Ogni anno con l’avvicinarsi del 2 agosto, anniversario della strage alla stazione di Bologna, sono pervasa da un profondo senso di inquietudine. E’ difficile spiegare cosa si prova a vedere la propria città martoriata, a sapere che sono morte tante persone quel giorno e che giustizia, quella vera, ancora non è ancora stata fatta. Ci si sente come defraudati, derubati, abusati. Il senso di sicurezza del vivere in una comunità che ci deve proteggere, difendere, salvaguardare, viene a mancare all’improvviso e si resta senza fiato, senza parole, senza sapere cosa fare. “…La tortura non è soltanto la violenza perpetrata vilmente sui corpi indifesi, ma anche quella che provoca delitti e distrugge esistenze, con in più l’arroganza di chi, investito di un’alta responsabilità civile, ha la certezza di non doverne rendere conto” dice Stefano delle Chiaie nel suo libro “L’aquila e il condor” che ho letto recentemente.
All’epoca, con la mia famiglia, abitavo in linea d’aria, a meno di un km dalla stazione di Bologna e quella mattina del 2 agosto 1980, era sabato, mia madre e io eravamo impegnate nelle pulizie generali della casa, quando un boato spaventoso, fece tremare i vetri. Neanche il tempo di chiedersi cosa fosse successo e già sentivamo il rombo di un elicottero passare sui tetti e il latrato delle sirene, miriadi, delle ambulanze, della Polizia, mentre le auto guizzavano, sibilanti sull’asfalto già caldo fin dalle prime ore del mattino. Era successo qualcosa di grave, di gravissimo non poteva essere diversamente. Uscii e mi diressi, verso la stazione, dove vedevo affluire la gente che era già per strada. Più mi avvicinavo, più sentivo urla, grida, e scorgevo persone disperate con le mani tra i capelli. Quando arrivai davanti al piazzale Medaglie d’Oro lo spettacolo che si presentò ai miei occhi era allucinante ed è quello che ognuno conosce, dalle prime foto scattate al momento dell’esplosione e passate su tutti i giornali del mondo. L’orologio fermo alle 10,25. La polvere ancora non si era posata , una nuvola grigia aleggiava nell’aria del caldo mattino di agosto mischiandosi con l’afa e con un odore pungente, acre, di polvere da sparo e mi pizzicavano gli occhi. Ho capito da subito che nessuna esplosione di una caldaia avrebbe potuto fare quell’odore. Il cuore batteva all’impazzata e mi riusciva difficile respirare.
Mio fratello lavorava là e lo pensavo con terrore, imprigionato fra le macerie e, chissà, forse morto insieme a tanti altri. Il suo ufficio era dislocato proprio sopra la sala d’aspetto che era crollata, lo sapevo bene, e non avevo idea di cosa potesse essergli successo. Per fortuna si era salvato e, al momento del mio arrivo nei pressi della stazione, era già impegnato con altri colleghi a prestare i primi soccorsi ai feriti. Ci raccontò in seguito quanto sia stato difficile superare lo choc iniziale e scendere, da una finestra sul retro, perché il corridoio che portava alle scale era crollato e provare a tranquillizzare le persone che fuggivano, urlavano e si calpestavano perfino in preda al panico. Di come avesse aiutato un uomo a disincagliarsi da una ringhiera dove era stato sbattuto dalla violenza della forza d’urto dell’esplosione e di quanto si sentì sollevato a trovarlo martoriato nel viso e nel corpo, ma ancora vivo. ”Una maschera di sangue” era solito ripetere al ricordo “solo gli occhi riuscivo a vedere, sbarrati, che guardavano il vuoto”. In un ufficio, accanto a quello di mio fratello, lavorava la mia amica Rita Verde, eravamo state compagne di scuola, la sua stanza si trovava aldilà del corridoio crollato e lei, invece, morì sotto le macerie. Pensare che al momento dell’assunzione, quando aveva abbandonato gli studi, le avevo anche detto “Bella fortuna, hai trovato il posto fisso…” L’esplosione causò la morte di 85 persone e il ferimento o la mutilazione di oltre 200 in totale.
