28 Giugno 2024
Dialettica Discorso Filosofia Nietzsche

Nietzsche e il Discorso

Di Flores Tovo

Il pensiero aurorale inizia con la nascita della filosofia. Tale nascita dà origine al pensiero profondo, al pensiero essenziale. Tale pensiero si rivelò presso  i filosofi degli I:ching, dei Vedanta e dei primi greci (Anassimandro, Eraclito) attraverso la dialettica, intesa come un Discorso o Legge universale, concepita come lotta ed armonia fra contrari. Il significato della parola “dialettica” è oggi inteso come arte del saper discutere, confondendolo con l’arte dell’oratoria e del dibattito. In realtà il significato vero e originario di questa parola è quello di un Discorso, di un Lògos che concepisce il Tutto ciò che è e non è come il “teatro” di una lotta armonica fra contrari. Tale Lògos funge da principio regolatore della molteplicità sia apparente che nascosta, che alla mente dei più sembra caotica ed insensata, ma che invece si dispiega e si riassume in una logica armonica, cioè in una connessione visibile ed invisibile, che unisce gli opposti in una unità dinamica.

In questo contesto, ultimamente, c’è stata una notevole riscoperta delle opere giovanili di Nietzsche, commentate da diversi punti di vista. E’ sorto così il problema se egli può essere considerato un dialettico nel senso originario del Discorso.                                   

 Certamente si può constatare che nelle sue opere giovanili, dalla “Nascita della tragedia ” alla “Filosofia nell’età tragica dei Greci”,  il richiamo alla dialettica dei contrari di Eraclito è esplicito. E’ assai probabile che questo eraclitismo di Nietzsche sia nato con gli studi filologici sul mondo greco antico e con l’influenza che ebbero su di lui la poesia di Hoelderlin ( lo scopritore moderno di Eraclito) e gli studi storici di Jakob Burckhart, che egli conobbe a Basilea. Ma cosa scrisse Nietzsche a proposito della dottrina dei contrari? Egli nota che Eraclito giunse allo scoprimento della dottrina dei contrari “… osservando il caratteristico andamento di ogni divenire e trapassare, inteso da lui sotto la forma della polarità, come lo scindersi di una forza in due attività qualitativamente diverse, antitetiche e tendenti al ricongiungimento. Una qualità che entra continuamente in discordia con se stessa e si divarica nei suoi opposti, e di continuo questi opposti cospirano nuovamente l’uno verso l’altro…” (1).

Nietzsche critica di riflesso tutta la metafisica razionalistica classica che negava, in base al proprio fondamento logico costituito dal principio di non-contraddizione, la presenza degli opposti come lògos ordinatore della razionalità e della realtà.
Egli, invece, ritiene, al modo di Eraclito, che tutta la realtà in divenire è pervasa immanentemente nella propria struttura intima dalla lotta fra i contrari.
Così infatti scriverà più tardi in “Ecce homo”:
Il sì alla vita anche nei suoi problemi più oscuri ed avversi, la volontà di vita, che nell’immolare i suoi esemplari più alti sente la gioia della propria inesauribilità – questo io lo chiamo dionisiaco, questo ho inteso come ponte  verso la poesia del poeta tragico. Non per svincolarsi dal terrore e dalla pietà, non per purificarsi da una passione pericolosa per mezzo di una violenta scarica – questo è stato l’equivoco di Aristotele- : bensì perché, al di là del terrore e pietà, quella gioia che comprende in sé la gioia dell’annientare… In questo senso io ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico – e cioè l’estrema antitesi e l’antipodo di un filosofo pessimista. Prima di me non esisteva questa trasposizione dell’elemento dionisiaco in pathos filosofico: mancava la saggezza tragica – ne ho cercato invano un qualche segno persino nei grandi Greci della filosofia, quelli di due secoli prima di Socrate.  Mi è rimasto un dubbio per Eraclito, nella vicinanza del quale sento più calore e mi sento di miglior umore che ovunque altrove. L’affermazione del flusso e dell’annientare, che è il carattere decisivo in una filosofia dionisiaca, il sì al contrasto e alla guerra, il divenire, con rifiuto radicale persino del concetto di “essere” – in questo io debbo riconoscere quanto di più affine a me sotto ogni aspetto sia stato pensato finora. La dottrina dell’ “eterno ritorno”, cioè della circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe già stata insegnata da Eraclito. Per lo meno se ne trovano le tracce nella Stoa, che ha ereditato quasi tutte le concezioni fondamentali di Eraclito” (2).
Il brano di quest’opera, scritta alcuni mesi prima della follia in cui Nietzsche cadde, rivela una volta di più  quelli che sono stati i motivi conduttori di tutte le opere precedenti, a partire dalla “Nascita della tragedia”: il riaffiorare di bisogni dionisiaci (sesso, danza, musica, culto per la natura vivente, ecc…) repressi dall’etica platonico-cristiana, l’ esaltazione del divenire (amor fati), il sì al conflitto e alla guerra e l’eterno ritorno dell’uguale (tema, quest’ultimo, di cui ci si occuperà solo parzialmente in questo scritto).
Nietzsche pensa all’essere come tutto ciò che è presente nel suo divenire temporale, e quindi come tutto ciò che è soggetto alla finitudine in tutti i suoi aspetti.
Per cui non c’è quella commessura fra realtà e razionalità, ma l’essere si presenta nelle sue manifestazioni come sentimento, forza, istinto e passionalità. Nell’essere vi è un’essenza impenetrabile
da parte della ragione (il dionisiaco), che non può essere colta dalla razionalità comune, sia essa scientifica o filosofica. Un lato oscuro che egli considera come il fondamento dello stesso apparire degli enti, come peraltro aveva anticipato Schelling nelle sue “Ricerche sull’essenza della libertà umana”, che a sua volta seguiva le orme di Meister Eckart e Jacob Boehme. Enti che non sono nel loro apparire come fenomeni di una parvenza illusoria come era teorizzata da Parmenide o come un prodotto di un soggettivo percepire come affermava Berkeley con  la convinzione del suo “esse est percipi”, ma esistenza reale come credevano i Greci, in particolare i preplatonici. Quindi i fenomeni sono.
L’essere è allora il fluire di tutte le esperienze degli enti nel loro vivere concreto, tragico e gaio insieme, e non astrattezza di principi logici : “…il pensiero è finzione ” dirà Nietzsche.
Insomma, il pensare dialettico è presente nel pensiero nicciano, ma esso è binarioe non monistico o triadico. Quindi esso non sarà mai eletto a sistema unitario come in Hegel, in quanto non obbedisce ad alcuna regola determinata verso l’attuazione di un fine che non sia espressione di una volontà di potenza. Gli eventi accadono retti da un “pòlemos” (conflitto) che sempre si ripresenta con protagonisti sempre nuovi e sempre uguali. 
Nietzsche accetta il destino, lo ama in tutte le sue convulsioni e ramificazioni, ma definirlo come uno “scriba del caos” (3) ci sembra, se non erroneo, certamente problematico, poiché la contraddittorietà del reale, per quanto aperta e mai risolutiva, è governata pur sempre da un  ordine” invisibile ai più, che nelle opere giovanili è dato dalla opposizione apollineo-dionisiaco, mentre nelle opere tarde viene concepita come volontà di potenza (l’apollineo principium indivituadionis) ed eterno ritorno dell’uguale (il dionisiaco flusso vitale). Vi è quindi in Nietzsche la convinzione che ci sia sempre, all’interno della finitudine degli enti, una opposizione perenne fra contrari che nascostamente, come diceva Eraclito, governa lo scenario apparentemente caotico della vita e della morte. Semmai c’è da pensare su come egli possa essere considerato un dialettico del divenire inteso nella sua immanenza totalizzante, poiché, come si sa, egli esclude qualsiasi “realtà” trascendente. Evola comprenderà per primo che Nietzsche palesava una evidente carenza intuitiva, espressa soprattutto nella “Nascita della tragedia”, per il fatto che non aveva visto la complementarietà combaciante dei due contrari rappresentati da Apollo e Dionisio. Egli scriverà a tal proposito : “Una delle prove della sua incomprensione per le tradizioni antiche è la sua interpretazione dei simboli di Apollo e Dioniso partendo da una filosofia moderna, come quella di Schopenhauer. “Dionisio” è stato riferito ad una specie di immanenza divinificata, ad un affermazione ebbra e frenetica delle vita nei suoi stessi aspetti più irrazionali e tragici. Per contro, di Apollo Nietzsche ha fatto il simbolo di una contemplazione del mondo delle forme pure intesa a liberare dalla sensazione e dalle tensione di quel sottofondo irrazionale e drammatico dell’esistenza, quasi fosse una fuga. Tutto ciò è privo di fondamento”. Inoltre, aggiunge Evola, “… la via dionisiaca fu una via misterica… un vivere portato ad una particolare intensità il quale sbocca, si capovolge e si libera in un più-che-vita, grazie ad una rottura ontologica di livello. Volendo, questo sbocco, che equivale alla realizzazione, al ravvivamento o al risveglio della trascendenza in sé, possiamo proprio riferirlo al vero contenuto del simbolo apollineo. Da qui, l’assurdità della antitesi, stabilita da Nietzsche, fra “Apollo” e “Dionisio “ (4).
In effetti una semplice opposizione di contrari che rimangono nettamente separati fra loro si esaurisce in un dualismo superficiale ed inferiore, in quanto i contrari, anche se posti sullo stesso piano ontologico, diventano irriducibili l’uno all’altro, come ad esempio i contrari etico-teologici fra Bene e Male propri dei Manichei e dei loro seguaci Pauliciani, Bogomili o Catari  o dai Calvinisti di cui gli Americani sono l’esempio vivente. Infatti una tale contrapposizione, in costoro, non implica una unità superiore, cioè una “coincidentia oppositorum” che è la risoluzione armonica e perciò davvero sintetica fra i contrari. Se viene a mancare, scriverà Guènon (5), una vera integrazione unitaria fra contrari, ci sarebbe ad aeternum una situazione conflittuale che implicherebbe uno squilibrio totale che ucciderebbe qualsiasi forma di vita. Il complementarismo fra contrari comporterebbe pur sempre dualità ma che sarebbe contenuta in una unità superiore che garantirebbe l’equilibrio fra i due termini.         
Già Anassimandro con l’intuizione intellettuale dell’Infinito come Uno contenente i contrari, ed Eraclito stesso con il frammento n. 10, quello della syllàpsis (…da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose) con in aggiunta il 41 (Esiste una sola cosa saggia: conoscere la ragione, la quale tutto governa attraverso tutto) ed il 50 (Prestando ascolto non a me, ma alla ragione, è saggio convenire che tutte le cose sono uno), ed altri grandi dialettici quali Cusano, Bruno, e lo Schelling della filosofia della libertà avevano compreso il senso profondo della coincidentia oppositorum. E di questa si rendono assertori, sia pure in modo diverso dagli altri e fra loro Fichte ed Hegel.
Il filosofo E. Fink, in suo famoso libro su Nietzsche, affermò che l’unità degli opposti in questi è “…sì nominata, ma non concepita in una comprensione intellettualmente compiuta dell’essere (6).
In effetti Nietzsche intese la polarità fra Apollo e Dionisio come gioco (il bimbo che gioca coi dadi, fr. 52 di Eraclito), un gioco che caratterizza l’innocenza del divenire. L’essere è allora per lui il gioco stesso che non si risolve mai in una totalità, ma che sempre si ripresenta irredimibile e tragico nella perennità finita del divenire.
Per lui l’essere è il divenire stesso, è la vita finita ed empirica, è gioco che rende alcuni dei, altri schiavi oppure uomini o superuomini.
Dionisio e Apollo sono i due contrari che si fronteggiano: il primo è, nella “Nascita della tragedia”, l’amorfo flusso della vita, la volontà di vivere schopenhaueriana, il secondo è ilprincipium individuationis.  Fink su questo punto è lapidario:
“Così egli si distingue da Schopenhauer anche nel fatto che non concepisce il fenomeno come una pura creazione dell’intelletto umano, ma come una forma apollinea posta e prodotta dallo stesso principio cosmico dionisiaco, forma che è sì apparenza, ma che tuttavia non è un nulla: così anche il tempo ha per Nietzsche un più serio significato: esso non sussiste soltanto per l’intelletto, ma è il modo in cui il principio governa: il gioco di Dionisio è il puro divenire. Poiché il tempo esiste nel principio stesso del mondo, può avere un grande significato nel regno degli Enti apparenti” (7).
Dionisio, dinamicamente, si antepone ad Apollo: esso è l’essere stesso, il divenire temporale entro cui Apollo si oggettiva cercando di ordinare il caos originario dal quale proviene. Ai tempi dei grandi Fisici (i preplatonici) il rapporto fra queste due Divinità, che rappresentavano l’essenza spirituale e vitale dei Greci, era, per così dire, felice . In mondo apparentemente ordinato dalla compostezza e dall’ordine sociale politico, etico ed estetico (il cosiddetto classicismo) si celebravano in taluni periodi dell’anno le terribili e potenti esplosioni orgiastiche che culminavano nello sfogo delle pulsioni più profonde della psiche umana. La tracotanza vitalistica (la hybris) equilibrava quindi i ritmi dettati dall’ordine razionale apollineo.
