Recensione di Fabio Calabrese
Ci sono due idee che appaiono oggi sconfitte dal trionfo planetario della liberal-democrazia attualmente diventata o autoproclamatasi “pensiero unico”, intendendo con ciò che non si possano concepire diversamente i rapporti sociali e politici: l’idea dell’identità etnico-nazionale e l’idea socialista intesa in senso generale come idea del controllo della politica e mediante essa, del corpo sociale sull’economia. Il pensiero unico liberal-democratico, infatti, prevede sia l’illimitato cosmopolitismo dei mercati e delle popolazioni, quella che oggi si chiama globalizzazione, sia l’assenza di vincoli e controlli da parte del potere politico e del corpo sociale che esso dovrebbe rappresentare, al dispiegarsi del gioco delle forze economiche, con un radicalismo che è la realizzazione del sogno di Adam Smith e dell’incubo per molti altri.
Soprattutto di fronte ai disastri e alle crisi croniche in cui le politiche economiche ispirate ai teorici del “pensiero unico” hanno trascinato ormai – si può dire – il mondo intero, l’economia globale, sia ha la sensazione che molto sia stato abbandonato, buttato alle ortiche per fare posto a una rozza semplificazione, specialmente oggi che le sinistre hanno del tutto accantonato qualsiasi concezione socialista per abbracciare con sospetto entusiasmo il verbo neo-liberista con la sua promessa della creazione di società cosmopolite e multietniche, non avvedendosi o fingendo di non avvedersi che i primi a rimetterci sono proprio quei lavoratori, quelle classi lavoratrici che le sinistre stesse credono o fingono di tutelare ancora.
Forse proprio in una sintesi delle due idee “battute” dal “pensiero unico” predicato dagli apostoli del neo-liberismo, si può trovare la risposta, la via maestra per uscire dalla crisi in cui il capitalismo neo-liberista ci ha trascinati.
Bene, questa sarà una novità per molti, ma una sintesi di queste due idee “battute”, nazionalismo e bolscevismo, non è una novità assoluta, è già stata sviluppata fra le due guerre mondiali da parte di un movimento che si è autodefinito nazionalbolscevico, e non mediante una posizione centrista, ma proprio mettendo insieme “gli estremi che si toccano” e proprio là dover si toccano, cioè dove i punti di frizione rispetto al pensiero “moderato” liberal-borghese sono più forti.
Il luogo di un simile esperimento politico, ideologico e culturale, non poteva essere che la Germania, perché la Germania fra le due guerre mondiali è stata un laboratorio politico straordinario, perché la concezione tedesca della Volkgemeinschaft , “comunità di popolo” figlia della cultura romantica, nello stesso tempo istintivamente socialista e segno di definizione di un concetto di nazionalità fortemente identitario, inclinava in questa direzione, sia per l’ostilità comune a destra e a sinistra, verso quel liberalismo che era visto come l’ideologia dei nemici della Germania, quelli che l’avevano voluta costringere a una guerra lunga e sanguinosa e poi imporle l’umiliazione del trattato di Versailles.
La storia del nazionalbolscevismo ci è raccontata in questo agile libretto da Marco Bagozzi, un giovane e promettente ricercatore che si è già rivelato come una delle voci più interessanti della nostra “Area”.
Va da sé che un movimento come quello nazionalbolscevico non poteva costituire un tutto unico e nemmeno omogeneo, ma piuttosto una galassia di movimentini politici e di intellettuali più o meno indipendenti l’uno dall’altro, ma fra i quali si manifestavano importanti e sorprendenti convergenze.
L’autore ci presenta quello che potremmo definire un avvicinamento concentrico all’argomento, esaminando dapprima gli elementi di nazionalismo presenti nel bolscevismo (quello sovietico) e nel comunismo tedesco fra le due guerre, poi quelli di sinistra nel nazionalsocialismo, e infine il nazionalbolscevismo vero e proprio.
Ora, una critica che mi sembra di dover avanzare al libro di Bagozzi, è che egli, sulla scia – va riconosciuto – dei nazionalbolscevichi tedeschi, sopravvaluta molto l’importanza del primo punto.
