Si terrà a Roma il 4 febbraio la seconda edizione della National Conservatism Conference dal titolo altisonante “Dio, onore, nazione: il presidente Ronald Reagan, papa Giovanni Paolo II e la libertà delle nazioni”. La conferenza, organizzata dalla Edmund Burke Foundation, vedrà, tra gli altri, la partecipazione di diverse figure politiche e “intellettuali” del “sovranismo” italiano e non. In questo approfondimento si cercherà di dimostrare il carattere di contraffazione ideologica che si cerca di mascherare dietro questa presunta nuova formula politica.
Per chi si è nutrito con il pensiero dei grandi autori della Konservative Revolution tedesca (fonte di ispirazione anche per molti intellettuali italiani) potrebbe apparire paradossale il fatto che dei personaggi politici che, per mezzo del più esasperato neoliberismo, hanno distrutto ogni vincolo sociale e comunitario (è nota, ad esempio, la celebre sentenza di Margareth Thatcher “there is no such a thing like society”) vengano associati al termine (pur di matrice modernista) “conservatorismo”.
Il national conservatism, di fatto, è l’estremo tentativo per salvare la “globalizzazione americana” nel momento in cui il centro di potere è sottoposto ad una profonda tensione esistenziale tra la “sovraestensione imperiale” (origine della crisi) e la “necessità” connatturata del gigantismo in quanto espressione compiuta della civiltà della tecnica. Non potendo più permettersi una politica estera propriamente “imperiale” si è imbastito un nuovo paradigma ideologico che consenta di preservare l’egemonia cercando di porre un freno all’evoluzione dell’ordine globale nello schmittiano pluriversum di grandi spazi. Tessere le lodi del piccolo-nazionalismo, osannare una quantomeno illusoria “libertà dei popoli” o una ulteriore parcellizzazione del globo in nuovi Stati, in realtà, non significa altro che condannare queste stesse Nazioni e popoli all’insignificanza geopolitica. Lo Stato forte impone comunque il suo protettorato sul popolo debole incapace di garantirsi una reale sovranità. Così afferma Yoram Hazony, co-fondatore dell’Edmund Burke Foundation e presidente dell’Herzl Institute (ed ospite della conferenza romana), nel suo libro Le virtù del nazionalismo. E così, gli Stati Uniti odierni, attraverso la “tradizionale” strategia del divide et impera, cercano di reimpostare il proprio “sistema imperiale” sulla base del rapporto di forza negoziale Stato forte verso Stati deboli e di piccole dimensioni (un approccio alle relazioni internazionali definito come “bizantino”).
Proprio il testo dell’ideologo israeliano (considerato alla stregua di potenziale “manifesto” per un’ipotetica Dottrina Trump “a venire” visto che l’attuale amministrazione, ad oggi, non si è dimostrata particolarmente diversa dalle precedenti), in questo senso, è particolarmente esplicativo. Hazony resta alla larga dal dibattito sulla creazione dello Stato moderno (forse per non incappare nel confronto con il citato Carl Schmitt), tuttavia considera il nazionalismo come parte integrante della natura umana. La sua elaborazione teorica si fonda a partire dall’attuale contrapposizione tra sovranismo (come ipotetico ordine di Stati liberi e indipendenti) e globalismo (da intendersi come una sorta di impero universale). Tale “conflitto”, secondo Hazony, sarebbe “vecchio come lo stesso Occidente” (dunque, relativamente nuovo se per “Occidente” si intende quella parte di mondo costruita ad immagine e somiglianza del centro di potere anglo-americano). Naturalmente, il prototipo di Stato-nazione (neanche a dirlo) è rappresentato dal biblico Regno di Israele la cui “eredità” è stata sviluppata e raccolta in epoca moderna (con il diffondersi del protestantesimo come rivincita dei caratteri guidaici sulle influenze neoplatoniche del cristianesimo cattolico e ortodosso) da Regno Unito e Stati Uniti. Non a caso due entità politico-statuali che hanno a più riprese avanzato la pretesa di rappresentare la “Nuova Israele” (basti pensare alle leggende legate alla presunta discendenza del popolo inglese da una delle dodici tribù perdute di Israele o alla retorica del “nuovo esodo” con la quale i puritani si recarono in America per creare una nuova Gerusalemme in antitesi alla dispotica Europa). Ora, prescindendo dalla consueta confusione (probabilmente voluta) fra i termini “Impero” e “imperialismo”, Hazony, sulla base delle precedenti considerazioni, compie una distinzione tra Stati dispotici (gli Imperi fondati sulla conquista e la violenza) e gli Stati liberi (prodotto dell’unificazione tra gruppi che condividono una medesima cultura). Ovviamente, si guarda bene dall’approfondire il fatto che tanto gli Stati Uniti quanto l’attuale Stato di Israele (ma, in effetti, questo varrebbe anche per il biblico Regno di Israele) si siano formati sull’appropriazione forzosa di territorio, sulla conquista, sulla violenza e sulla distruzione dei popoli e delle culture autoctone. Così, muovendo una blanda critica al sogno egemonico globale nordamericano, l’obiettivo principale della sua critica diventa l’attuale Unione Europea considerata alla stregua di “Impero dispotico” a tutti gli effetti.