Sennonché Socrate prima (il greco fallito per eccellenza secondo Nietzsche) e poi Platone e poi ancora Il Cristianesimo innalzando la ragione umana al massimo grado, e quindi innalzando Apollo, di fatto reprimevano e rimuovevano il dionisiaco rendendo così gli uomini malati nel corpo e nella mente.
E tutta l’opera nicciana condannerà questo attentato alla salute psico-fisica umana arrivando persino ad odiare mortalmente il Cristianesimo, contro il quale scriverà tutte le sue opere ad indirizzo etico (invero quasi tutte).
In realtà, anche se ammettiamo la realtà degli aspetti antivitalistici del Cristianesimo, quali la sessuofobia, la compassione, l’esaltazione degli umili ecc., tant’è che esso arrivò a concepire Dionisio come il Diavolo (la figura caprina è la stessa), tuttavia è da ritenersi che nel Nietzsche giovane, come si diceva, ci sia un grande deficienza intuitiva che consiste nel non aver compreso il collegamento omogeneo fra la sfera dionisiaco-apollinea, misterico-mantica e la sfera dialettica. G. Colli è estremamente chiaro e decisivo nell’individuare tale inadeguatezza sinottica del primo Nietzsche.
“Apollo,” scrive Colli “nella sua significazione avvolgente, come simbolo di esaltazione conoscitiva, come parvenza che allude a qualcosa di nascosto, non solo si allarga in Dionisio, o almeno è affine a lui, è in comunicazione con Dionisio stesso inteso come effusione interiore del sentimento, straripante e collettiva, come immediatezza e animalità estranee alla parola, ma è il dio della sapienza, allo stesso modo che lo è dell’arte, è il protettore della comunità pitagorica: non c’è antitesi qui tra arte e conoscenza, come vorrebbe Nietzsche, e Dionisio non è un dio concorrente della sapienza, poiché quest’ultima è legata alla parola, strumento di Apollo. Costui è il dio del responso, della parola ambigua, della divinazione, della conoscenza del futuro, e indirizza tutto ciò con imperiosa ostilità, con fomentazione agonistica. L’istigazione a interpretare, l’ostilità della parola come stimolo alla lotta, la formulazione antitetica dell’enigma: ecco gli elementi che vivranno nella dialettica. Il carattere di Apollo riapparirà nella spietata volontà di vittoria di chi discute, e la sua violenza si tradurrà nel legame di necessità che stringe l’argomentare della ragione”  (8).
Apollo quindi cela, al di là della compostezza razionale, violenza, volontà di affermazione, e una natura dialettica che ne rivela la concordanza e la complementarietà con Dionisio. Eraclito scriveva nel frammento 48 : “ Nome dell’arco significa vita; ma la sua opera è morte”. Nella lingua greca la parola arco si scrive bìose così la parola vita. L’arco è lo strumento di Apollo, che quindi è anche un uccisore.
E lo stesso Dionisio, dio del vino, dell’eros e della danza sfrenati, è anche il dio della sapienza, poiché l’ebbrezza che il vino dà, vince sull’opacità del quotidiano, preparando così il momento esaltante per il conoscere umano che è dato dall’intuizione. Del resto, da sempre, la creatività del genio ha abbisognato dell’aiuto, diciamo così, alcoolico. Si ritiene altresì che l’albero della conoscenza del bene e del male, che la Bibbia non specifica, sia in realtà una vigna, o comunque un albero, i cui frutti, una volta fermentati, donino l’ebbrezza della conoscenza.
Le opere giovanili di Nietzsche presentano allora la opposizione Dionisio-Apollo come opposizione dualistica, tutta all’interno di una finitudine che non trova mai risoluzione in una unità fra contrari che la trascendono.
