Sotto uno specifico punto di vista le odierne società occidentali ci appaiono particolarmente lontane da un normale stato di salute, ovvero sotto l’aspetto propriamente “sociale” e delle relazioni umane. L’odierno “regno animale dello Spirito”, per usare le parole di Hegel, circoscrive gli interessi e gli appetiti umani unicamente nella soddisfazione solipsistica del proprio ego, nella luciferina glorificazione di un individuo singolo atomizzato non più definito essenzialmente, come in ogni stato organico, in rapporto agli altri come parte, ma, cosa singolarmente assurda, come valore a sé. Bisogna dire che l’Occidente è storicamente pervaso, sin dall’antichità, dal mito della libertà e dell’individualità e che quest’ultime si possono facilmente riscontrare, oltre che presso i greci, anche nell’indole e nel temperamento di tutte le altre popolazioni europee. Ora in antico a questa forte e nobile vocazione all’affermazione individuale e al senso di sovrana libertà si affiancava però un altrettanto forte senso civico e comunitario, massimamente sviluppati nella civiltà di Roma che riuscì più di tutte e coniugare i primi valori con i secondi. Viceversa nell’occidente moderno, a partire potremmo dire dall’eclisse del medioevo, l’originaria aspirazione alla conquista della libertà interiore viene meno, viepiù sostituita da una volontà essenzialmente opposta: è la nascita, o meglio il risveglio, del demone faustiano dell’Occidente. Le vere radici di quest’ultimo vanno infatti cercate nella perversione e nel capovolgimento delle legittime aspirazioni di libertà individuale e relativa indipendenza del singolo dalla comunità (aspirazioni che mai però andavano a ledere direttamente l’interesse della collettività in nome di un qualsivoglia beneficio del singolo). In breve possiamo ben dire che il liberalismo prima e il neoliberalismo poi, in salse diverse ma secondo una comune visione del mondo, hanno profondamente tradito lo spirito comunitario europeo e rinnegato i suoi veri “immortali principi”, che nulla hanno ovviamente a che fare con “libertà”, “eguaglianza” e “fratellanza”, che dovrebbero piuttosto tradursi con “arbitrio”, “equivalenza” e “anarchia”, bensì i valori di “Humanitas”, “Concordia”, “Fides”, “Pietas”, “Virtus”, etc. È stato il tradimento di Platone, di Aristotele, di Pitagora, della scolastica e con loro di ogni legittima tradizione che ponesse l’uomo come essere “cosmico” e non come un “in-sé-e-per-sé”, una fantasmagorica “pura potenzialità” senza determinazioni che in realtà è introvabile in natura. Questo processo di astrazione dell’uomo ha naturalmente scardinato ogni senso di organicità nella comunità in quanto nel singolo non si è più visto tanto il Sacerdote, il Guerriero, l’Artigiano o il Mercante quanto essenzialmente un non meglio definito “essere umano”.
A nostro avviso, essendo l’uomo fatto a “immagine e somiglianza di Dio”, non è logicamente possibile credere che tale astrazione dell’uomo sia avvenuta se non tramite una precedente astrazione del divino. Tale astrazione del divino si è venuta a formare, caso unico nell’antichità, tanto misterioso quanto curioso, nel Giudaismo di 3.000 anni fa circa. Per la prima volta, infatti, veniva qui affermata non semplicemente, cosa ampiamente nota a tutti i popoli della terra, l’unità del divino, quanto la sua unicità e la sua esclusività tramite la fede in un dio unico. Che qui si debba essenzialmente parlare di “monolatria” e non di monoteismo o di dottrina dell’unità divina è evidente anche solo a una semplice lettura del testo biblico. Quello che lì viene affermato è un singolo dio senza particolari attributi e l’esclusione di ogni altro, prima mediante l’affermazione della supremazia di Jahveh sugli altri “dei delle genti”[1], in un secondo tempo mediante la negazione recisa di ogni altra divinità[2]. A giudicare dalla storia si direbbe che l’idea di origine classica, ma presente in un certo modo anche in Hegel, della coscienza di una data comunità come riflesso e/o incarnazione di un’ideale archetipica figura divina si sia provata veritiera anche nel caso della storia del popolo di Israele, considerando il suo generale comportamento dalla sua costituzione fino ai nostri giorni, in particolar modo la sua attitudine nei confronti dei popoli stranieri. Ma non vogliamo ora entrare nel dettaglio di quella che è senz’altro una questione che meriterebbe un’ampia trattazione a parte, e cioè quella delle origini del monoteismo in relazione al genio specifico del popolo ebraico e alle mutazioni avvenute in seno ad esso. Ciò che è qui importante comprendere è che, in buona sostanza, l’odierno individualismo è frutto di un radicato e lungo processo di alienazione