10 Ottobre 2024
Julius Evola

Nell’anniversario della nascita: annotazioni su Evola – Umberto Bianchi

A 122 anni dalla sua nascita, sembra proprio che l’ombra del Barone non voglia proprio lasciarci, anzi. Nonostante le critiche, le invettive, o i sorrisetti di sufficienza che ne hanno accompagnato e ad oggi, ne accompagnano spesso l’operato e la figura, quella di Julius Evola, è una di quelle personalità, che ha lasciato il segno sulle generazioni della sua epoca ed anche su quelle a venire ed il cui lascito, farà discutere per molto tempo ancora. Il fascino di Evola, il fatto che ancora oggi, sia un a figura in grado di suscitare in chi lo legga, odio o amore, interesse o disprezzo, è dato dal suo essere tutto ed il suo contrario, un vero e proprio simbolo dell’Occidente e delle sue mille aporie e contraddizioni. Cerchiamo, per esempio, di inquadrare la figura di Evola su un piano meramente politico o metapolitico che dir si voglia.

Di lui tutto si potrà affermare, meno che fosse fascista o, ancor meno, nazista, nonostante le rabbiose accuse o i frettolosi ostracismi dei settori “mainstream” della cultura italiana ed occidentale in genere. Il suo atteggiamento ferocemente aristocratico, elitario, al pari del suo credo in una dimensione puramente spirituale ed archetipica della razza, ne fa un personaggio difficilmente inquadrabile ed irreggimentabile nell’alveo ideologico dei Totalitarismi di stampo fascista del ‘900. E la sua vicenda umana, oltrechè letteraria, è lì a testimoniarcelo con i suoi problemi durante il Ventennio, con quel suo complesso rapporto di odio-amore con il Fascismo, che lo portò, (cosa inaudita per i tempi, sic!) a spiattellare in faccia allo stesso Mussolini la sua non appartenenza ideologica al Fascismo…Il non fascista Julius Evola finisce, invece, con il divenire figura ideologica di riferimento proprio per un ambiente che, nell’immediato dopoguerra ed oltre, al Fascismo cercò di rifarsi.

Questo perché, come abbiamo già detto e ripetiamo, Evola fu tutto ed il suo contrario. Inizialmente animato da un afflato di tipo artistico, passa successivamente al pensiero esoterico e filosofico, sino ad approdare, sulla falsariga di Renè Guenon ed altri consimili pensatori, ad un pensiero “perennialista”, imperniato sull’idea totalizzante di una Tradizione, in radicale contrapposizione con la Modernità. Ad uno sguardo di superficie, Evola non sembra proporre nulla di nuovo, se non quella Tradizione, la cui medesima analisi etimologica, dovreb

be rimandarci ad una visione rigida ed immobilista, legata al passato, della realtà. Questo perché, sinora, non si è mai voluto analizzare e capire sino in fondo, la reale natura del percorso di pensiero evoliano. La vulgata ci descrive e le varie fasi del suo pensiero, come momenti distinti e quasi incompatibili, anzi in piena contraddizione tra loro, a coronamento dei quali, in veste di “satori” finale, sta l’approdo al perennialismo tradizionalista. A ben vedere, invece, tali momenti non solo non sono in contraddizione tra di loro ma, anzi, si compenetrano ed intersecano in un tutto che, invece, ha un suo proprio non sensato-senso. Questo non-senso, parte proprio dall’esperienza artistica pittorico poetica dadaista, nella quale, sulla spinta delle istanze delle avanguardie, il senso della realtà viene scomposto e frammentato attraverso le dimensioni, in un contesto di totale annichilamento della realtà, tale da spalancare le porte all’ingresso dell’irrazionale e della pratica magico-esoterica. Questo momento non può non accompagnarsi ad una riflessione filosofica, incentrata proprio sulla “fenomenologia” di quell’ “Io” che, di fronte al non senso della realtà, assume una centrale funzione di ordinatore del cosmo. Questa impostazione troverà la propria concreta rispondenza, proprio nella vicenda del Gruppo di Ur, in cui nel contrasto tra Evola e Reghini, ad affrontarsi non saranno solo due forti personalità, ma anche due differenti ed opposte concezioni riguardanti l’iniziazione, ovverosia, l’approccio principiale dell’individuo con l’Assoluto. Se il Reghini si farà portatore dell’idea di una ineluttabile linea di trasmissione di certi saperi, nell’ambito di una vera e propria “catena” iniziatica. Evola, al contrario, si farà fautore di un’idea di “auto-iniziazione”, svincolata, cioè, da qualsiasi catena sapienziale e perciò stessa, frutto di uno spontaneo moto di presa di coscienza, imperniato sulla potenza di quell’ “Io” che, invece, rimarrà centrale nelle sue successive prese di posizione.

Se andiamo a ben vedere, Evola non si fa portatore di alcuna dottrina tradizionale o esoterica che dir si voglia, in particolare. Nel passare in rassegna più o meno, tutte le forme del sentire connesse al sovrannaturale, al Nostro interessa l’osservanza di una linea di condotta sulla base di principii eterni, più o meno comuni a tutte le tradizioni, ma che per essere attivati ed applicati “in terris”, hanno bisogno del ruolo attivo e cosciente da parte dell”Io”. Cosa questa che, in tal modo, ne riconfermerà il proprio ruolo di primogenitura e di centrale punto di riferimento, per tutta la riflessione occidentale, a partire dal 18° secolo in poi, dovuto all’apparire sul proscenio, del pensiero vitalista ed irrazionalista, quale contraltare al suo opposto corrispettivo, rappresentato dal materialismo meccanicista ed empirista.

Tale e centrale fu in Evola l’impersonale culto dell “Io”, da fargli affrontare la sfida del fuoco delle bombe su Vienna e la conseguente invalidità a vita, con la sicurezza e l’indifferenza di chi solamente in un “Sé” amplificato a dismisura, può trovare la “vis” per proseguire con la stessa ed ancor più intensa, forza e carica di prima. E così il non-fascista Evola, anziché divenire un innocuo ma gettonato autore esoterico di successo, al pari di un Elemire Zolla, di un Roberto Calasso, di un Giorgio Colli, o di altri ancora, affiderà al malconcio ambiente della destra radicale italiana del dopoguerra, il suo progetto di uno Stato Aristocratico, forgiato da elites di iniziati, veri e propri superuomini non animati da alcuna vera religione o Tradizione, che non siano quelle rappresentate dal perseguimento di quell’ “apolitìa”, ovverosia di uno stile di vita fondato su valori e punti di riferimento validi a qualunque latitudine ed epoca storica.

La figura del Barone è lì, ad offrirci, una volta di più, l’immagine di quella contraddizione che sempre vive ed anima tutta la vicenda occidentale, accompagnata alla perenne tentazione di una via d’uscita, offerta da un’inedita ed “alchemica” sintesi tra quell’ “Archè” e quell’ “Avanguardia”, che danno così corpo all’idea di un “Estremo Passato” e di un “Estremo Futuro”, nell’atto di congiungersi in un Tutto inscindibile, nell’animo di quell’uomo che “in piedi”, guarda con attiva indifferenza ad un mondo di rovine.

UMBERTO BIANCHI

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