Facendo un brevissimo riepilogo, nella prima e nella seconda parte di questa “rilettura politica” abbiamo esaminato insieme le tematiche della fantasia eroica, nella terza gli argomenti sono stati la fantascienza e l’horror, nella quarta l’utopia e la distopia, nella quinta l’ucronia, la “storia alternativa”, mentre la sesta è stata dedicata a quegli aspetti e quegli autori del fantastico che non rientrano nelle classificazioni sopra accennate, prima di tutti il grande Jorge Luis Borges, ma come abbiamo visto, non solo lui.
Nonostante questo, al termine di questo giro d’orizzonte, ho avvertito la sensazione forte che il lavoro fatto non sia ancora completo. C’è ancora una tematica che non ho ancora affrontato; non si tratta in questo caso di una tematica narrativa in senso stretto, ma le sue connessioni soprattutto con la fantascienza sono molto evidenti, la futurologia e le ipotesi che possiamo fare riguardo al nostro futuro.
La pista da seguire è in questo caso più evanescente, in ultima analisi gli uomini si sono sempre interrogati sul futuro che li aspetta, ma è chiaro che qui intendiamo qualcosa di più specifico. Un buon punto di partenza potrebbe essere il famoso discorso sulla nuova frontiera tenuto da John F. Kennedy alla convention democratica nel luglio 1960. Con esso, l’allora futuro presidente degli Stati Uniti potrebbe in effetti essere considerato il padre della futurologia moderna.
Per comprendere adeguatamente questo concetto, occorre capire che cosa ha rappresentato il fenomeno della frontiera nella storia degli Stati Uniti. Si tratta di un concetto che certamente non equivale al nostro, che è semplicemente un sinonimo di confine, e quindi connesso all’idea di limite. Al contrario, l’idea della frontiera ha rappresentato fino a tutto il XIX secolo uno spazio dove proiettarsi ed espandersi in modo tendenzialmente infinito, dove tutti e ciascuno avrebbero avuto modo di crearsi una vita migliore di quella che si lasciavano alle spalle. (Il famoso “sogno americano” che nella stragrande maggioranza dei casi, appunto, rimane nient’altro che un sogno).
Ora noi sappiamo bene che questo mito fondante della pseudo-nazione americana non era altro che un’atroce menzogna, una mostruosa ipocrisia, che storicamente “la frontiera” ha coinciso con il West, che non era per nulla uno spazio vuoto, ma un territorio abitato da una popolazione, gli Americani nativi, i cosiddetti pellirosse, che sono stati derubati delle loro terre, scacciati, respinti sempre più indietro, sterminati, portati all’estinzione in quello che nel suo insieme è stato uno dei più atroci genocidi della storia recente, al punto da far scomparire quello che fu imputato ai Tedeschi alla fine della seconda guerra mondiale.
Questa espansione doveva ovviamente trovare un limite fisico perlomeno una volta raggiunta la costa del Pacifico, ma ciò non toglie che “la mentalità della frontiera” sia rimasta profondamente radicata nella psicologia americana, con il supporto ipocrita della pseudo-religione calvinista (che informa di sé tutto il mondo yankee nonostante questo appaia frammentato in una molteplicità di sette apparentemente eterogenee) che induce gli statunitensi a vedersi come “predestinati” (“destino manifesto”), e in ragione di ciò, qualsiasi atrocità da loro commessa è lecita e “buona” ai loro occhi, e oggi purtroppo anche al mondo “occidentale” da essi sottomesso e mediaticamente plagiato.
Si tratta in buona sostanza di una mistificazione e di un’ipocrisia colossali, ecco cosa ha scritti in proposito Norbert Wiener, lo scienziato considerato il padre della cibernetica, un uomo cui non si può di certo attribuire un atteggiamento pregiudizialmente conservatore:
“Nel 1870 la maggior parte del territorio conquistato al Messico e le regioni settentrionali dell’Oregon e del Washington erano ancora grandi aree vuote. Nell’opinione degli americani del tempo esse offrivano possibilità inesauribili per l’espansione delle colture e degli allevamenti, e perfino l’occasione, in un lontano futuro, di uno sviluppo industriale. Meno di venti anno dopo quest recente frontiera aveva già cominciato a crollare. Un millennio di vita medioevale o anche di vita come quella che si ebbe in Europa nel XIX secolo, non avrebbero potuto esaurire le nostre risorse così totalmente come la prodigalità dei nostri sistemi.