spirituale, che inizia a manifestarsi già con la cristianizzazione dell’Europa e, cioè, con l’acquisizione, tramite essa, di una mentalità profondamente incompatibile con i suoi valori autoctoni millenari, unici garanti della sua sopravvivenza e della sua salute. L’alienazione sociale di cui parlavamo ad inizio articolo trae origine esattamente a partire da questa alienazione spirituale, e cioè da tale fondamentale scissione tra un dio assolutamente trascendente concepito come un “tutto altro” e un mondo “sdivinizzato” abitato parimenti da razze umane non divine, tutte concepite come delle “creature” di questo stesso dio, dinanzi al quale sono tutte uguali e hanno lo stesso valore, differenziandosi realmente solo per meriti di osservanza religiosa. La conseguenza immediata di ciò fu l’impoverirsi della religione in formule puramente esteriori da un lato, e dall’altro la riduzione dell’orizzonte del sacro a privata quaestio, deprivandolo difatti della sua decisiva e fondamentale carica pubblica comunitaria, primaria fonte di concordia e unità degli animi. Questa concreta forza di coesione sociale fornita dalla religione è di per sé a tal punto evidente che persino le scuole di pensiero meno “spiritualiste” e più prossime al materialismo, come quella della sociologia di Durkheim, pur riducendovi essenzialmente il fenomeno religioso umano nel suo complesso, hanno dovuto ammetterla. Il punto fondamentale, su cui forse ancora pochi si sono soffermati adeguatamente, è che la graduale rimozione della natura di legante comunitario alla religione, con il suo conseguente ridursi a privata forma salvifica, causa non pochi problemi sul piano prettamente sociale, e problemi invero di non poco spessore. Bisogna dire che tale scissione, con conseguente predominio del privato sul pubblico, seppure iniziata a nostro avviso con l’era cristiana, era tuttavia ancora molto poco sviluppata nel medioevo dove, malgrado tutto, persistevano forti logiche comunitarie[3]. Alla stessa conclusione arriva Alain De Benoist, nella raccolta di saggi “Identità e Comunità”, che così scrive:
“A partire dai secoli III e IV l’individuo diventa così un essere il cui valore può essere ridotto solo a se stesso, dotato di un’intimità con se stesso, potenzialmente in grado di pensarsi al di fuori da ogni referente. Infine, con il cristianesimo la morale cessa di confondersi con ciò che è bene essere per riferirsi a ciò che è giusto fare. La morale cessa di essere sostanziale, essa diventa un obbligo procedurale”[4].
È inoltre opportuno sottolineare che tale sincope dell’essere umano nel campo religioso prima e, conseguentemente, in quello sociale poi ha come sua primaria manifestazione sul piano interiore un sentimento di sfiducia, impotenza e insufficienza a sé stessi, stato d’animo non a caso caratteristico quantomeno degli strati sociali bassi del periodo della Roma tardo imperiale. Come sempre la storia si rivela essere una grande narrazione di istinti dominanti e dominati, così che laddove quelli fiacchi e vili ottengono il predominio su quelli sani e robusti si hanno costituzioni e consorzi umani all’insegna del cattivo gusto e della décadence. Ma, se prendiamo per buona la “genealogia della morale” individualista sopra delineata, allora l’individualismo ci apparirà, paradossalmente, proprio come un’esplicazione di un’interiore deficienza piuttosto che il contrario, ovvero come una presunta morale di glorificazione degli istinti del singolo oppresso dalle restrizioni soffocanti della collettività[5]. Naturalmente è proprio in quest’ultimo modo e sotto questa fittizia luce che le ideologie massimamente intrise di individualismo, quali ad esempio il liberalismo anglosassone, hanno voluto vedere tale fenomeno, quasi sempre camuffandolo sotto i falsi nomi di “emancipazione”, “libertà”, “diritti umani” e chi più ne ha più ne metta. Ad analoghe conclusioni arriverà Hegel nelle sue “Lezioni sulla filosofia della storia”, in cui afferma:
“Proprio quella libertà soggettiva, che costituisce il principio e la forma peculiare della libertà nel nostro mondo, l’assoluto fondamento del nostro stato e della nostra vita religiosa, poté presentarsi alla Grecia come la rovina”[6].
E ancora, poche pagine dopo, sulla forma astratta dello stato di tipo moderno in contrapposizione alla solida concretezza della polis antica:
“L’astrazione di uno stato, che per il nostro intelletto è l’essenziale, essi non la conoscevano: loro fine era la patria vivente: questa Atene, questa Sparta, questi templi, questi altari, questo modo di convivenza, questa cerchia di cittadini, queste usanze e abitudini. Per il Greco la patria era una necessità, senza cui non poteva vivere”[7].
