9 Ottobre 2024
Film Sangue sparso

Neofascisti ma non piagnoni

di Giacinto Reale

Due righe per una riflessione che avevo in punta di penna (o di tastiera) da un po’, ma che l’articolo di Merlino su “Sangue sparso” (film che non ho ancora visto, premetto) mi sollecita a buttar giù, nella convinzione che essa abbia un qualche collegamento con la sua reazione di fronte alla visione della pellicola.
Chi talora ha la ventura di leggere qualche nota che anche qui pubblico, sa della mia passione per vicende e uomini del fascismo delle origini, e sa anche, per averlo già scritto, che alla base vi sono motivazioni:
– “scientifiche” (lì c’è tutto il fascismo, quello che sarebbe stato e, soprattutto, quello che avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dei suoi inventori);
– sentimentali (chi ha vissuto, in qualche modo, e sia pure in scala infinitamente ridotta stagioni di “lotta al sistema”, di solitudine militante contro tutti, di cameratesca unione fatta di vincoli di fede e sangue, pochi contro molti, non può non riconoscersi nella controsocietà delle squadre e dei BL18);
– caratteriali (nonostante tutto, e a dispetto anche degli anni, continuo a credere che la vita vada “aggredita” e non “subita”, con un di più che è beffa, irrisione, distruzione dei miti, etc).

Mi accorgo, però, dalle conversazioni con casuali interlocutori, dai commenti ai post, dalla corrispondenza privata, dalla stessa lettura della home di FB, che, prevalente è, nell’ambiente neofascista passione, interesse, e ideale condivisione (anche in certe “pose”) per cose e vicende della RSI.
Questo aveva fino a qualche anno fa una spiegazione nell’ “esistenza in vita” di reduci che alimentavano il ricordo, ma ora rischia di essere solo un inspiegabile e improduttivo attaccamento a quella “nobiltà della sconfitta” (era, mi pare, il titolo di un libretto di Veneziani di anni fa) che accomuna perdenti “degni” di ogni tempo e latitudine.
Prova ne è che non è nemmeno la storia “in positivo” della RSI, per esempio nelle sue variegate e diverse realtà locali, o nelle dispute culturali e ideologiche – che pure vi furono – ad interessare veramente, ma piuttosto il “dopo”, e, soprattutto, il bagno di sangue post 25 aprile.
L’ingenuo scopo è dimostrare che il mondo neofascista non è tanto l’erede di quei “neri di tutta Italia” di cui parlava Bocca portatori di morte e distruzioni, quanto una comunità di vinti e vilipesi, che ha pagato un prezzo altissimo e che, in riconoscimento dei suoi morti – questa è la parte sottintesa del discorso – va (ri)accolta nella comunità nazionale (ed è questo il fine – o almeno uno dei fini – anche del film, se ho ben capito).
Succede allora che i giovanotti in camicia nera allegri e scanzonati che intonando canzoni allegre e scanzonate andavano anch’essi, fra il 1919 e il 1922, a ricevere e dare morte, ma si conquistavano da soli un posto nella comunità nazionale, possono sembrare, pure a quelli che in qualche modo se ne dicono eredi, folcloristici rappresentanti di una storia che fu, insieme ai mille garibaldini, a Enrico Toti e a Cesare Battisti, Fabio Filzi e Damiano Chiesa.
E – una breve digressione – anche a questo proposito: si parla molto (e a ragione, per carità, non è questo il punto) di foibe e infoibati, ma nessuno si sogna di citare il fenomeno dell’irredentismo che, con centinaia di morti, precedette il conflitto mondiale, e manifestò l’italianità di terre che “nostre” erano e sul quale si può basare un discorso anche di rivendicazione, più e meglio che non su migliaia di vittime incolpevoli ma spesso anche inconsapevoli.
È pure questa una manifestazione di quel “buonismo” di cui parla Merlino, una ricerca di consenso cui corrisponde la rinuncia a “parole di orgoglio, di sfida, di ideali e di onore” riferite ad un fascismo vincitore e non piegato dall’altrui potenza militare.
“Abbiamo giocato, ho perso, esigo la morte”, così La Rochelle e mi piace interpretare le sue parole come un invito a parlare poco – custodendone piuttosto la memoria nella sacralità dei nostri cuori – di morti, vittime innocenti, violenze e sangue, quasi a farne “merce di scambio”, soprattutto ora che un Pansa (o un Telese) qualunque ne hanno fatto mercimonio.
Non la voglio fare troppo lunga: in sintesi ritengo che il solo riferimento alla “tragicità” (e non parlo dei non infrequenti compiacimenti cimiteriali) dell’esperienza della RSI corra il rischio di essere un mito di riferimento sbagliato e “incapacitante” (per usare un’altra espressione ben nota nell’ambiente); è piuttosto allo squadrismo che bisogna guardare come “stile di vita” prima ancora che fucina di idee e mutamento politico.
Sono andato forse un po’ troppo a ritroso, partendo da Acca Larentia, ma le righe vanno lette come un invito a ritrovare, partendo dalla cronaca e approdando alla tradizione, la volontà di “pensare, mettersi in cammino guardare oltre ed oltre ancora… aria di rivoluzione” (alla fine pagherò i “diritti di citazione” a Merlino), nel solco di una storia che ci narra di un fascismo giovane, vitalista, ottimista e proteso alla vittoria, anche con allegria:
“Quei giovanotti erano allegri. Cosa più bella e sorprendente: marciavano per quattro ed erano allegri. È molto difficile marciare per quattro ed essere allegri. Quando un uomo entra a far parte di una squadra, e deve accompagnare il passo con quello del vicino, e tenere l’allineamento, l’allegria se ne va… Benedetta allegria dei fascisti, poiché allegria vuol dire sanità fisica e morale, e la loro marcia per quattro vuol dire disciplina… Questi volti un po’ accesi, quelle bocche che cantavano come Dio vuole, erano un piacere; cominciavano come un bicchiere di quello buono, la gioia di vivere… ‘Me ne frego, me ne frego, me ne frego di morire’. Solo quando i nervi sono giovani e sani si parla con così goliardica spavalderia di morire”.
(articolo apparso nell’aprile del ’21 su “La Provincia di Padova”)

2 Comments

  • Francesco Manetti 22 Giugno 2014

    Sto per l’appunto rileggendo in questi giorni “La Tradotta”, giornale della III Armata, uscito nel 1918/1919. E mi sembra che ci siano parecchi spunti larvali che avrebbero poi portato a quei “giovanotti in camicia nera allegri e scanzonati” di cui parla Giacinto Reale nel suo interessantissimo pezzo… Potrebbe essere interessante approfondire, non fosse altro per gli immaginifici disegni di Antonio Rubino!

    Francesco Manetti

  • Francesco Manetti 22 Giugno 2014

    Sto per l’appunto rileggendo in questi giorni “La Tradotta”, giornale della III Armata, uscito nel 1918/1919. E mi sembra che ci siano parecchi spunti larvali che avrebbero poi portato a quei “giovanotti in camicia nera allegri e scanzonati” di cui parla Giacinto Reale nel suo interessantissimo pezzo… Potrebbe essere interessante approfondire, non fosse altro per gli immaginifici disegni di Antonio Rubino!

    Francesco Manetti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *