Il binomio è contraddittorio: è di noi tutti tanto anelare alla pace, quanto essere intolleranti. È ragion sufficiente per sospettare che la pace permanente sia una incongrua aspirazione, oppure per creare processi autoeducativi e scoprire come abortire gli embrioni di ogni conflitto?
Processi umanamente possibili o cacciati a forza dalla presuntuosa ragione entro i limitati confini delle nostre identità? Dunque buoni per prendere coscienza che la concezione meccanicistica dell’uomo non può essere estesa a ogni sua circostanza?
Se realizzeremo la rivoluzione individuale, per vivere le relazioni nel rispetto, ci avvieremo a esprimere pace senza bisogno di appellarci al diritto razionale? Avremo a quel punto realizzato il progetto del Cristo e dell’anarchia?
Per intenzioni e sospetti di questa portata, incertezze di questo peso e lotte di questo valore, anche il nichilismo offre la sua spinta evolutiva.
Premessa
Sente la potenza trascendente nichilista chi vede il permanente affanno degli uomini protrarsi fino alla sopraffazione dell’altro pur di affermare sé; chi vede che anche dopo quelle affermazioni la serenità ancora non sopraggiunge; chi sente che la livella nichilista è una modalità, un trampolino per accedere a dimensioni umane altrimenti lasciate al fango dei giorni.
Un niente per il tutto
Ipotizzando che lo spirito del nichilismo abbia pari diritto di ogni altro, potremmo condividerne il messaggio, l’essenza, il valore utili al nostro equilibrio, al riconoscimento del nostro profondo sé, premessa necessaria per una evoluzione di noi oltre il nostro io, oltre la separazione che questo impone, oltre la storia di conflitto che implica.
Diversamente da quanto ci sussurra con insistenza il luogo comune – qualcosa di adatto a chi non vede -, il nichilismo non è privo di riflessi nobili. Non c’è in esso obbligatoriamente contiguità con l’indifferenza e l’apatia, un prodromo della depressione, l’appiattimento di ciò che ci appare come ente e realtà, che da tutto passa a niente. Né ha a che vedere con l’accidia, arida mortificazione più spirituale che pigrizia materiale, che rimanda ad una inesprimibile richiesta di amore. Serbatoio umanistico mai riempito, nonostante sia il solo carburante per giungere dove tutti vorremmo andare.
Oltre a ciò, la prospettiva nichilista può anche farci presente che l’arbitrio di elevare qualcosa al di sopra di altro preclude allo scaturire della profonda coscienza di sé. Non stanno in questa banale osservazione le Crociate, le Guerre Sante, l’Esportazione della Democrazia, il Diritto, lo Scientismo, il Profitto, l’Egopatia, ovvero quella malattia, quella specie di cecità che ci impedisce di vedere la vita che scorre in noi e ci fa credere sia invece una nostra proprietà?
Una volta consapevoli di noi stessi, non possiamo che riconoscere la permanente arbitrarietà delle nostre affermazioni. In quanto in quella consapevolezza conosciamo anche l’altro e ne riconosciamo i nostri stessi tratti. Nonché le sue culturalmente legittimate stupidaggini egoistiche, del tutto identiche alle nostre.
Consapevoli di noi stessi, della missione che è in noi, dei nostri limiti e poteri, si può convenire che viviamo solo entro il nostro discorso, che non abbiamo altro territorio vitale oltre alla mente nella quale siamo immersi. E che questa non è altro che una nostra creazione, frutto dei sentimenti con i quali interpretiamo il mondo, credendo poi esso sia effettivamente come lo descriviamo. L’io, per sua natura, è un’entità che ci impedisce di riconoscere che ogni realtà è tale a causa della nostra presenza, a causa del nostro punto di attenzione. Un’entità che si nutre della nostra energia, che da creativa diviene replicativa, da geniale a dozzinale.
Dunque osservare la deriva spirituale degli uomini, trascinata dalla corrente della loro inettitudine a riconoscere la reciprocità e la pari dignità o necessarietà di tutto, permette di riconoscere lo scoglio del nichilismo sul quale andrà a urtare il barcone di gran pavesi e apericena.
Un decorso che, se visto alla rovescia, torna utile per riconoscere nel nichilismo un passaggio evolutivo, nella misura in cui è una spinta a riconoscere che tutti gli affanni sono di pari valore spirituale e di pari diritto storico, che farne graduatorie – tutte egoistiche, totalitarie, oligarchiche, corporativistiche o democratiche –può anche portare qualcuno in cima, ma sempre e solo su vette di carta.
Farsi foglia
Secondo il nichilismo, ogni arbitrio è arrogante, inopportuno, privo di sostanza duratura e ragione universale. Dunque, ogni arbitrio necessita ed esprime forza sopraffattrice che, per implicita ontologia, si realizza nel sopprimerne altre. Ogni arbitrio fa l’occhiolino alla meschinità e alla disonestà.