Ora non è che io possa aggiungere molto alla montagna di parole scorse a fiumi su quel tragico evento. Non ne ho né la conoscenza specifica, né la capacità. A differenza di altre gravissime stragi che hanno insanguinato l’Italia, la strage di Bologna ha dei colpevoli ufficiali, sono Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, terroristi appartenenti ai NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) e condannati con sentenza definitiva come esecutori materiali della strage. Nel 2002 la Corte d’Appello ha aggiunto ai colpevoli, condannandolo a 30 anni di reclusione, Luigi Ciavardini anche lui come esecutore materiale dell’attentato. E sono tre. Tutti i condannati si sono professati innocenti, nonostante abbiano confessato molti altri delitti per i quali stanno scontando diversi ergastoli. Sono stati anche condannati, ma solo per depistaggio, il gran maestro della loggia P2 Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza, oltre a Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, due ufficiali del Sismi. Nella sentenza definitiva della Cassazione però, mancano mandanti e movente.
E questa, grandi linee, è la storia scritta, ma la verità che non si legge da nessuna parte, che non risuona in alcuna aula di tribunale, è quella mai raccontata al popolo bolognese e italiano. Una verità fatta di depistaggi, clamorosamente acclarati durante i vari processi istruiti ai danni di numerosi rappresentanti dell’estrema destra italiana come lo stesso Stefano Delle Chiaie, assolto poi in via definitiva. Fin dall’inizio delle indagini furono trascurate tutte le piste che potevano essere prese in considerazione, non starò qui ad elencare quali e quante fossero, ma si cercò solo ed esclusivamente di costruire un castello accusatorio verso “elementi della destra sovversiva” facendone l’unica e vera colpevole, in ottemperanza a quel disegno che la voleva armata e pronta a sovvertire il sistema. Così ogni indizio che avesse spiegazioni alternative è stato incasellato secondo la precostituita tesi della responsabilità di “un fronte monolitico e clandestino, una medusa nera, che va dai resti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale fino a Mar, Terza Posizione e Nar”. Scrive ancora Delle Chiaie nel suo libro. In realtà Bologna e l’Italia erano, sono, territori a “sovranità limitata”, dove terroristi internazionali, servizi segreti, aerei della NATO agivano liberamente, uccidendo e fuggendo senza che nessuna guardia, magistrato o politico si sognasse di perseguirli. Asservendosi, anzi, al potere d’oltreoceano che da sempre ci commissiona e gioca con noi e la nostra economia come il gatto con il topo.
Anche l’associazione familiari delle vittime si batte affinché emerga la verità e crede, più che mai, sia ancora possibile risalire ai veri mandanti, organizzatori della strage e che, se solo si volesse trovarlo, sarebbe a portata di mano quel pezzo di “verità giudiziaria” sempre mancato ai processi celebratisi nel corso del tempo. “Nei processi sono stati anche condannati uomini dei servizi per le deviazioni, ma non si è indagato per comprendere per chi e perché depistarono. Le indagini si sono sempre arrestate sulla soglia oltre la quale sarebbe stato possibile trovare mandanti e complici. Quella soglia sarà mai varcata?” così conclude Stefano Delle Chiaie il capitolo riguardante Bologna e la strage della stazione.
Aggiungo soltanto, a mio modesto parere che, la conclusione sotto gli occhi di tutti è che gli effetti dello stragismo furono di certo più favorevoli al sistema che non ai fascisti perseguitati, accusati, e tacciati della peggiore delle infamie. Non serve che negli anni le tesi dei “colpevoli” siano state difese da politici, giuristi e periti. Bologna è una ferita aperta, che come il resto d’Italia e della sua storia recente è succube, dalla “liberazione” in poi, di quel sistema che vuole monopolizzare la memoria e che desidera coprire la verità ad ogni costo. Chiedo pietà per i morti e per le loro famiglie.
Oggi 33 anni dopo, noi siamo ancora qui e aspettiamo la verità . Né con speranza né con timore.
Franca Poli
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