NOTA: Dopo parecchio tempo riprendiamo il discorso sulla narrativa fantastica, discorso che io non ho mai avuto intenzione di far cadere, ma che spesso ha dovuto lasciare il passo a tematiche più urgenti. La cosa è tanto più spiacevole in quanto questo articolo avrebbe dovuto costituire uno stretto pendant con la quattordicesima parte, costituendo insieme a esso un’analisi della critica fantascientifica italiana. Ve lo presento adesso, abbiate pazienza: per le cose impossibili non c’è problema, ma i miracoli non ho ancora imparato a farli.
Riprendiamo il racconto della nostra storia da dove l’avevamo lasciato la volta scorsa, considerando stavolta il “lato destro”. Eravamo rimasti al ’78, quando in seguito all’articolo di Remo Guerrini pubblicato sulla rivista “Robot”, si scatenò una vera e propria campagna di linciaggio morale contro Gianfranco De Turris e Sebastiano Fusco, e la casa editrice Fanucci per la quale i due critici lavoravano. Linciaggio morale che, lo ripeto, i due non avevano fatto proprio nulla per provocare.
Ora, tenete presente che un editore è soprattutto un imprenditore. Per evitare grossi guai alla sua azienda, Fanucci decise di licenziare in tronco Gianfranco De Turris, che dei due critici romani era quello che si era maggiormente esposto Sebastiano Fusco rimase nella ditta ma in una posizione più defilata, mentre il posto di De Turris fu preso da Gianni Pilo. Questo comportò anche una frattura nella collaborazione fra i due critici, che si è ricomposta solo in tempi piuttosto successivi.
Gianni Pilo non credo avesse una collocazione politica precisa, era soprattutto un uomo che approfittava delle circostanze secondo quanto gli convenisse, oltre ad avere una stima di sé francamente esagerata. Oltre a curare i libri della Fanucci, dirigeva la rivista amatoriale “SF…ere” (devo dire che il gioco di parole contenuto nella testata era forse la cosa più pregevole di questa pubblicazione, che in inglese suonava come “epoca della SF”, cioè della fantascienza, ma recava come sottotitolo una frase di Dante: “Volgendo gli occhi alle superne sfere”), per questa pubblicazione, comunque vantava tirature roboanti e assolutamente non realistiche. Ricordo che gli inviai un articolo sulla fantascienza italiana, che pubblicò inserendovi un paragrafo in lode di se stesso e delle sue esercitazioni narrative. La cosa mi procurò una vivissima irritazione: non sopporto che qualcuno mi metta in bocca cose che non mi sono mai sognato di dire, ma dovetti tenermela per me, perché in quel periodo, tranne la Fanucci e “SF…ere”, non era che altri sbocchi dove pubblicare fantascienza ce ne fossero molti.
Una “scoperta” di Gianni Pilo come curatore della Fanucci, fu Domenico Cammarota. Naturalmente, negli scritti di questo “critico”, tanto per testimoniare il nuovo corso della Fanucci dopo il periodo di De Turris, non mancano le sparate antifasciste, come questa, si tratta dell’articolo Ancora sulla fantasia eroica che si trova in appendice all’antologia Eroi e sortilegi (Fanucci 1986):
“Da parte nostra continueremo sempre e comunque ad affermare con ogni mezzo che questa pretesa di volersi impossessare per oscuri fini di temi e tematiche popolari come quelle del Fantastico, è una pretesa del tutto assurda, inconsistente ed inqualificabile.
Battuti da sempre, storicamente e politicamente sul piano del reale, costoro vorrebbero rifarsi ex abrupto una pretesa “verginità” cripto-idealistica sul piano dell’Irreale; ma il loro approccio è talmente rozzo, inadeguato e francamente ridicolo, da riscuotere quasi sempre la pietà e quasi mai l’approvazione.
Impera in questi individui l’afflato parossistico e “novissimo” di una fine imminente, di una riappropriazione dei frammenti dilacerati del sociale; in questo modo i fantasmi sanguinosi della Repubblica di Salò e delle Waffen-SS possono mescolarsi agilmente con il rimpianto delle società auliche pagane, e il vagheggiamento di surreali “altre realtà” a noi contingenti”.