Secondo una tale ricostruzione l’illuminismo ci appare non già come radicale negazione delle premesse bibliche giudeo-cristiane, bensì come il loro compimento e la loro definitiva “liberazione” da tutti gli elementi “pagani” di cui ancora ampiamente, in modo più o meno esplicito, era sostanziato il Cristianesimo medievale. Ora, nella fase di compiuta alienazione, l’uomo non è più astrattamente uguale al suo “prossimo” in vista di un “altro” mondo e agli occhi di un Dio-giudice, ma lo è già hic et nunc dinanzi a una “legge uguale per tutti”.
A nostro avviso sono però in errore anche coloro che, pur con le migliori intenzioni possibili, considerano una certa idea di uguaglianza come propedeutica a una corretta articolazione di uno stato di tipo comunitario, essendo paradossalmente l’idea di uguaglianza, e questo è ciò che fondamentalmente qui sosteniamo, in netto contrasto con una vocazione autenticamente comunitaria. Come abbiamo visto infatti, se è vero che historia magistra vitae est, il fenomeno ideologico individualista si associa sin dalle origini a ideologie tutt’altro che antiegualitarie. Questo può apparire paradossale se non anche quasi assurdo solo da un punto di vista estremamente superficiale. Infatti, se è vero che in sé la Natura è antiegualitaria, e non c’è davvero bisogno d’altro che di una minima dose di buon senso per comprenderlo, e che parimenti l’uomo è per Natura “animale comunitario” (Aristotele), è frutto di autentica distorsione ideologica credere che parole come “comunità” e “uguaglianza” possano mai andare d’accordo. E che questi due concetti non vadano d’accordo ma cozzino tra loro violentemente lo si può vedere benissimo dalle conseguenze storiche che l’ideologia dell’universale “fratellanza” ha prodotto a livello globale. Non è d’altronde un caso che proprio negli ultimi due secoli, e cioè nel periodo in cui tale ideologia ha avuto la meglio su tutti i “superati” e “antiquati” pregiudizi d’antico regime, le comunità europee, e con esse tutti gli insiemi secolari di tradizioni e culture, siano state sistematicamente demolite in nome del “progresso”. Male si illude colui il quale oggi creda sinceramente di vivere in un paese “erede” di Roma e del suo Spirito, essendo le premesse ideologiche e le visioni del mondo oggi dominanti e quasi totalmente maggioritarie sull’intero globo terracqueo nettamente opposte a quelle nutrite dagli uomini che diedero vita a ciò che noi oggi consideriamo la nostra civiltà ancestrale. Con questo non si vuole certamente affermare che ci manchi, in linea generale, il benché minimo collegamento con l’eredita spirituale dei nostri antichi padri, cosa che annullerebbe automaticamente ogni idea viva (ma anche morta!) di Tradizione, bensì che tale collegamento è nei più unicamente labile e sbiadita traccia, ovvero nulla di realmente attivo. Tuttavia è proprio unicamente in un orizzonte massificato e promiscuo, quale quello delle attuali aree urbane, che, in accordo con una netta prevalenza dell’elemento quantitativo su quello qualitativo, è possibile avere contesti sociali umani in cui le relazioni si riducono per forza di cose a mere questioni burocratiche nella maggior parte dei casi, e a rapporti in larga parte fittizi e strumentali.
