12 Ottobre 2024
Fantascienza

Narrativa fantastica, una rilettura politica, undicesima parte – Fabio Calabrese

NOTA: Il discorso sulle implicazioni politiche della narrativa fantastica è una tematica non solo di grande interesse e utilità nell’ambito della nostra visione del mondo, ma alla quale il sottoscritto è particolarmente interessato nella sua doppia veste di intellettuale e ideologo (se l’uso di questo termine da parte mia non suona troppo presuntuoso) dell’Area, e di appassionato e autore di narrativa fantastica-fantascientifica. Il problema, semmai, è quello di riuscire a collocare gli articoli appartenenti a questo filone nella gamma delle molte tematiche che sto tenendo in piedi su “Ereticamente”. La parte immediatamente precedente, la decima, di questa rilettura politica della narrativa fantastica, infatti, come ricorderete, è apparsa sulla nostra testata a ottobre scorso. Si tratta tuttavia di un discorso che non ho intenzione di far cadere, ma ho solo rimandato dando la precedenza a tematiche di più stringente attualità come le recenti elezioni politiche. Lo stesso discorso vale ad esempio per la costituzione, “la più bella del mondo”, nell’analisi del cui testo mi sono fermato a due articoli, ma soltanto per ora. Per adesso, approfittando dello spunto fornitomi da una riflessione dell’amico Matt Martini, riprendiamo il discorso sulla distopia o utopia negativa, ma altri articoli seguiranno…

Sarà opportuno riprendere stavolta il discorso sulla letteratura utopica e soprattutto distopica. Mentre le utopie positive con il loro buonismo spesso frutto di una percezione del tutto errata della natura umana lasciano il tempo che trovano, salvo quando sono stati fatti tentativi perlopiù disastrosi di tradurle in realtà, quelle negative rivestono un interesse ben maggiore in quanto evocano futuri terrificanti e tutto sommato poi non tanto improbabili che gli autori cercano di esorcizzare.

I classici di questo genere narrativo, 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldoux Huxley, ma non solo questi, sono ben conosciuti ed entrati in quel patrimonio intellettuale di cui le persone appartenenti alla cultura “occidentale” e in possesso di un bagaglio di cognizioni non infimo, dovrebbero disporre.

Come penso ricorderete, ho già dedicato al tema delle distopie o utopie negative la quarta parte di questa serie di scritti. Perché adesso riprendiamo in mano l’argomento? Recentemente, in data 12 marzo mi è capitato di trovare su facebook un post dell’amico Matt Martini che tratteggia il fenomeno distopico in una maniera molto diversa da come siamo soliti perlopiù considerarlo, un’interpretazione non solo originale ma – oserei dire – con una punta di genialità.

Ve lo riporto integralmente:

Consideriamo i maggiori romanzi della letteratura ‘distopica’ e ci accorgiamo che di essi due su tre descrivono dittature “morbide”, ed ibride o nulle sul piano ideologico (‘The brave new world’ di Huxley e ‘1984’ di Orwell), e solo uno – ‘Il tallone di ferro’ di London, spesso dimenticato – descrive una società ultraconservatrice con tratti simbolici somiglianti al fascismo (centurie nere etc..).

Tralasciando il romanzo di Bradbury, che è più anomalo, due su tre descrivono dittature non riconducibili alle ideologie nazional-rivoluzionarie (fascismo) di cui gli esempi storici non sarebbero mancati, ma un mondo futuro con ideologie come il “socing”, il “socialismo inglese”, e idee di riferimento ibride o apertamente ambigue (“double thinking”). Si tratta di artefatti politici dal basso contenuto identitario, tipici di un “pensiero debole”, e con i tratti post-ideologici delle nostre società liberali. In effetti queste ideologie letterarie sono delle vere e proprie caricature del moderno neoliberalismo (mentre mancano del tutto i temi dell’antropologia fascista, o le aspirazioni sociali del marxismo), con la sua natura anti-ideologica, e i mondi descritti potrebbero essere definiti delle “dittature centriste”. Non a caso sono ambientati in un mondo globale che però ha come modello i paesi anglosassoni (Inghilterra, Oceania, Nordamerica) e uno in particolare, quello di Huxley, ha la tecnica e il transumanesimo come sfondo principale.
La letteratura distopica ha intercettato, prima e meglio di tutti, la natura intrinsecamente e subdolamente totalitaria di quella asfittica e antitradizionale Società Aperta che, una volta realizzata, si rivela sempre più chiusa, soprattutto alle più alte aspirazioni umane”.