Che Stalin abbia a un certo punto proclamato l’avvento del “socialismo in un solo Paese” di contro alla prospettiva trozkista di rivoluzione mondiale, non rappresenta una svolta ideologica rispetto a Marx e Lenin, ma una semplice questione di Realpolitik . Trozky faceva propria l’idea di Marx che una volta scoppiata, la rivoluzione proletaria si sarebbe estesa rapidamente a una dimensione mondiale, ma questa è semplicemente una delle cose che dimostrano quanto il “socialismo scientifico” fosse profondamente intriso di utopia. Stalin fece ricorso al patriottismo russo improvvisamente resuscitato, in maniera del tutto strumentale durante il conflitto russo-tedesco, e anche questo non era un mutamento ideologico ma semplice scaltrezza politica.
Il ricorso dei comunisti non sovietici ad argomenti di natura patriottica o nazionale, poi, quando è avvenuto, è sempre stato tattico e strumentale, vi hanno fatto ricorso solo quando – per avventura – l’interesse delle rispettive nazioni finiva per coincidere con quello sovietico o del movimento comunista internazionale (ammesso che si possa fare un distinguo fra le due cose).
Ne abbiamo avuto chiari esempi nella storia del comunismo italiano, e abbiamo tutti i motivi per ritenere che per quello tedesco o di altra nazionalità, le cose non stessero in maniera sostanzialmente diversa. Ad esempio, nel 1948, il PCI parve percorso da un’ondata di patriottismo, e denunciò con veemenza gli orrori compiuti dai titini contro la popolazione italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico, le foibe e gli eccidi compiuti per costringere gli Italiani alla fuga, per cancellare la presenza italiana in Istria e nella Venezia Giulia. Non è in alcun modo credibile che i dirigenti del PCI avessero saputo di tutto questo soltanto allora. Semplicemente, misero in piazza tutto ciò perché Tito aveva rotto con Stalin che era sempre “il papa” del comunismo, e di cui erano fedeli seguaci.
Quegli stessi che fingevano di indignarsi per le atrocità commesse dagli Jugoslavi sulla sponda orientale dell’Adriatico, quattro anni prima erano pienamente consenzienti. Si ricorderà che la brigata partigiana non comunista Osoppo, dopo essere stata catturata con l’inganno, fu massacrata come una mandria di agnelli al mattatoio alle Malghe di Porzus, per aver rifiutato di mettersi agli ordini del IX Corpus jugoslavo, cosa che avrebbe prefigurato l’annessione alla Jugoslavia di tutto il Friuli. Ma a compiere il massacro non furono gli jugoslavi, ma i comunisti italiani della brigata Garibaldi.
Oggi la sinistra nostrana fa sfoggio di patriottismo, ma solo allo scopo di infastidire e di contrastare politicamente la Lega. Io penso che si possa considerare una regola che ogni volta che un comunista o un “compagno” fa sfoggio di nazionalismo o di patriottismo, si tratta di qualcosa di strumentale e di ipocrita.
Il momento massimo di espressione nazionalistica-patriottica, il KPD, il partito comunista tedesco guidato da Ernst Thalmann, del resto di stretta osservanza sovietica e staliniana, lo ebbe in occasione della crisi della Ruhr. I Francesi occuparono questa importantissima regione mineraria posta sul confine occidentale della Germania, in conseguenza del mancato pagamento da parte tedesca delle esorbitanti riparazioni di guerra previste dal trattato di Versailles.
Nel 1923, in seguito a un attentato dinamitardo, le autorità di occupazione francesi della Ruhr arrestano e giustiziano uno studente, Albrecht Leo Schlageter. Questo evento provocò un’ondata d’indignazione fortissima in tutta la Germania, e i comunisti si affrettarono a cavalcare la protesta; in questo ruolo la funzione principale l’ebbe l’esponente del Komintern in Germania Karl Radek (che rispondeva direttamente a Stalin). Per un certo periodo si ebbe quella che fu chiamata la “linea Schlageter”, ossia la convergenza d’azione fra comunisti e nazionalsocialisti, agevolata dal fatto che le potenze dell’Intesa non erano solo il nemico che aveva umiliato la Germania dal punto di vista nazionale, ma l’incarnazione di quell’ordine internazionale liberal-democratico-borghese che era nello stesso tempo il nemico di classe.
Almeno all’epoca, i comunisti approfittarono della situazione facendo sfoggio di un patriottismo e di uno spirito di rivalsa nazionale maggiore di quello nazionalsocialista, poiché l’esigenza di tenere buoni rapporti con il fascismo italiano obbligava il partito di Hitler a tacere sulla questione del Tirolo meridionale diventato l’Alto Adige, mentre il KPD aveva al riguardo mano libera, ma, come ho detto, per dei comunisti il patriottismo è sempre qualcosa di spurio e strumentale, e mi sembra che Bagozzi sopravvaluti gli spunti in questo senso.
Completamente diverso il discorso per quanto riguarda la componente socialista del nazionalsocialismo. In tutti i fascismi c’è sempre stata una componente “di sinistra” anche se l’esigenza della lotta al comunismo e la conseguente alleanza con i ceti borghesi hanno finito per metterla spesso in sordina, forse soltanto il franchismo spagnolo (e anche qui distinguendo Franco dal falangismo di Jose Antonio) si caratterizza come movimento puramente conservatore.
Nel nazionalsocialismo questa tendenza era presente maggiormente che altrove. Non a caso, esso era nato come “Partito dei Lavoratori Tedeschi” (DAP), e lo stesso antisemitismo si presentava connesso a un discorso sociale, poiché l’ebreo era visto sostanzialmente come il borghese usuraio, sfruttatore e parassita (e ciò trovava più consonanze di quel che si penserebbe oggi nelle posizioni degli stessi comunisti).
In tutto ciò faceva gioco la concezione romantica e organicista della Volksgemeinschaf, insieme sociale e nazionale, risalente ai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte.
Se tutto ciò vale per la corrente ortodossa del nazionalsocialismo, vale a maggior ragione per quella che fu la sua “ala sinistra” incarnata dai fratelli Gregor e Otto Strasser.
La vicenda è nota. Gregor Strasser che dei due fratelli era la personalità dominante, si mise in concorrenza con Hitler per la leadership del partito, finì emarginato e poi fu fra le vittime della sanguinosa epurazione della “notte dei lunghi coltelli”, mentre Otto si rifugiò in America, mentre Joseph Goebbels, la terza personalità di rilievo di questa corrente, si schierò dalla parte di Hitler, ed era destinato a diventare ministro della propaganda del Terzo Reich.
L’esponente principale del nazionalbolscevismo vero e proprio, tuttavia, il suo teorico e leader, fu Ernst Niekisch, travagliata figura di rivoluzionario oggi praticamente sconosciuta al di fuori degli ambienti degli storici e dei ricercatori politici e sociologici. Nato in Slesia nel 1889, crebbe in Baviera dove la famiglia si trasferì quando era giovanissimo, di famiglia piccolo-borghese – il padre era un fabbro – riuscì a completare gli studi fra mille problemi soprattutto economici. Subì l’influenza del pensiero di Marx, ma anche di Schopenhauer, Nietzsche, Kant, Hegel. Fu arruolato allo scoppio della prima guerra mondiale, ma non fu mandato al fronte per problemi di vista, divenne istruttore delle reclute.
Aderì al SPD, il partito socialista tedesco ma se ne staccò per l’atteggiamento troppo morbido di quest’ultimi sulla questione della Ruhr. Fece parte di diversi gruppuscoli di ispirazione socialista e rivoluzionaria e scrisse numerosi articoli e saggi nei quali il suo pensiero politico si andò via via precisando. Nel 1926 fondò il giornale “Wiederstand”(“Resistenza”), che doveva ospitare alcune delle firme più prestigiose della politica e della cultura tedesche, fra cui quella di Enst Junger. Di Hitler e dei nazionalsocialisti aveva un’idea negativa, eccezion fatta per il gruppo che faceva capo ai fratelli Strasser.