Ma aspettate, leggete la conclusione dell’articolo:
“L’uomo è solo, ma come il servo di Democrito, come il monaco di Bataille: non trema e non ristà immobile, a capo chino contro le tenebre del grande meriggio; ma alza il viso al sole morente, leva il pugno della disperazione e la spada della rivolta, ridendo di una gioia tragica e feroce alla ventata gelida e silente della morte. E’ questo, l’Eroe”.
Che ve ne pare? Non suona precisamente di sinistra. E non è tutto, nell’articolo cita perfino Pierre Drieu La Rochelle, una frequentazione letteraria perlomeno strana per un “compagno”. Io ho sempre nutrito il sospetto che Cammarota sia “nato” e formatosi culturalmente nella nostra “area”, ma che per convenienza, per opportunismo ostentasse tutt’altre posizioni, e onestamente mi pare che sarebbe assai difficile che le cose possano stare in una maniera diversa: l’ideologia marxista, difatti, ritengo non fornisca approcci alla letteratura fantastica, ma chi vi è coerentemente imbevuto avrebbe solo la strada del più plumbeo “realismo socialista”. Ne ho parlato ampiamente la volta scorsa, e questa ne è una conferma in più.
Rileggetevi la frase finale del pistolotto antifascista:
“E il vagheggiamento di surreali “altre realtà” a noi contingenti”.
E’ chiaro che questa frase non ha senso, perché lo avesse, Cammarota avrebbe dovuto scrivere “altre realtà” a noi trascendenti”, non contingenti; è chiaro che di filosofia e terminologia filosofica ne masticava poca, ma questo è ancora nulla, perché nell’articolo c’è uno svarione davvero marchiano, là dove egli attribuisce lo scritto Perché non possiamo non dirci cristiani a Bertrand Russell, si tratta invece di un’opera di Benedetto Croce. Il filosofo inglese è invece autore di un libro dal titolo vagamente simile, ma dal significato ben diverso: Perché non sono cristiano. Russell, noto e accanito ateo e anticlericale, era verosimilmente l’ultimo che potesse spezzare una lancia in favore del cristianesimo
Domenico Cammarota mi è sempre sembrato l’esempio classico di quegli individui che cercano di ostentare una cultura che in realtà non possiedono ma, come è prevedibile, riescono a fare fessi solo quelli che ne sanno meno di loro.
Una cosa che certamente Domenico Cammarota aveva in comune con Gianni Pilo, era un ego ipertrofico, una grandissima presunzione. Una volta lo incontrai a un Italcon, una delle convention nazionali annuali della fantascienza. Egli lanciò una sfida ai presenti: che chi voleva gli facesse una domanda su di un qualsiasi argomento di cultura generale, ed egli avrebbe saputo rispondere.
Aveva trovato pane per i suoi denti. Gliene feci una io, ben calcolata, lasciandolo a fare scena muta e una ben meritata figura fecale. Per la cronaca, tornato dalla convention feci la stessa domanda a mia madre che aveva la quinta elementare, e seppe subito darmi la risposta corretta (è vero che una quinta elementare dei tempi in cui mia madre era ragazza, equivaleva tranquillamente a una maturità di oggi, ma questo è un altro discorso).
La domanda che lasciò basito Cammarota era questa: “Che differenza c’è tra un sadico e un sadista?”
Un sadico è, ovviamente un pervertito, un sadista è uno studioso delle opere del Divino Marchese, come un dantista, un petrarchista…
Sicuramente, scambiando Gianfranco De Turris con Gianni Pilo e Domenico Cammarota, la Fanucci non fece un grande affare, e da allora iniziò la sua parabola discendente.
Dopo essere stato licenziato dalla Fanucci, Gianfranco De Turris iniziò una collaborazione con l’editore Solfanelli di Chieti e la rivista “Dimensione Cosmica” pubblicata dallo stesso. Come direttore responsabile però figurava l’eccellente scrittore veneziano Renato Pestriniero. Alla rivista si affiancava poi un bollettino librario che finì esso stesso per diventare una sorta di agile rivista, contenendo materiale di interesse più ampio delle recensioni librarie, dalla testata molto esplicita, L’altro regno. A ciò si affiancò, e penso sia stato un fatto molto importante per creare una vera e propria “scuola” di autori e critici emergenti attorno a De Turris e alla Solfanelli, un premio letterario che fu intitolato a John R. R. Tolkien.