Condotte che sciamano in noi a rotazione, secondo il disegno delle circostanze della vita. Condizioni che mortificano le nostre migliori potenzialità di realizzare vite private, relazionali e sociali via via più idonee alla bellezza.
Nessuno dovrebbe esonerarsi dal mettere in moto la propria evoluzione olistica; tutti noi possiamo riconoscere che se ogni foglia dedicasse a se stessa tutte le energie, prima il ramo e poi l’albero ne soffrirebbero. Tutti dovrebbero, secondo misura personale, farsi foglia.
Ci cattura sempre
Nella nostra ricerca umanistica, qualunque sia l’origine e la fase in cui si trova, c’è sempre con noi, come una scimmia sulla schiena, un compagno di viaggio che si chiama nichilismo. È un tipo acuto, pungente e spietato. Un vero amico. Spesso riesce a sciogliere nel suo cinico acido anche le architetture babeliche più solide e belle. Quelle moralistiche ad esempio. Non ha riguardo per niente e nessuno, ma ci si può fidare: non mente mai. Merita rispetto.
Uno dei suoi trucchi – ma la realtà è maschera, quindi non è un inganno – sta nel portarci a traguardare le cose del mondo da un punto di vista utile alla sua causa evolutiva. È ammaliante. Si distende languido su un apparato sottile, invisibile all’occhio becero, se non quando si chiude, ci prende e ci soffoca. E sa attendere, quindi ci cattura sempre. Senza prendere le distanze dalla cultura egoico-materialista, il suo successo è garantito.
Apparenza
Tuttavia, ci sono momenti in cui sembra di essere riusciti a seminarlo. Accade quando capita di essere nel qui e ora, dentro il presente, non più identificati con le nostre concezioni, ma capaci di uno sguardo fenomenologico sul mondo. Ma anche quando, liberi dal brigantaggio che l’ego compie su noi stessi, inorridiamo dei nostri stessi giudizi sul mondo. In ambo i casi, si tratta di contesti nei quali non possiamo più dire “io”.
Senza “io”, ci si trova in una condizione nella quale non si avverte più la separazione delle cose, semmai la loro contiguità e necessarietà, la loro imprescindibile relazione, la loro natura energetica, la loro e la nostra forza/debolezza, dominio e limite. Uno stato nel quale non si fa arte, la si è; non facciamo niente, siamo tutto.
Un ritorno all’Uno, alla condizione primigenia, astorica, che non è e non può essere permanente. Che non può stare entro la stamberga del razionalismo.
Tutto è accredito e dialettica
Così, senza fretta e senza accorgersene, ci si ritrova a riconoscere che qualunque questione intellettuale, speculativa, analitica e globale non contiene né conduce ad alcuna verità che non sia creata dalla sua stessa dialettica. Ogni questione è ambitale, autopoietica, si crea mentre la si pronuncia e la si pronuncia in modo da poterla creare e alimentare e in modo che sia confacente a noi stessi. Martin Heidegger chiama questo istante “evento” (1). Tira acqua perciò al proprio mulino, sempre ignaro che ogni questione, fuori dall’invisibile e inconsapevole recinto dell’ambito che l’ha generata, non dice più nulla, non ha più ragione d’essere. Scompare così come era stata da noi creata. Ogni male e sopraffazione si avvantaggiano di questa inettitudine.
Quanto più un’esposizione dialettica – qualunque sia l’oggetto – è opportuna all’interlocutore, tanto più gli sembrerà accreditabile, vera, in misura direttamente proporzionale al credito che viene tributato alla fonte. E viceversa. Infatti, quanto più l’esposizione è inadeguata a coniugarsi con la biografia alla quale è destinata, tanto più – fosse anche un oggetto esclusivo, sacro e bello – avrà tutte le probabilità per non creare legame né essere comunicata, riconosciuta, condivisa.
Un solo perno
Non solo. Tutti i nostri argomenti ruoteranno intorno ad un unico perno. Non si pensi tanto al vanesio intento proselitistico delle nostre affermazioni. Piuttosto, al nostro equilibrio. Nessuna cosa sarà da noi sostenuta, se questa spinge il nostro baricentro identitario fuori dalla sua base d’appoggio, sola superficie della nostra sopravvivenza, della nostra identità, della nostra evoluzione.
Anche quanto accogliamo da altri, quanto aggiungiamo alle nostre affermazioni, quanto utilizziamo per aggiornare il nostro riflettere ha in sé il necessario per ruotare intorno a quel medesimo perno. In pratica, possiamo accettare ciò che conforta e rinforza l’equilibrio, ciò che si coordina alle schiere di idee che lo proteggono. Diversamente, rifiutiamo.