Fino a quando non rimase più nulla del ricco patrimonio naturale con il quale avevamo iniziato, il nostro eroe nazionale fu il pioniere che operò più di tutti per convertire in pronti contanti questo patrimonio. Con le nostre teorie della libera iniziativa, noi lo abbiamo esaltato quasi fosse stato il creatore di quelle ricchezze che egli invece depredò e dilapidò”.
(Norbert Wiener: Introduzione alla cibernetica, Boringhieri 1966, pag. 51).
Ciò nonostante, si può dire che il raggiungimento dei limiti fisici del West abbia lasciato gli yankee orfani di uno dei loro “miti” fondanti, e si comprende che non si può certo negare la furbizia dimostrata da Kennedy o dal suo staff (sappiamo che i presidenti USA sono perlopiù delle immagini mediatiche, mentre altri pensano per loro e scrivono il copione che dovranno recitare) nel resuscitare questo “mito” proponendo lo spazio come “nuova frontiera”.
La domanda più interessante da porsi è probabilmente in che misura Kennedy e il suo staff fossero consapevoli di ingannare i propri potenziali elettori. La “corsa allo spazio” non sarebbe potuta somigliare in alcun modo alla “corsa all’ovest” del XIX secolo. Non solo la Luna, ma tutti gli altri corpi del sistema solare tranne il nostro pianeta, sono privi di vita e inabitabili per l’uomo. Le altre stelle e gli eventuali pianeti in orbita intorno ad esse sono poste a distanze che le rendono irraggiungibili nell’arco di una vita umana, e, stante l’insuperabilità della velocità della luce – che non è un limite tecnico ma cosmologico – non è nemmeno possibile che esse possano essere raggiunte in un qualche ipotizzabile futuro. È francamente difficile pensare che Kennedy e il suo staff fossero digiuni di tutto ciò, ma un politico che vuole essere eletto a una carica importante (tanto più una prestigiosa come la presidenza degli Stati Uniti) non dirà alla gente la verità ma quel che essa vuole sentirsi dire.
Le imprese lunari non hanno costituito l’apertura di una “nuova frontiera”, ma piuttosto un grande tirassegno cosmico dettato da rivalità di prestigio tra le superpotenze americana e sovietica, a prescindere dal fatto che molti hanno avanzato dubbi sul fatto che esse siano realmente avvenute e non siano state piuttosto un enorme bluff mediatico, e tra questi recentemente anche il nostro Silvano Lorenzoni, si vedano al riguardo il suo recente libro Itinerari d’oltretomba e altri cinque saggi sparsi (edizioni Primordia 2016) e anche la mia recensione dello stesso da me pubblicata su “Ereticamente”.
Negli anni ’70 si sono sprecati i tentativi di fondare “scientificamente” la previsione del futuro, di costruire una futurologia come scienza, in un clima decisamente ottimistico, essa era definita la scienza della speranza ad esempio nell’omonimo testo di Antimo Negri (Futurologia, la scienza della speranza, 1978), ma presto previsioni più realistiche hanno indotto a considerare che considerando i limiti fisici del nostro pianeta, la sovrappopolazione, l’inquinamento, il prevedibile esaurimento delle fonti energetiche, da sperare in realtà c’era assai poco, e oggi la futurologia “scientifica” appare una sorta di scienza abbandonata. “Abbiamo provato il futuro”, ha detto qualcuno, “Non rende”.
Rimane tuttavia tenace la previsione di un ipotetico roseo futuro nei seguaci dell’ideologia progressista che oggi trova la sua incarnazione soprattutto nella fantascienza, infatti è chiaro che per un altro verso John Kennedy non ha inventato nulla tranne il fatto di presentare come concretamente possibile un vecchio sogno da sempre coltivato dalla fantascienza, e che per di più si iscrive chiaramente in quel dogma della democrazia sordo alle continue smentite della realtà che conosciamo come idea progressista.