C’è da dire poi che grazie all’attivismo di un (allora) giovane allievo di De Turris, Adolfo Morganti, attivo fra Rimini e San Marino, si creò un vero e proprio polo “nostro” fra la città romagnola e la repubblica del Titano, con la creazione a Rimini di una casa editrice “Il Cerchio”, di un premio letterario “Città di San Marino”, di una serie di manifestazioni fra cui alcune edizioni dell’Italcon.
Sempre nell’ambito delle Italcon, fu tenuta la prima Hobbiton, ossia la prima convention della Società Tolkieniana Italiana che prese il suo avvio fra le medioevali mura del Titano (e difficilmente si sarebbe potuta trovare un’ambientazione migliore).
Io con la Società Tolkieniana ho avuto parecchio a che fare: in collaborazione con altri quattro amici triestini ad essa affiliati, ho collaborato alla stesura di un Dizionario le cui voci illustravano tutto il mondo dell’autore del Signore degli anelli. L’opera fu pubblicata nel 1999 dall’editore Rusconi sotto il titolo Dizionario del mondo fantastico, l’universo di Tolkien dalla A alla Z. Quando nel 2003 la Bompiani rilevò la Rusconi, ci venne poi chiesto di stendere un’edizione ampliata del Dizionario che fu pubblicata con il nuovo titolo Dizionario dell’universo di Tolkien.
Nel 2006 il mio racconto L’arma di Dio vinse il premio Silmaril, il premio letterario della Società Tolkieniana. Nella circostanza fu editato un volumetto che comprendeva i racconti finalisti delle edizioni 2005 e 2006 del premio. La prefazione era – indovinate un po’ – di Gianfranco De Turris.
Nel 1996 le edizioni Il cerchio hanno pubblicato il libro Sotto il segno di Hermes – i percorsi del mito e la narrativa dell’immaginario. L’autrice è Chiara Nejrotti, ma per sua esplicita ammissione, non si tratta dell’esposizione di un pensiero personale, ma vuole presentare la visione della letteratura fantastica propria della scuola neosimbolista e ne costituisce dunque una sorta di manifesto.
Voi mi conoscete bene, e sapete che non mi ritengo affiliato a nessuna scuola, né in campo politico né altrove, e anche la mia storia personale di autore e di critico-saggista nel campo del fantastico non ricalca quella dei membri di questa scuola interpretativa.
Dopo un’attenta lettura di questo testo, vi devo dire che su alcuni punti non concordo: soprattutto non mi persuade il fatto, se interpreto bene il loro pensiero, di voler creare una sorta di gerarchia tra generi, che vede l’horror su un gradino più basso, la fantascienza a un livello intermedio e la fantasia eroica alla sommità (ma sia chiaro, l’heroic fantasy alla maniera di Tolkien, pregna di simboli sacrali, non ha sword and sorcery di Robert Howard o di Fritz Leiber).
Io credo che ogni genere fantastico abbia le sue peculiarità, la sua dignità e la sua autonomia, così come la letteratura fantastica non è inferiore a quella realistica (mi pare sia stato James Branch Cabell a osservare che “se il realismo fosse tutta la letteratura, il giornale del mattino sarebbe arte grandissima”).
A lato di ciò, va considerato il fatto che i neosimbolisti presentano ciò che altrove – soprattutto a sinistra – non si trova di certo: un metodo interpretativo coerente e quello che prendendo a prestito dal linguaggio della filosofia della scienza, potremmo chiamare un paradigma: cioè una serie di concetti interpretativi comuni a partire dai quali sviluppare analisi più approfondite in settori particolari. Siamo dunque ben lontani da quella rozzezza e inadeguatezza di cui parlava Domenico Cammarota calcando la mano su di uno stereotipo facile quanto falso, e viene semmai il sospetto che parlando di un “approccio talmente rozzo, inadeguato e francamente ridicolo, da riscuotere quasi sempre la pietà e quasi mai l’approvazione”, questo individuo abbia in realtà descritto se stesso.
E non dimentichiamo il fatto stesso che la scuola neosimbolista ha costituito una miniera e una palestra di talenti letterari e critici.
Io credo che un eventuale biografo che volesse raccogliere la bibliografia di Gianfranco De Turris, si troverebbe presto a mal partito. Quest’uomo ha scritto tantissimo, sia da solo, sia a quattro mani con Sebastiano Fusco: libri, saggi, articoli, anche qualche prova narrativa, ma oltre a questo recensioni, introduzioni, prefazioni, note, commenti, nelle sedi più diverse per cui averne un quadro completo sarebbe quasi impossibile, ma oltre a ciò non va dimenticato il lavoro svolto come curatore di collane e di antologie.