Esempio
La democrazia. Dopo averla concepita nella sua sicura e rassicurante purezza, siamo rimasti ancorati ai suoi bei proclami, nonostante le dimostrazioni quotidiane di quanto nei fatti si siano abbruttiti e allontanati dalla propria origine, nonostante siano stati mostruosamente deformati dalla burocrazia, nonostante le stanze dei suoi palazzi siano divenute tutte androni della corruzione, nonostante conti più il denaro del suffragio, più la poltrona che l’interesse comune. La democrazia richiede la fiamma della vocazione che la deriva nichilista ha spento.
Non riusciamo né a ricucire gli strappi fatti alla sua bandiera, né a rinunciarvi. Così, per quanto pare abbia espresso l’ultimo e apparentemente migliore risultato della storia, per quanto sia oggi profondamente e radicalmente criticabile, si stenta a separarsene: vi siamo identificati; le alternative appaiono inaccettabili, tutte annichilirebbero quel perno essenziale a noi stessi.
Così, pur potendo immaginare quanto sarebbe bello vivere in uno stato agile e veloce, non siamo nelle condizioni di realizzarlo, se non uccidendo l’attuale democrazia. Se non si può ancora dire che lo abbiamo voluto, si può però dire che lo stiamo volendo. Quella democrazia che sognavamo e volevamo ardentemente, che avevamo idealizzato a nostra migliore immagine e somiglianza, ora ci appare vestita della sua concreta, rattoppata storicità. Ora sembra accettabile, giusto voler cambiare vestito, rinunciarvi.
La morale che interessa qui è che le cose si muovono, che la forma che meglio esprime il tempo è quella del pendolo. La sola permanenza è l’oscillazione. Il nichilismo ne è una modesta constatazione. La morale è che scoprire i lati oscuri delle nostre fedi, che credevamo cristalline, non è che una rispettabile premessa per riconoscere che ogni oggetto della nostra attenzione è potenzialmente soggetto alla medesima sorte. È lì che la ragione anarchica e quella cristica trovano il terreno adatto al loro basamento. Non più accumulo e sopraffazione, ma assunzione di responsabilità di tutto, amore. Non servirà nessuna assurda idea democratica fondata sull’ingiustizia della maggioranza e sulla superstizione del razionalismo.
Come in alto, così in basso
Dunque, la qualità spirituale del nichilismo non è semplicisticamente negativa e sconveniente, come un becero luogo comune vorrebbe, ma semmai, e prioritariamente, la sola in grado di farci presente quanto non potremmo che perpetuare la storia mentre urliamo, tutti, di volerla cambiare, migliorare, trasformare, magari affidandoci alla tecnologia. Magari chiedendo che il progresso stia nel proseguire così, riempiendo i mari di plastica, sottraendo dignità agli uomini, puntando tutto sulla digitalizzazione e spandendo letame scientista come fosse acqua santa.
Nichilismo perciò come una sorta di El Dorado. Vetta accessibile a chi non si perde lungo la parete, attratto ora da una, ora dall’altra tra le molte linee che non portano in cima.
V per Verità?
Ecco. O è una questione dialettica, o se non lo è, se è proprio di Verità che si sta credendo di parlare, come fa ad essere il nichilismo una questione più meritevole delle sue antagoniste? La risposta è del genere che appare semplice, contenuta nella stessa domanda.
È proprio dalla consapevolezza di quella insolubile contesa, di quella velleitaria e narcisistica graduatoria delle cose del mondo che la prospettiva del nichilismo si genera in noi e prende il valore che spetta ad ogni cartina tornasole.
Parlare di antagonismo di idee, scelte e comportamenti, riconoscerne la presenza anche in noi, nei nostri più amorevoli ed intenzionalmente univoci intendimenti, è uno dei modi per accorgerci che anche se credevamo di viaggiare soli, il nichilismo era lì, zitto e fermo ad aspettarci. Pronto a dirci che non possiamo professare di non sopraffare e contemporaneamente non contraddirci nei fatti. Cadremmo in un ahrimanico tentativo di salvezza, sorretti solo dalla dimensione razionale, disumana se resa assoluta e universale. Lottare per il giusto non è arbitrio diverso da qualunque altro, il più odioso incluso. Pronto a dirci che la storia si perpetua su questa inesausta ruota da criceto, sola permanente Verità dei nostri giorni.
Basterà l’autoironia o sarà necessario de-intellettualizzare la cultura per essere felici del nostro nuovo compagno di viaggio?
“Ammettere la non verità come condizione della vita: ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di valore” (2).
Note
- Martin Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), Milano, Adelphi, 2007, pp. 55-56.
- Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1984, p. 10.
Spunti bibliografici
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Heidegger Martin, Contributi alla filosofia (Dall’evento), Milano, Adelphi, 2007.
Maturana Humberto, Varela Francisco, Autopoiesi e cognizione, Venezia, Marsilio, 2012.
Nietzsche Friedrich, Al di là del bene e del male, Milano, Adelphi, 1984.
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