Sebbene avesse già alle spalle una vasta tradizione nata sul suolo europeo, dal Frankenstein di Mary Shelley ai romanzi di Herbert George Wells passando per quelli di Jules Verne, la fantascienza è nata come genere codificato negli Stati Uniti nel 1926 ad opera anche qui di un immigrato europeo, il lussemburghese Hugo Gernsback che, dopo aver dato vita a delle riviste di divulgazione scientifica, “Modern Electrics” e “Popular Mechanics”, creò la prima rivista di fantascienza, “Amazing Stories”. Il dogma progressista era strettamente legato alla fantascienza che si andava sviluppando su quelle pagine: la rivista portava come sottotitolo: “Invenzioni mirabolanti oggi, fredda realtà domani”.
La fantascienza si presentava come futurologia romanzata, e faceva leva su di un humus che era dato precisamente dalla mentalità della frontiera, e soprattutto nella produzione fantascientifica degli anni ’20 e ’30 non è difficile riconoscere i lineamenti di un western travestito, dove le astronavi hanno preso il posto delle carovane dei pionieri, colt e winchester si sono trasformati in disintegratori a raggi fotonici, i pellirosse si sono trasformati in alieni, e dove non mancano neppure le scazzottature nei saloon, con astronauti che sono, sul facsimile dei pionieri e dei cowboys, machi, individualisti, ubriaconi, spacconi e un po’ tonti.
Da questo punto di vista, io ho sempre nutrito un sospetto, che la futurologia della fantascienza sia nella realtà dei fatti una cosa ben misera: non parliamo di qualità profetiche, ma della semplice capacità di formulare ragionevoli ipotesi sul futuro in base alla conoscenza del tempo presente e delle tendenze che vediamo in opera in esso, ma che in ultima analisi si sia limitata o si limiti a ricamare indefinitamente sulle aspettative per il futuro quali si potevano nutrire al momento della sua nascita nel 1926.
Tralasciamo il fatto che per continuare a tenere in vita il “mito” dello spazio come “nuova frontiera” (ricordiamo “Spazio, ultima frontiera”, palesemente modellato sullo slogan kennediano, che è il motto della serie “Star Trek”), gli autori del genere si sono spesso dedicati a una serie di invenzioni (di sotterfugi) non si sa se più grottesche o più assurde, da chi semplicemente fa innestare alle sue astronavi l’overdrive, la velocità superiore a quella della luce come se si trattasse della quinta marcia in autostrada, a chi si ingegna di sfruttare la curvatura dello spazio “tagliando le curve” per risparmiare strada (E’ quello che fanno anche gli sceneggiatori di “Star Trek” con la velocità curvatura), ebbene – sorpresa – stando ai più aggiornati modelli cosmologici, lo spazio non sembrerebbe essere curvo, c’è chi infine pensa di sfruttare i buchi neri come soglie dimensionali, il che è un po’ peggio che scambiare un tritacarne per una porta, perché qualunque cosa cadesse in un buco nero sarebbe ridotta alle sue componenti subatomiche dall’enorme forza gravitazionale.
Consideriamo poi anche il fatto che se, a quanto sembra, la velocità della luce non è un limite tecnico ma cosmologico che non potrebbe essere superato neppure da una civiltà di milioni di anni più avanzata della nostra, questo toglie del tutto plausibilità anche a un altro, più apocalittico, capitolo della fantascienza, quello degli “incontri ravvicinati” e delle invasioni aliene.
Ma questo non è tutto, anche le estrapolazioni di carattere sociologico presenti nella fantascienza sembrano divinate a partire da una situazione che era piuttosto quella degli anni di Hugo Gernsback, che non quella nella quale oggi viviamo.
Nel 1967 William F. Nolan e George C. Johnson pubblicarono un romanzo, considerato fra i capolavori del genere fanta-sociologico, La fuga di Logan in cui si prospetta una società formata interamente da persone belle, sane e giovani per il semplice fatto che i cittadini arrivati a ventuno anni vengono soppressi. Nove anni dopo, nel 1976, dal romanzo è stato tratto un film diretto da Michael Anderson che è diventato una delle opere cult della fantascienza cinematografica. A questa pellicola sono state poi ispirate una serie televisiva e una di fumetti. Come se ciò non bastasse, la trama del romanzo aveva anche ispirato con un’interpretazione più libera rispetto alla pellicola di Anderson, un altro film considerato fra i capolavori della fantascienza cinematografica, L’uomo che fuggì dal futuro di George Lucas del 1971, e in tempi più recenti, la stessa trama è stata in parte riproposta da un’altra pellicola, The Island di Michael Bay del 2005.