Poiché non ho la pretesa di svolgere un lavoro di questo genere, e probabilmente nemmeno la competenza necessaria per farlo, mi perdonerete se mi rifarò a un criterio più soggettivo.
Di De Turris come curatore di antologie, ricorderei in particolare l’allestimento dell’antologia Se l’Italia, per conto della casa editrice Vallecchi, che faceva precisamente parte di un progetto inteso a rilanciare la storica editrice fiorentina, progetto che partì nel 2002 ma vide la luce solo nel 2005. Si trattava di un’antologia di racconti ucronici, cioè del genere di storia alternativa (“cosa sarebbe accaduto se…”) che rivisitava la storia italiana “da Romolo a Berlusconi”. Quando De Turris mi contattò per l’allestimento dell’opera mi causò un problema: era da poco uscito presso le edizioni Il Cerchio un volume contenente i racconti finalisti del premio San Marino di quell’anno, tra i quali ce n’era uno mio, Il tempo di Giano, ispirato precisamente alla vicenda di Romolo e Remo riletta in chiave fantastica, ma non lo si poteva riutilizzare per l’antologia della Vallecchi perché tutti i racconti dovevano essere inediti. Tenendomi in contatto epistolare quasi costante con De Turris, e avvalendomi dei suoi suggerimenti al punto da poterlo considerare praticamente un co-autore, riscrissi il racconto, mantenendo l’idea di base, ma sviluppando una trama diversa. La storia diventò Primavera sacra.
Nel complesso Se l’Italia diventò probabilmente una delle antologie migliori della fantascienza italiana – sembra che il tema dell’ucronia sia particolarmente congeniale ai nostri autori – e sono molto fiero del fatto che il racconto di apertura sia precisamente il mio Primavera sacra.
Per quanto riguarda il De Turris saggista, qui veramente ci sarebbe da pescare in un mare magnum frutto di un assiduo lavoro di decenni, tuttavia vi confesso che accorderei la preferenza a Le vie dell’immaginario – itinerari nel mito, nella storia, nella fantasia, pubblicato nel 1997 dalla Biblioteca Civica di Riva del Garda, e il motivo è alquanto semplice e piuttosto soggettivo. Questo fascicolo che comprende oltre al saggio di De Turris due racconti di fantasy rispettivamente di Riccardo Leveghi e di Maurizio Neri, fu pubblicato riproducendo esattamente il formato fascicolo e l’impostazione grafica di copertina dei vecchi numeri di “Urania”, la collana di Mondadori che nel frattempo era stata trasformata nel formato di libro tascabile e con un’impostazione grafica diversa (In seguito, “Urania” è tornata alla vecchia impostazione grafica di copertina con il cerchio bordato di rosso, ma è rimasto il formato pocket).
Cosa volete farci? L’appassionato di fantascienza vive spesso di una nostalgia che non sembrerebbe attagliarsi molto bene ai cultori di un genere che si suppone proiettato verso il futuro, ma il futuro che occupa lo spazio mentale dell’appassionato, è perlopiù quello che ci immaginavamo da ragazzi, perché dal futuro che si può oggi realisticamente prevedere, c’è assai poco di buono da aspettarsi. “Non c’è più il futuro di una volta”, ha detto molto opportunamente qualcuno.
Il saggio di De Turris presenta una carrellata storica attraverso il tempo dei generi fantastici, ai quali si deve riconoscere una connessione profonda con la nostra cultura, a cominciare dai miti dell’antica Grecia e passando per i poemi cavallereschi medioevali, e non posso fare a meno di riportare la conclusione di De Turris che mi sembra assolutamente ineccepibile:
“Una Realtà Alternativa che ha scopi decisamente positivi, presentando “valori” che oggi la società post-industriale, precipitandosi al volgere del millennio, ha perduto e dimenticato, e dei quali si avverte sempre più la necessità – come avvertono psicologi e sociologi avveduti – per riuscire a fare fronte in chiave positiva almeno sul piano culturale ad un “disagio della civiltà” che miete sempre più vittime e che ha un nome antico: Nichilismo”.
Non si può negare che il Nostro abbia ragione, ma il nostro discorso non è finito. Altri approndimenti seguiranno a breve.