Nelle opere della maturità tale opposizione si ripresenta sotto altre spoglie. Apollo, il principio di individuazione, diventa la volontà di potenza del superuomo, mentre Dionisio viene concepito come l’eterno ritorno dell’uguale. Con questi due pensieri fondamentali, che Nietzsche elaborò soprattutto in opere quali “La gaia sci
enza”, “Così parlò Zarathustra”
 e nei frammenti postumi raccolti dalla sorella e da Peter Gast con il titolo di “La volontà di potenza”, egli approfondì radicalmente in senso cosmologico ed ontologico il dualismo pensato in gioventù, che era un dualismo espresso in termini estetici e più genericamente culturali, sulla scorta del pensiero del suo grande maestro Burckhart. Cosicché, soprattutto ne “La volontà di potenza”, egli cercherà di superare la netta antinomia fra apollineo e dionisiaco, comprendendo i due contrari in una unità superiore. Lo stesso E. Fink osservò questo sforzo intellettuale di Nietzsche, quando sottolineò con un finalmente la più profonda penetrazione dell’antico dualismo:
“Volontà di potenza ed eterno ritorno in rapporto fra loro come l’Apollineo e il Dionisiaco, o, piuttosto, sono il dualismo, finalmente penetrato da Nietzsche, della sua antica metafisica dell’artista”  (9).
La volontà di potenza viene identificata con la vita stessa, intesa come forza espansiva propria di tutti gli enti, sempre spinta all’autosuperamento. In altre parole la volontà di potenza si manifesta come legge di natura, come morale, come politica e come arte e trova la sua più alta espressione dinamica nel superuomo, che non è ueber  (super o oltre) solo e perché è oltre l’uomo del passato, ma soprattutto perché la sua essenza consiste nel continuo oltrepassamento di sé. La vita è quindi autopotenziamento, autocreazione, una libera produzione di sé che va oltre qualsiasi piano prestabilito.
Essa, poi, trova il suo culmine o massimo compimento nell’accettazione completa dell’eterno ritorno dell’uguale, quando cioè il superuomo si libera del peso del passato e “redime” il tempo.
Proprio in quanto principio di individuazione la volontà di potenza ripropone il mito di Apollo, del dio che vuole la Forma, la distinzione, la disciplina forte che forgia, crea e differenzia. Perciò Nietzsche, nella quarta parte de “La volontà di potenza”, comprende che l’apollineo è strettamente connesso con il dionisiaco, poiché esso può celebrare se stesso solo nell’eterno ritorno. Il dualismo viene superato attraverso l’unità fra i contrari. La volontà di potenza (l’apollineo), che è l’essenza stessa dell’ente, viene concepita qui come una dionisiaca volontà della volontà che attua se stessa nella assolutezza dell’istante dell’eterno ritorno (il dionisiaco). 
La supremazia di Dionisio è qui evidente. Esso è l’Essere vivente che comprende insieme volontà di potenza ed eterno ritorno, ma senza però estinguere il loro contrasto. La volontà di potenza, infatti, vuole la Forma, mentre l’eterno ritorno la inghiotte. Il distinto si dissolve nell’indistinto. Il superuomo è un Giano bifronte.
Dionisio è l’unità della volontà di potenza come tendenza apollinea e l’eterno ritorno come profondità dionisiaca del tempo in tutte le cose finite”. (10)
La “profondità dionisiaca” del tempo non è però più concepita come accettazione del flusso perenne delle cose. Il Nietzsche della maturità vuole redimere lo stesso divenire dal generico “…e così via”. Il divenire viene mantenuto come divenire, ma in esso viene immessa la stabilità, che è appunto l’eterno ritorno dell’uguale. L’ente, raffigurato dal pastorello nel capitolo del “Convalescente”  dello “Zarathustra”, può determinare, staccando con un morso la testa del serpente (simbolo dell’eterno ritorno), il carattere del divenire, ed essere perciò libero.
Detto questo, si possono, indipendentemente dalla straordinaria potenza del suo pensiero, notare da un punto di vista strettamente logico-filosofico delle difficoltà insuperabili all’interno del sua visione.
Sorge infatti la domanda di come è possibile che un eterno temporale che sempre ritorna e che essendo governatore degli enti è di per sé finito, anche se si ripete all’indefinito, possa sussistere in sé, se tutto è contingente.
Eppoi come può l’attimo, essendo temporale, essere anche assoluto, visto che ogni assolutezza trascendente viene esclusa?
Queste domande non possono trovare soluzione all’interno del pensiero nicciano, né è l’obiettivo di questo lavoro approfondire tali tematiche. Si può solo fare qualche aggiunta a quanto detto.