Così giungiamo a una non certo bella conclusione: l’uomo moderno ha, in larga parte, obliato il senso del suo relazionarsi ai propri simili. Ecco che dunque non solo le ragioni più elevate e nobili di ciò che si suole chiamare “società”, ma anche solo le più elementari e basilari risultano perdute e dimenticate. In altre parole si può dire che l’uomo odierno non riesca proprio a concepire la socialità come altro se non come uno strumento di grossolani benefici personali, favori, “divertimento” e persino come “tampone emotivo”, ovvero come una sorta di stampella necessaria allo zoppo per poter stare in piedi, laddove da solo non vi riuscirebbe. Insomma in larga parte il sociale e le “amicizie” valgono per i più nient’altro se non come modalità di evasione e consolazione, come anestetico, copertura delle proprie deficienze interiori e quindi come fuga da sé stessi e dalla necessità di avere un carattere e una drittura. Così, venendo meno ogni legame sociale profondo, ovvero fondato su Fides e Concordia, cioè su una reciproca fiducia e su una capacità di mediazione ed empatica comprensione delle ragioni dell’altro, viene meno anche l’autentico collante di ogni società autenticamente civile. È così che, a partire da un ripiegamento dell’individuo in sé stesso, ripiegamento che, come abbiamo visto, è tutto fuorché indice di salute e forza, si è venuta ad attuare, di pari passo a una crescente astrazione del Reale, l’astrazione dell’individuo e, per ciò stesso, la sua equivalenza con il “prossimo”. Per queste semplici quanto solide ragioni non ci sembra affatto esagerato il parere dello Spengler nel suo “Il tramonto dell’Occidente”, in cui afferma, senza mezzi termini, essere, la teologia cristiana, nient’altro che la nonna del bolscevismo. Questa “equivalenza”, essendo oggi difatti pienamente compiuta, fa si che ciascuno veda nell’altro mai qualcosa di anche solo potenzialmente “grande” o “temibile”, ma sempre e solo un vuoto “individuo x” con le sue proprie idee e le sue proprie preferenze, ma in fondo per nulla “superiore” o “inferiore” a un altro “individuo x”. Contrariamente alle odierne società di uguali, in cui però stranamente persistono ristrettissime elitè di spietati aguzzini e sfruttatori di interi popoli, tutti i contesti realmente inquadrabili in un’ottica sociale comunitaria risultano storicamente permeati da una forte logica gerarchica e di organica disuguaglianza. Non occorre infatti un grosso sforzo storiografico e critico per comprendere che nessuna delle nostre antiche civiltà europee né tantomeno una qualunque delle altre storicamente note abbia mai avuto un così netto predominio dell’ambito privato su quello pubblico, tale da assoggettare il secondo interamente al primo. D’altra parte è evidente che nei summenzionati contesti massificati, dove per forza di cose l’elemento qualitativo cede il passo a quello quantitativo, l’individuo si ritrovi a fare le spese con un cronico vuoto di identità, dovuto alla sua incapacità di riconoscersi in un contesto armonico e omogeneo. Identità e comunità, infatti, sono due termini tra loro così fortemente intrecciati che è impossibile pensare l’uno senza l’altro. Un popolo dalla robusta identità non potrà che essere ordinato secondo un’altrettanto forte struttura comunitaria e viceversa un popolo genuinamente comunitario non potrà che avere una sviluppata coscienza di sé e della propria identità[8].
L’atomismo sociale, estrema conseguenza dell’individualismo, ha annichilito la comunità e, perciò stesso, scardinato le fondamenta dell’identità dei popoli, ridotti così a mera poltiglia informe. E, se è vero che l’identità non è, come la natura, un qualcosa di dato ma dipende essenzialmente dall’altrui riconoscimento e da una legittimazione proveniente dall’altro, ovvero che ci consideriamo appartenenti a una determinata identità in quanto e nella misura in cui c’è qualcuno che ci riconosce come tali, appare evidente come, in una società cibernetica, disanimata, effimera e svuotata di ogni contenuto positivo come la nostra non ci possa essere spazio alcuno per quella che, come insegnavano i buoni greci e i maiores nostri, deve propriamente definirsi “politike”, ovvero gestione disciplinata e coscienziosa della cosa pubblica.
Giuseppe Arminio De Falco
[1] Ad esempio in Esodo, 34, 14-16: “Perché tu non devi adorare alcun dio; poiché “Jahvè Geloso” è il nome suo: egli è un Dio geloso” dove vi è ancora il riconoscimento, da parte di “Jahvè Geloso” di altre divinità.
[2] A partire da Isaia o Deutero-Isaia (cap. 40-55) Jahvè non riconosce più alcun dio, considerando gli altri dei come inesistenti: “Non vi è nessuno tranne me; io sono Jahvè, non vi è nessun altro” (45, 6) o ancora: “Ecco, tutti insieme non sono niente, nulla le loro opere, vento e vuoto le loro statue!” (41, 29).
[3] A riguardo un noto filosofo marxista contemporaneo, tanto valido quanto ignorato e silenziato dalla “cultura ufficiale”, ovvero Costanzo Preve, ha definito la filosofia medievale caratterizzata da ciò che lui definiva un’“ontoteologia dell’essere sociale”. Non sarebbe d’altronde difficile trovare esempi concreti di un tale concetto nella letteratura medievale europea, non necessariamente in relazione esclusiva col pensiero filosofico.
[4] Alain De Benoist, Identità e Comunità, Napoli 2005, p. 12.
[5] “Il libero arbitrio, parallelamente, viene ridefinito come capacità di consenso. La conseguenza che ne scaturisce è l’idea per la quale il soggetto umano si definisce essenzialmente come un io che può essere posto come tale indipendentemente da ogni relazione umana. L’individuo inizia a diventare un affare privato”. Ibid., p. 13.
[6] Trad. it. Cit., Vol. III, pp. 93-94.
[7] Ibid., p. 97.
[8] Cfr. Alain De Benoist, Op. cit.
6 Comments