alternativa alla loro.
Purtroppo, e me ne dispiace, sono venuto a conoscenza del saggio della Vonarburg soltanto molto più tardi rispetto all’epoca della sua stesura. Nel 2002 nella ricorrenza dei settant’anni dalla creazione del personaggio di Conan da parte di Robert Howard, la rivista “La Soglia” di Pistoia (pubblicazione che, a dispetto di una veste grafica piuttosto spartana, è indicata come pubblicazione professionale dal catalogo Vegetti della fantascienza) dedicò un numero speciale all’eroe cimmero. Qui compare un mio articolo, In difesa di Conan, dove ho ribattuto punto per punto alle accuse di queste squallide vestali marxiste-femministe della modernità.
Se noi andiamo a esaminare da vicino il mondo disegnatoci dalla heroic fantasy, scopriamo diverse cose interessanti. Ad esempio, molti elementi, dall’ambientazione fisica, al livello tecnologico, all’organizzazione politica e sociale rimandano al medio evo, anche se cronologicamente possono riguardare qualsiasi epoca, dal remoto passato a un lontanissimo futuro o a mondi con nessuna relazione spazio-temporale col nostro, tuttavia c’è un elemento del mondo medioevale di cui molto difficilmente troveremo traccia nell’heroic fantasy, la religione cristiana, mentre al contrario abbondano i riferimenti a tradizioni, saghe e deità celtiche e nordiche. In Tolkien c’è qualche riferimento al cristianesimo, in alcuni punti del Silmarillion si allude a un destino “oltre le mura di Arda (il mondo materiale)” che Ilùvatar, il Dio supremo avrebbe riservato agli uomini senza rivelarlo neppure ai Valar (gli dei dell’Olimpo tolkieniano), ma dà l’impressione di essere stato appiccicato lì per soddisfare il cattolicesimo dichiarato dell’autore senza toccare il significato reale della sua opera da cui si evince – a suo dispetto – piuttosto una Weltanschauung celtico-pagana.
Tutto ciò dimostra una volta di più che il cristianesimo è qualcosa di sovrapposto, ma in realtà estraneo al senso profondo e più autentico della cultura europea.
Anche a questo riguardo, credo di poter citare un episodio personale. C’è un autore italiano che io adesso non voglio nominare per non fargli pubblicità, che si è prefisso il preciso scopo di creare una fantasy cattolica in contrapposizione alle tendenze pagane prevalenti in questo genere. Poiché la fantasy è, almeno in Italia, un genere fortemente “di nicchia”, ho cercato di coltivare rapporti cortesi anche con questa persona. Poiché è curatore di un sito, un paio di anni fa gli avevo mandato alcuni racconti. Con mia sorpresa, mi ha comunicato di essersi fermato a metà della lettura del primo, avendolo trovato “del tutto illeggibile”. (per la cronaca, si trattava del racconto Sangue di strega, che è stato pubblicato on line sul sito de “La zona morta” essendo finalista del premio “Trofeo La Centuria” 2015, e poi nella mia antologia Primavera sacra e altri incantesimi. Come potete verificare se andate a leggerlo, non si tratta né di un racconto lungo, né con una trama particolarmente complicata né scritto con un linguaggio complesso o barocco, e neppure che tocchi il problema religioso in una maniera che possa riuscire fastidiosa per un cattolico.
Ciò che mi sembra suggerire quest’esperienza, è che la differenza di mentalità non dipende da differenze ideologiche o religiose, ma sono queste ultime, semmai, a dipendere da differenze di mentalità intesa proprio come organizzazione cerebrale o come conseguenza diretta di quest’ultima.
Ora, sarà bene ribadire un concetto che ho evidenziato più volte e, come è ovvio, non solo sulle pagine di “Ereticamente”: una serie di circostanze storiche e politiche che ben conosciamo ha portato il mondo anglosassone e in particolare gli Stati Uniti a diventare dominanti nell’ambito della cosiddetta cultura occidentale, con l’Europa, soprattutto a livello culturale quella di lingua non inglese, in un una condizione di minorità. Gli autori di lingua inglese, soprattutto quelli americani, sono quelli che hanno avuto le maggiori opportunità di porsi in evidenza a livello mondiale, perlopiù con il risultato di abbassare il maniera disastrosa il livello intellettivo del cosiddetto mondo occidentale.
Tuttavia ciò non toglie che eccezionalmente si incontrino autori, magari di lingua inglese, magari americani, che con l’humus delle origini europee abbiano mantenuto un legame estremamente saldo, che anzi emerge forse con una prepotenza maggiore che se fossero vissuti sul Vecchio Continente, quasi che trovarsi in una terra estranea a queste radici abbia costituito una sorta di tempra. Questo è certamente il caso dei due maestri della letteratura fantastica, nel campo dell’horror H. P. Lovecraft e in quello dell’heroic fantasy Robert Howard.
E’ tutto un fondo ancestrale europeo che emerge dalla sua opera, profondamente intriso di suggestioni celtiche e nordiche ma anche, a tratti, proprie del mondo classico greco-romano sebbene molto più raramente, il volto di un’Europa “barbarica” che conosce poco della civiltà e nulla affatto della dottrina del Discorso della Montagna, il nostro volto più autentico in ultima analisi.
Un’interpretazione che potremmo estendere in varia misura, a seconda della qualità di ciascuno, anche agli altri autori che si sono cimentati in questo filone letterario.
Alla fine, che gli autori che si cimentano nel campo ne siano consapevoli o meno, noi possiamo considerare la fantasia eroica da un lato come denuncia delle aberrazioni della modernità, dall’altro come rivendicazione dell’immenso patrimonio culturale che si collega alla nostra identità europea.
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