9 Ottobre 2024
Sapienza Arcaica

Neoplatonici e Sabei: un saggio di Nuccio D’Anna – Giovanni Sessa

Uno dei periodi della storia dell’umanità più carichi di fascino è, senza dubbio, l’età del lento tramonto del mondo antico. In quel frangente, si scontrarono opposte visioni ma, al contempo, si assistette al formarsi di nuove compagini religiose, al definirsi di scuole filosofiche segnate da eclettismo e sincretismo. La resistenza della spiritualità pre-cristiana fu pervicace.

Non si concretizzò soltanto nel tentativo di restaurazione imperiale messo in atto da Giuliano Flavio, ma dette luogo ad una rielaborazione originale dell’antica Sapienza. Per avere contezza di quanto accadde sotto il profilo spirituale, è dirimente l’ultima fatica di Nuccio D’Anna che, all’ambito degli studi storico-religiosi si dedica, con persuasività argomentativa, da decenni. Ci riferiamo al volume, I Sabei di Harrān e la Scuola di Atene, edito da Jouvence (per ordini: info@jouvence.it, 02/24411414, pp. 212, euro 20,00). La trattazione prende le mosse dall’Editto giustinianeo del 529, con il quale l’autorità imperiale proibiva l’insegnamento della filosofia e del diritto, chiudendo in tal modo la Scuola di Atene, ultimo baluardo del “paganesimo” in Occidente. Non è casuale che l’Editto proibisse anche le pratiche consustanziali al pensiero ellenico, dall’astrologia al gioco dei dadi (della cui valenza tradizionale ha così ben detto Bachofen). La Sapienza tutelata nella Scuola era: «alimentata da rituali teurgici e da esperienze concretamente “vissute” di tipo estatico illuminativo» (p. 9). I diadochi avevano continuato a tramandarsi la loro carica direttiva, consapevoli che essa era testimonianza della rivelazione divina. I loro corpi, come aveva notato Plotino, rilucevano: in essi era insediata la Luce del sacro. L’Editto imperiale mirava a scardinare i tre livelli del loro insegnamento: metafisico, cosmologico e di scienza tradizionale. Il provvedimento legislativo fu preceduto da una serie di interventi giuridici anti-ellenici, a muovere dal 527. Il cristianesimo era ormai divenuto l’asse portate delle istituzioni politiche e: «si sviluppò un vasto programma di repressione antipagana» (p. 13).

  Nella Scuola di Atene, fino all’ultimo diadoco, Damascio, si era mantenuta la distinzione tra discepoli diretti, ammessi ai Misteri, e semplici uditori. Lo stesso edificio che ospitava la Scuola,   era considerato un “Centro del Mondo”. Plutarco rifondò la Scuola con l’intento di preservare filosofia e rituali dell’antica Accademia. Egli venne considerato: «uno degli ultimi detentori della sapienza veicolata da rituali molto riservati» (p. 21), che comprendevano supporti evocativi atti ad animare le statue degli dei, ritenute simulacri. Damascio fece convenire ad Atene un numero considerevole di filosofi-teurghi, sulla scorta degli insegnamenti di Giamblico. Rappresentazioni grafiche, invocazioni, formule incantatorie si accompagnavano: «a quel vero e proprio veicolo di trasfigurazione costituito dalla musica sacra» (pp. 26-27). Un  ruolo rilevante era attribuito alle vocali dell’alfabeto, in relazione ai segni dei sette pianeti, e alle consonanti, in rapporto allo Zodiaco. Tali pratiche inducevano nel myste l’emersione del silenzio interiore, una sorta di potenza interna che permetteva di portarsi anagogicamente oltre il transeunte.