Ora, io penso che la maggior parte di voi avrà almeno sentito parlare del celebre saggio sul totalitarismo di Hannah Arendt, che individua i fenomeni totalitari del XX secolo: il fascismo, il nazionalsocialismo, lo stalinismo. Si tratta, lo sappiamo, di un’opera assolutamente tendenziosa come c’era da aspettarsi da una figlia di Abramo. Innanzi tutto, si vede all’opera la tecnica tipica, assolutamente tipica della sinistra per la quale gli orrori della tirannide comunista sono ricondotti al solo stalinismo, lasciando intendere che da qualche parte esista o potrebbe esistere un comunismo “buono” in contrapposizione a quello “cattivo” rappresentato dallo stalinismo sovietico. Bene, si tratta di una falsità assoluta: dovunque il comunismo sia stato realizzato, abbiamo visto sempre la stessa mistura di oppressione e miseria. Quanto al fascismo e al nazionalsocialismo, per quanti difetti possano aver avuto, sono stati sempre meglio di una democrazia che ha coinciso con la caduta dell’Europa dalla posizione centrale a livello planetario che aveva fino alle due guerre mondiali, e oggi con la sostituzione etnica, il lento genocidio “soft” dei popoli europei.

Secondo l’interpretazione “canonica” le distopie sarebbero delle metafore di questi sistemi totalitari, ebbene, Matt Martini ci assicura – e io penso che abbia sostanzialmente ragione – che con questi ultimi la letteratura distopica non c’entri nulla. Queste distopie a-ideologiche descrivono tirannidi borghesi che sono la filiazione estrema e paradossale della democrazia.

E’ un punto di vista che io non solo trovo altamente condivisibile, ma se avete a mente le cose che ho scritto nella quarta parte, vedete che anche la mia interpretazione si è mossa in questa direzione, almeno per quanto riguarda 1984 di George Orwell. C’è una leggenda diffusa riguardo a questo libro, che l’autore avrebbe ricavato la fatidica data del 1984 semplicemente invertendo le ultime due cifre dell’anno in cui sarebbe stato scritto, cioè il 1948. Le cose non possono stare così perché la prima edizione inglese del romanzo è del 1947, ed è alquanto inverosimile che un libro sia pubblicato un anno prima di essere stato scritto.

Sembrerebbe un particolare irrilevante, invece dobbiamo considerarlo con attenzione, perché ci offre la giusta chiave di lettura di questo testo. Orwell ha probabilmente aggiunto quarant’anni all’epoca di stesura del suo libro, che dovrebbe essere il 1944. Non soltanto, bisogna notare che, con ogni probabilità, la pubblicazione ne è stata bloccata dalla censura fino al termine della guerra, perché non si poteva parlare male dello “zio Joe”, così la propaganda bellica inglese chiamava Stalin, il più crudele e sanguinario tiranno di tutti i tempi, ma il punto importante non è tanto questo, quanto il fatto che il libro descrive precisamente la situazione geopolitica mondiale futura che era possibile ipotizzare nel 1944, prima dello sbarco angloamericano in Normandia.

Il mondo di 1984, infatti, è diviso in tre grandi aree controllate da altrettante potenze totalitarie in perenne, cronico conflitto: l’Eurasia, ossia l’Unione Sovietica che dopo aver sconfitto l’Asse ha esteso il suo dominio fino a Gibilterra, l’Estasia, cioè la Cina comunista che nella sua espansione ha inglobato tutto il continente asiatico a eccezione della Siberia, e l’Oceania, cioè l’America più l’Inghilterra dove vive il protagonista del romanzo, lo sfortunato Winston Smith. In questo caso, il nome non fa riferimento al continente australe, ma all’oceano Atlantico.

In altre parole, la feroce dittatura del Grande Fratello, e questo mi pare il punto veramente clou che si cerca di occultare con lo slittamento di date, per Orwell non discende dai totalitarismi contro cui si scagliava Hannah Arendt, ma è “l’evoluzione” della liberal-democrazia anglosassone.

Possiamo dire che Orwell aveva torto? Io direi proprio di no. Quest’uomo è stato buon profeta nel cogliere la tendenza che oggi emerge con sempre maggiore chiarezza nei regimi sedicenti democratici, a concedere sempre meno libertà ai propri cittadini attraverso l’imposizione di quel sistema di pensiero dogmatico, di quei paraocchi intellettuali che conosciamo come political correctness, e certamente del tutto azzeccata e pienamente rispondente alla realtà attuale, è la previsione della trasformazione dell’Inghilterra, l’antica regina dei mari, in una semplice propaggine di quella che già fu una sua colonia.

Tuttavia sarebbe sbagliato affermare che questi autori distopici e Orwell in particolare, non si occupino per nulla dei totalitarismi “classici”. A lato di 1984, infatti, bisogna ricordare l’altro suo grande romanzo che si presenta come una favola dagli intenti satirici: La fattoria degli animali. In questa fattoria, gli animali si ribellano ai padroni umani, ma, dopo un breve momento di libertà, il potere viene preso dai maiali, che imparano a camminare su due gambe e a indossare vestiti, diventando in tutto uguali agli uomini. Si tratta, lo si capisce molto bene, di una satira della rivoluzione d’ottobre e del comunismo sovietico.

La sinistra a Orwell quel libro non glielo ha mai perdonato, e tutte le volte che si menziona questo autore inglese, l’atteggiamento delle vestali del “pensiero” di sinistra è di visibile fastidio, tuttavia egli (come Giampaolo Pansa, del resto) veniva dalle file della sinistra. Combattente repubblicano nella guerra di Spagna, ebbe modo di sperimentare in prima persona la doppiezza dei comunisti, che conducevano una guerra civile parallela, contro i franchisti e contro le altre formazioni repubblicane.