Tuttavia, ancora una volta, Hazony evita scientemente di ricordare il fatto che l’attuale Unione Europea è in larga parte un prodotto nordamericano: un costrutto economico-finanziario che avrebbe dovuto garantire il facile controllo geopolitico del continente da parte di Washington nel momento del crollo del cosiddetto blocco socialista. A questo proposito è bene riportare una celebre dichiarazione dello stratega del Pentagono Zbigniew Brzezinski: “Qualunque espansione del campo di azione politico dell’Europa, è automaticamente un’espansione dell’influenza statunitense. Un’Europa allargata ed una NATO allargata serviranno gli interessi a breve ed a lungo termine della politica europea. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Vicino Oriente”. L’Unione Europea odierna, dunque, non è Europa ma anti-Europa. È “europeista” (in senso mercantilistico) ma anti-europea sul piano politico-culturale. La sua disgregazione è necessaria qualora si imponga una sua ricostruzione sulla base di una reale unità politica e militare e non una riaffermazione di Stati-nazione dalle dimensioni più o meno ridotte ed incapaci (da soli) di garantirsi una qualsivoglia forma di sovranità. Questa “reale unità politico-militare” dell’Europa è percepita come minaccia esistenziale da parte del sistema imperiale nordamericano. E, per questo motivo, lungo la direttrice nord-ovest/sud-est, Regno Unito e Israele svolgono il ruolo di guastatori di ogni potenziale (e per il momento solo ipotetica) affermazione di un’Europa realmente unita e sovrana.
Oltre alla figura di Hazony, merita particolare attenzione anche quella di David Brog, presidente della Edmond Burke Foundation. Ex direttore esecutivo di Christians United for Israel (organizzazione creata dal pastore evangelico John Hagee), Brog è autore dei libri In defence of faith: The Judeo-Christian idea and the struggle for humanity e Standing with Israel: Why Christians support the Jewish State.
In questo contesto non ci si soffermerà sulla più o meno complessa struttura del messianismo giudaico-evangelico. Basterà ricordare che molte delle sigle evangeliche nordamericane aspirano al completo ritorno in Palestina di tutti gli ebrei per accelerare il secondo avvento del Cristo. Si tratta, né più né meno, che di forzare la mano di Dio: una “pratica” ampiamente diffusa in età moderna dal messianismo blasfemo di Sabbatai Zevi o Jacob Frank che mirava a colmare il mondo di impurità in modo da provocare una reazione divina. Questo avvento dell’era messianica, così, si caratterizzerà su di una spartizione dei “mondi”: il regno dei cieli affidato ai “cristiani” ed un regno mondano affidato agli ebrei (di fatto, l’epoca messianica nell’ebraismo si manifesta come dominio effettivo di un popolo, eletto da Dio a tale scopo, sul mondo intero attraverso il ritorno della presenza divina nel ricostruito Tempio di Gerusalemme). Inutile dire che tale approccio è in palese antitesi con la tradizione cristiana cattolica e ortodossa. Tuttavia, ciò che interessa ai fini del discorso sin qui affrontato è conoscere l’attività di Brog. Questo, nel 2015, ha fondato con il magnate/filantropo Sheldon Adelson (una sorta di Soros del “sovranismo” che ha versato 25 milioni di dollari per finanziare la campagna elettorale di Donald Trump) il Maccabee Task Force: un’organizzazione che si propone di combattere la “disturbante diffusione dell’antisemitismo nei campus dei college americani”. In realtà, l’obiettivo è la criminalizzazione di ogni forma di boicottaggio nei confronti dell’economia coloniale israeliana e (non sorprendentemente) promuovere l’equiparazione tra anti-semitismo ed anti-sionismo. Questa organizzazione, nell’ottobre 2019, si è posta l’obiettivo di espandere la propria azione “in Europa ed oltre”.
Alla luce di questi fatti, non dovrebbe affatto soprendere lo zelo con il quale taluni politici italiani abbiano abbracciato la causa “giudeo-cristiana”. La costante ricerca di un padrone (e patrono) è da qualche decennio a questa parte una costante nello scenario politico italico e la ragione dell’eterna condanna del Paese alla sudditanza geopolitica. In un articolo di presentazione della National Conservatism Conference apparso su Il Giornale, l’articolista elogiava la coraggiosa iniziativa affermando la necessità che qualche idea proveniente dal nostro Paese si affacciasse finalmente in un dibattito internazionale di un qualche spessore. Dispiace dovergli dare torto ma, anche in questo, niente proviene realmente dal nostro Paese.
Daniele Perra
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