 D’Anna ricorda, ponendosi in sequela dello storico bizantino Agathias, che dopo l’Editto, sette neoplatonici della Scuola lasciarono Atene. Il sette è qui numero simbolico, rinviante ai Sette Sapienti. Il gruppo giunse presso la corte persiana nel 531, nella convinzione che il Re Khusraw I avrebbe potuto, spiritualmente e politicamente, corrispondere alle loro intenzioni: si resero conto, ben presto, che le loro erano speranze mal riposte. L’autore ripercorre, utilizzando ampia messe di fonti e documenti storici, analizzati con perizia esegetica, le peripezie dei neoplatonici. Questi conoscevano l’aramaico e ciò agevolò i loro contatti. Si fermarono, per un certo lasso di tempo, a Gondēšāhpūr, dove insegnarono in piena libertà. Anche nel periodo islamico la città ebbe fama di centro di studi platonici e divenne uno dei luoghi di diffusione del Nestorianesimo.

 Nel 532 i maestri neoplatonici tornarono in Occidente, in forza del trattato di pace stipulato con i Persiani. I Bizantini si impegnavano a tollerare la loro filosofia-teurgia. Poterono ricostruire piccoli cenacoli a Edessa, a Baalbek e in altre città della Siria: «L’insegnamento delle dottrine “platoniche” poté continuare […] almeno fino al 565» (p. 77) e svolse una significativa influenza su ambienti culturali disparati. Grazie alla permanenza in Siria, i filosofi ellenici inaugurarono positive relazioni con i Nestoriani di Nisibī. Qui fiorì un’attiva scuola teologica, mentre ad Harrān il platonismo conservava una notevole forza pervasiva rispetto ai numerosi culti e credenze diffuse nell’area. I monaci nestoriani, itineranti nel deserto, furono sintesi vivente delle esperienze estatiche nel periodo pre-islamico. Con il trionfo dell’Islam, rappresentanti del nestorianesimo svolsero un ruolo di grande rilievo. Alcuni di loro tradussero in arabo una gran numero di testi greci. Tra loro, Ibn Qurrah che fu, come ricorda D’Anna: «tipico rappresentante di quella “religione astrale” che continuò ad essere vitale ad Harrān […] sotto il manto di una elaborata cosmologia ricca di rappresentazioni “tradizionali”» (p. 86). Altrettanto determinante fu la figura di Paolo il Persiano, metropolita nestoriano di Nisibī. Questi, nell’età di Giustiniano, intrattenne un pubblico dibattito con un manicheo a Costantinopoli. Si trattò, chiosa D’Anna, di una ordalia sacra. I neoplatonici mantennero un rapporto costante con manichei e gnostici, in quanto lo stesso Simplicio: «rimase sempre vicinissimo alle fonti originarie della spiritualità neoplatonica, sperimentata […] nella dimensione […] gnostica» (p. 92).

Nel Dēnkard, apparto erudito del IX secolo, è conservata testimonianza di tale sincretismo spirituale. Alcuni ritengono che diversi plessi dell’opera siano attribuibili a Damascio, in particolare i passi in cui emergono i riferimenti all’aritmosofia. L’autore ricorda che i neoplatonici si stabilirono anche ad Harrān, dopo il 529. Qui vigeva un antichissimo culto astrale. Testimonianze storiche attestano la presenza in città di due cerchie religiose distinte, quella dei “Sabei volgari” e quella degli Hukamā, dei “Saggi”. Questi ultimi avrebbero introdotto ritmi calendariali di origine ellenica, atti a regolare la vita dell’Accademia. Essi recuperarono il sapere teosofico-teurgico: «e riuscirono a plasmare dall’interno l’essenza stessa di alcune antichissime tradizioni harrāniane» (p. 121).

  E’ così che i Sabei di Harrān: «continueranno a custodire […] il medesimo simbolismo che da sempre aveva alimentato le basi esoteriche della cosmologia ellenica» (p. 123). Il neoplatonismo, oltre che summa della classicità si rivela, nella lettura di D’Anna, una teosofia realizzativa.

Giovanni Sess

 

 

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