Certamente, e qui Matt Martini non potrebbe avere più ragione di così, molto lontano da un totalitarismo “ideologico”, è anche Il mondo nuovo di Aldous Huxley: in esso, il controllo sulla popolazione non si attua attraverso la repressione ma il soddisfacimento fino a saturazione dei bisogni e degli istinti più elementari, il sesso in primo luogo, cosa che davvero non è molto lontana dalla società mediatica-spettacolare di oggi.

Devo fare ammenda, e qui devo riconoscere l’opportunità del richiamo di Matt Martini sull’argomento, di aver trascurato nel mio precedente articolo di questa serie (il quarto) su utopia e distopia, un altro importante classico di questo filone, cioè Il tallone di ferro di Jack London. In questo romanzo per nulla criptico, si descrive l’avvento di una feroce dittatura negli Stati Uniti come risposta alle rivendicazioni delle classi lavoratrici. Anche in questo caso, per una sorta di nemesi, la culla delle tirannidi sembra essere il mondo anglosassone, il mondo liberal per eccellenza.

Un punto su cui però devo francamente dissentire, è il giudizio espresso da Matt Martini riguardo al romanzo di Ray Bradbury – si tratta palesemente di Fahrenheit 451 – anzi devo ammettere di non aver compreso i motivi di questo giudizio. Per quale ragione questo romanzo sarebbe “anomalo”? A me pare invece che si collochi pienamente nel filone della letteratura anti-utopica e distopica. Si potrebbe dire anzi che in qualche modo questo romanzo rappresenta il tassello finale che completa il mosaico della moderna distopia.

Come è noto, i protagonisti di questo romanzo e del film che ne ha tratto il regista francese François Truffaut (e anche questo è sintomatico, che una storia del genere non abbia minimamente interessato Hollywood) sono i roghi di libri, e i pompieri che non hanno il compito di spegnere gli incendi, ma di appiccarli (il titolo del romanzo si riferisce al fatto che 451 gradi Fahrenheit è la temperatura alla quale brucia un libro). Ma perché si arriva a questo?

In una società – per certi versi – tollerante e apparentemente libera come quella democratica, si moltiplicano le minoranze, dagli omosessuali ai gruppuscoli religiosi, alle comunità immigrate. In questa situazione c’è il rischio che non si possano scrivere due righe senza offendere qualcuno, e non parliamo dei libri che sono stati scritti nel passato, tutti più o meno “politicamente scorretti”, basta pensare alle insofferenze che si manifestano verso Dante e Shakespeare, E cosa si dovrebbe dire di Nietzsche, Pirandello, D’Annunzio, Ezra Pound? In quest’ottica secondo Bradbury, la prospettiva più logica diventa l’imposizione dell’analfabetismo e per buona misura cautelare l’eliminazione dei libri.

In questo modo la democrazia si converte nell’assenza di libertà, in un totalitarismo ottuso e cieco: la gente, senza strumenti critici, senza stimoli a pensare, si ritrova con nessun’altra fonte d’informazione che la televisione di stato.

Bradbury completa il circolo, ci fornisce il tassello mancante del mosaico, ci illustra il meccanismo attraverso il quale la democrazia può trasformarsi in tirannide.

Ovviamente, la fantascienza si basa sull’estrapolazione. Bradbury ha esagerato o mancato la sua predizione? Non siamone troppo sicuri! L’ideologia della political correctness democratica sta diventando un dogmatismo sempre più stringente e – guarda caso – si sta sempre più diffondendo, negli Stati Uniti ma anche da noi, il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, cioè delle persone che terminata la scuola non toccano più un libro e per mancanza di esercizio, finiscono per perdere l’abilità di leggere e scrivere.

A parte dunque il giudizio su Bradbury che andrebbe riveduto, mi pare che il nostro amico abbia colto bene il senso delle questione, e riporto con piacere la sua conclusione davvero da manuale:

La letteratura distopica ha intercettato, prima e meglio di tutti, la natura intrinsecamente e subdolamente totalitaria di quella asfittica e antitradizionale Società Aperta che, una volta realizzata, si rivela sempre più chiusa, soprattutto alle più alte aspirazioni umane”.

 

 

NOTA 1:

Matt Martini mi chiede di inserire la seguente precisazione:

“Quando ho detto che trovavo anomalo il romanzo di Bradbury non intendevo rispetto alla letteratura distopica, in cui si colloca a pieno titolo… lo tenevo un po’ in disparte perché in quella distopia trovavo maggiore difficoltà a rintracciare dei tratti ideologici per cui fosse riconducibile a qualche idea politica novecentesca, almeno il socing potrebbe essere una parodia di certo socialismo scandivano immaginato in area anglosassone… Comunque proprio per questo è una semplice dittatura borghese. Peraltro profetizza l’attuale caccia alla libera informazione, le sanzioni contro le fake news”.

 

NOTA 2:

Nell’illustrazione: le copertine dei romanzi, a sinistra 1984 di George Orwell, al centro Il tallone di ferro di Jack London, a sinistra Fahrenheit 451 di Ray Bradbury.

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