La pubblicazione del “Wiederstand”fu vietata nel 1934. Niekisch fu arrestato nel 1937 e nel 1939 fu condannato all’ergastolo, fu dapprima inviato nel carcere di Brandeburgo, dove fu liberato dall’Armata Rossa alla fine della guerra. Dopo il conflitto, si stabilì nella DDR e aderì alla SED, il partito comunista tedesco-orientale, da cui si staccò in seguito alla repressione dei moti popolari del 1953. Si rifugiò allora a Berlino ovest, ormai malato e quasi cieco, dove morì nel 1967.
Nella visione politica di Niekisch, rivoluzione sociale e rivoluzione nazionale sono strettamente abbinate, propugna una netta contrapposizione all’Occidente liberal-democratico e borghese e vede nella Russia sovietica un alleato naturale della Germania, è stato un netto propugnatore di quella che lui per primo chiamò Ostpolitik, politica di attenzione verso l’est. Nella rivoluzione bolscevica vedeva non tanto la realizzazione delle idee di Marx di cui ripudiava l’internazionalismo, quanto piuttosto la rinascita nazionale russa che doveva servire di esempio a quella tedesca. Un altro tratto caratteristico del suo pensiero, è il fatto che egli vedeva nell’Occidente liberal-democratico un prolungamento del Romanentum, dello spirito latino e anti-tedesco della Controriforma, quindi il nemico naturale e atavico della Germania, contro il quale invocava l’alleanza coi popoli slavi e soprattutto con la Russia rigenerata dalla rivoluzione bolscevica.
Il nazionalbolscevismo non fu un movimento unitario e coerente, ma piuttosto una galassia di personalità che si incontrarono attratte in vario grado dal magmatico carisma di Niekisch, e che Bagozzi documenta nel suo agile ma denso testo, ma che nello spazio di una recensione sono impossibili da citare tutte. E’ singolare, ma fra gli aderenti al nazionalbolscevismo troviamo anche diversi aristocratici, fra i quali la personalità intellettuale più rilevante è probabilmente Moeller van Den Bruck, ma qui – ci fa osservare Bagozzi – fa probabilmente gioco lo stretto legame di sangue che esisteva fra la nobiltà tedesca e quella russa, in conseguenza del quale l’Ostpolitik, l’orientamento verso est, era cosa del tutto naturale.
Fra i collaboratori del “Wiederstand” la personalità di maggior rilievo fu probabilmente quella di Ernst Junger. Di questo scrittore e fine intellettuale nonché assertore di una visione politica di totale rifiuto dell’occidentalismo liberal-democratico, l’opera politica più importante e nota è probabilmente il saggio Der Arbeiter (“L’operaio”, “Il lavoratore” o anche “Il creatore”; questo termine ricco di sfumature si rende difficilmente in italiano). La sua concezione si potrebbe definire un “socialismo di guerra” coincidente con la totale militarizzazione della società, il suo conglobamento in un’unica volontà titanica che non lascia nessuno spazio ai borghesi (antitesi sia del lavoratore che del militare) né alla proprietà privata.
Bagozzi conclude la sua disamina con un’osservazione di grande interesse sulla quale sarebbe opportuno riflettere con grande attenzione. Quella nazionalbolscevica è stata in sostanza una “rivoluzione postuma”. Le rivoluzioni anti-occidentali, anti-borghesi, anti-americane successive alla seconda guerra mondiale che si sono diffuse soprattutto nel Terzo Mondo ex coloniale, da Nasser a Hugo Chavez passando per Gheddafi, Saddam Hussein e gli Assad siriani, sono figlie molto più di Niekisch che non di Marx, e davvero non stupisce che siano oggi gli USA e la CIA ad avere suscitato il fondamentalismo islamico per distruggere le tendenze nazionali e socialiste presenti nel mondo arabo, evocando quello che – anche dal loro punto di vista – si è rivelato un rimedio peggiore del male.
Oggi anche questa tendenza nazionale e socialista presente nel Terzo Mondo appare in fase di ripiegamento, si tratta tuttavia di una delle poche forze che ancora si oppongono allo strangolamento dell’umanità in un “nuovo ordine” planetario e mondialista, che vede i popoli disgregati, meticciati e asservita all’alta finanza.
Marco Bagozzi
Nazionalbolscevismo – uomini, storie, idee
Noctua edizioni, 2011.
€. 12,00
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