Né Nolan e Johnson, né tanto meno Anderson, tuttavia, hanno concretizzato alcunché di assolutamente originale, ma piuttosto un’idea ricorrente nella fantascienza di ispirazione sociologica. Per fare un esempio, in La decima vittima, film di fantascienza italiano diretto da Elio Petri nel 1965 e ispirato al racconto La settima vittima di Robert Sheckley (non sono chiari i motivi per cui Petri ha deciso di aggiungere altre tre vittime a quelle previste dall’autore americano), vediamo che il protagonista tiene nascosti in casa i genitori che sarebbero destinati alla soppressione per raggiunti limiti di età.
Non molto tempo addietro, mi è capitato di leggere racconti recenti sempre ispirati alla medesima falsariga (le idee originali nella fantascienza sono più rare di quanto generalmente non si creda). Ebbene, non è forse evidente che tutto ciò corrisponde a un’idea della società e delle sue evoluzioni future che poteva essere valida all’epoca in cui Gernsback dava vita al genere fantascientifico ma non certo oggi? Non è forse chiaro che oggi assistiamo precisamente alla tendenza contraria, con anziani che hanno sempre più tardi la possibilità di lasciare il posto di lavoro e giovani tenuti perennemente al palo?
Va bene, ammettiamolo, la sociologia, con il fanta- davanti o meno, è un terreno scivoloso: trenta o quarant’anni fa, ad esempio, si paventava molto l’eventualità che l’automazione della produzione industriale avrebbe reso obsoleto il lavoro umano, che le attività produttive sarebbero state in grado di impiegare sempre meno braccia. Poi quasi all’improvviso lor signori hanno cambiato idea e CI DICONO che il saldo naturale delle popolazioni non basta più a fornire all’industria e alle attività produttive tutti gli addetti che servono, e ne dobbiamo importare a decine di milioni dal terzo Mondo. C’è una forte, fortissima puzza di marcio in tutto questo!
Di fronte alle crescenti smentite della realtà almeno riguardo alla tematica delle esplorazioni spaziali, c’è da dubitare che la fantascienza sarebbe sopravvissuta come genere se negli anni ’50 la Guerra Fredda non avesse fatto virare gli scenari nell’apocalittico dei paesaggi nucleari e post-nucleari. Negli anni ’60 c’è stato poi prima il rilancio di un ottimismo progressista privo di reale fondamento nonostante fosse insistentemente suggerito dalle imprese lunari, poi il filone della cosiddetta New Wave che ha cercato di trasformare la fantascienza in un filone di sperimentalismo letterario, implicita confessione del fatto che il tempo idilliaco degli anni ’20 e ’30 era ormai trascorso.
Nello stesso periodo o in epoca di poco successiva, in Italia il movimento New Wave ha trovato una specie di equivalente nella corrente neofantastica promossa dallo scrittore Inisero Cremaschi e dalla rivista “La collina” della Editrice Nord. Nessuna delle due correnti, si può dire, ha avuto un seguito duraturo.
Oggi in qualche modo la perdita di credibilità è stata compensata dalla spettacolarità degli effetti speciali sempre più sofisticati delle pellicole hollywoodiane (sempre il meccanismo per il quale ciò che “si vede” è percepito a livello inconscio come vero), basti pensare a Guerre stellari o Avatar, ma certamente ciò può dire ben poco a un lettore/spettatore appena un po’ smaliziato.
Per adesso interrompiamo qui una trattazione che rischia di diventare davvero troppo ampia. Resta quanto meno da affrontare un argomento importante, se gli sviluppi dell’informatica e delle reti telematiche abbiano davvero creato uno “spazio virtuale” la cui esplorazione può costituire una sorta di surrogato di quell’esplorazione spaziale che abbiamo visto avere una portata ben più limitata di quanto i sogni dell’inizio del XX secolo lasciassero supporre, sulla scorta di quanto hanno sostenuto i fautori del movimento Cyberpunk.
In termini di osservazioni politiche, che sono quelli che ci interessano di più, possiamo già ora concludere il sostanziale fallimento dell’ideologia progressista: lo sviluppo illimitato non è possibile in un pianeta con risorse limitate e gravato da un peso crescente di umanità demograficamente esuberante, e lo spazio si è dimostrato essere in definitiva un cul de sac, non certo la nuova frontiera profetizzata da John Kennedy.