L’eterno ritorno dell’uguale, infatti, non è una verità che aderisce alla realtà del mondo, perché essendo il mondo soggetto al divenire non sarebbe possibile cogliere un attimo eterno, perché il tempo è sì indefinito, nel senso che non finisce mai, ma che non è il vero infinito, perché il vero infinito non può essere determinato da alcunché, poiché altrimenti sarebbe una parte, e perciò finito. Il superuomo che decide di vivere l’eterno ritorno dell’uguale deve viverlo “come se” fosse vero, non è importante dimostrarne la veridicità : in fondo questo non è il suo pensiero più abissale ?
Si può inoltre rilevare che se tutto è finito e contingente, anche se suscettibile di estensione indefinita, ciò significa che esso è rigorosamente nullo rispetto all’Infinito: nessuna somma di finiti dà l’Infinito e una “eternità” temporale è sempre relativa agli enti, e perciò non può essere la vera eternità, in quanto questa è astrattamente connessa all’Infinito che essendo indeterminato è senza tempo (11).
Nietzsche non ha saputo o voluto rispondere a queste domande poiché era tutto impegnato nell’opera di distruggere ogni certezza metafisica e teologica.
La connotazione della sua meditazione sta tutta qui: ciò che è stato vero per millenni era falso e nessun’altra verità assoluta può essere costruita, se non come prospettiva e come imposizione
di una volontà di potenza. Ma il vero in quanto tale non può più sussistere. Il suo nichilismo è e vuole essere perfetto.   
In questo lavoro sul filosofo di Roecken, si è voluto soprattutto esaminare gli aspetti dialettici del suo pensare, e come conclusione possiamo rilevare che egli, pur aderendo alla visione eraclitea della vita, non riesce ad afferrare il significato più profondo della dialettica, sebbene nelle opere della maturità egli comprenda la strettissima correlazione fra i contrari, superando così il superficiale dualismo proposto nelle sue opere giovanili. Egli non riesce a pervenire compiutamente al concetto essenziale della dialettica che è la “coincidentia oppositorum”. Solo questa concezione è la vera, originaria intuizione intellettuale della dialettica rivelativa: ma essa implica il concetto fondamentale di Trascendenza, che è ciò che contiene gli opposti, e che è al di sopra degli opposti stessi, i quali, fra l’altro, nelle loro determinazioni più generali di essere e non-essere rimangono fissati al finito, cioè alla manifestazione degli enti e alla loro non-manifestazione. L’intuizione intellettuale dell’Infinito è l’origine di ogni nostro pensiero e di ogni Tradizione.
Infine, questa incomprensione del carattere monistico e triadico della vera dialettica impedisce di cogliere gli aspetti sistemateci presenti nelle epoche storiche. L’essere, si epocizza e si consolida nel divenire storico rivelandosi con linguaggi e centri di riferimento specifici. Per C. Schmitt tali concetti indicano il centro coordinatore della vita spirituale di un’epoca. Per esempio il sec. XVI era l’epoca della massima espressione teologica, mentre la nostra epoca è caratterizzata dall’economia e dalla tecnica. Il capitalismo che rappresenta tale connubio nella sua forma assoluta (il nemico ancora non si palesa) può essere combattuto solo attraverso una profonda riflessione che ne colga l’intero. La logica dialettica è perciò lo strumento più efficace per analizzare le contraddizioni che comunque lo minano.

NOTE

  1. F.NIETZSCHE, La filosofia nell’età tragica dei greci, ed. Newton, Roma p.237.
  2. F.NIETZSCHE, Ecce homo, versione di R. Calasso, ed. Mondatori, Milano 1977, pp.50-51. 
  3. F.MASINI, Lo scriba del caos, ed. Il Mulino, Bologna 1983. 
  4. J.EVOLA, Cavalcare le tigre, ed. Vanni Scheiwiller, Milano 1971 pp.66-67 
  5. R.GUENON, Il simbolismo della croce, ed. Luni Editrice, Milano 2003, pp.53-63.
  6. E.FINK, Lafilosofia di Nietzsche, ed. Mondadori, Milano 1977, p.34.
  7. IDEM, p.39.
  8. G.COLLI, Dopo Nietzsche, ed. Adelphi, Milano 1974, pp.46-47. 
  9. E.FINK, op.cit., p.186-187.
  10. IDEM, p.190. 
  11. R.GUENON, op. cit., Luni editrice, Milano, pp.109-111.


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BIBLIOGRAFIA
Testi usati e consultati.
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Tovo Flores
e-mail: fl.tovo@gmail.com

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