“Il pessimismo moderno è un’espressione dell’inutilità del mondo moderno, non già del mondo e dell’esistenza.” – Volontà di Potenza
Se si vuole in qualche modo cercare di comprendere il Labirinto di nome F. Nietzsche bisogna anzitutto partire da una corretta impostazione filologica. Com’è noto le interpretazioni sulla sua persona e sul suo pensiero sono diversissime e riflettono filosofie e visioni del mondo finanche antitetiche. Nietzsche, innanzitutto, non può essere concepito come un filosofo qualsiasi, un semplice teorico o un pensatore, un “intellettuale” nel senso moderno e borghese del termine. Quella che potremmo indicare come la base del suo pensiero è la radicale apertura a nuovi orizzonti, il rigetto per il sicuro e per il rassicurante, per la “morale del gregge”. Questo è l’istinto aristocratico assolutamente innato alla persona di Nietzsche che lo ha portato a sviluppare tutto il suo pensiero. Non a caso Nietzsche usa spesso l’immagine di un veliero che prende il largo verso sempre nuovi orizzonti, come metafora del filosofo-cercatore mai pago degli orizzonti di senso esplorati o delle convinzioni in cui si è imbattuto. In un bellissimo passo dell’Anticristo Nietzsche indica la scepsi come fondamento dell’indole aristocratica e riconosce nelle “convinzioni” nient’altro che delle prigioni, dei limiti, tutt’al più da utilizzare come trampolino di lancio verso nuovi “sensi” e nuovi orizzonti, tuttavia mai definitivi e ultimi[1]. Ciononostante Nietzsche non è un relativista nel senso odierno del termine. La Verità è sempre criticata come qualcosa di inarrivabile per il pensiero e per lo spirito umano relativo che, per forza di cose, non può che “interpretare” la realtà secondo i propri schemi e modelli. In Nietzsche la Verità, più che negata, come accade nel relativismo nichilista post-moderno, che non distrugge per scorgere il nuovo, ma semplicemente per sguazzare nelle macerie, è ignorata in quanto il conoscere parte sempre da una realtà soggettiva, ovvero interpretativa. È dunque fondamentalmente una questione non tanto di “Verità in sé” quanto di Weltanschauung, di visione del mondo. È esattamente a partire da queste intuizioni che Nietzsche, a partire da Umano troppo umano, abbraccerà il modello aforistico per abbandonare definitivamente ogni tentativo di sistematicità, cosa che molto significativamente causerà il definitivo crepuscolo del pensiero organico mirato alla conoscere del “Vero in sé”. Secondo noi il pensiero del pur autoproclamatosi “ateo” Nietzsche non può in alcun modo essere confuso col volgare ateismo scientista dei nostri tempi. In più di un’occasione Nietzsche avrà modo di criticare, infatti, idee positivistiche e darwiniste. Un chiaro esempio di questo lo si ricava dal seguente passo tratto da l’Anticristo:
“L’umanità non rappresenta, come oggi si crede, un progresso verso qualcosa di migliore, di più forte o superiore. Il progresso non è altro che un’idea moderna, ossia un’idea sbagliata. L’europeo di oggi, per il suo valore, resta profondamente al di sotto dell’europeo del Rinascimento; progresso non significa elevazione, crescita o rafforzamento. In un altro senso, nei più disperati angoli della terra e a partire dalle più diverse civiltà, c’è un continuo successo di casi isolati, attraverso i quali si manifesta, di fatto, un tipo superiore: un qualcosa che in rapporto all’intera umanità è una specie di superuomo. Casi fortunati del genere sono sempre stati possibili, forse lo saranno sempre. E perfino intere generazioni, stirpi e popoli possono, in determinate circostanze, rappresentare un caso vincente.”
Ma l’antimodernismo di Nietzsche non è unicamente ravvisabile nel suo prendere le distanze dai mali ideologici più comuni del suo tempo. In questo sta forse la sua unicità e la sua grande peculiarità: egli combatte apertamente, senza mezzi termini e alle volte con un tono secco e sferzante, quelli che erano dati come valori fondanti e imprescindibili della modernità, frantuma il fatiscente edificio chiamato “libertà, uguaglianza, fratellanza”, capovolge i più scontati, e perciò anche i più pericolosi, giudizi di valore, causando grande scandalo per ogni borghese benpensante dell’epoca. Affermazioni come la seguente sono preferibilmente ignorate dai teorici del mai esistito Nietzsche decadente e progressista:
“Con questi predicatori dell’uguaglianza non voglio essere mescolato e confuso: Poiché così parla a me la giustizia: “Gli uomini non sono uguali”. E nemmeno debbono diventarlo! Che cosa sarebbe il mio amore per il superuomo se io parlassi diversamente? Per mille ponti e sentieri debbono spingersi verso il futuro, e tra loro deve essere posta sempre più guerra e disuguaglianza: così mi fa parlare il mio grande amore![2]”
Non è un caso che il Nostro si guadagnerà ben presto la fama di “autore proibito”, specie, com’è ovvio, in ambito ecclesiastico. In quello che può ben essere considerato il suo testamento spirituale e la sua autobiografia, ovvero l’ecce homo, Nietzsche arriva ad affermare: “io non sono un uomo, sono dinamite”. In questa frase c’è tutto il senso del “filosofare col martello”, ovvero la necessità del rovesciamento di tutti i valori, in quanto già precedentemente rovesciati dalla rivoluzione cristiana. E qui veniamo ad un punto di fondamentale importanza, ovvero il fatto che il Cristianesimo si presenta come rovesciamento di tutti i valori sani e naturali (“gli ultimi saranno i primi”, “chi si umilia sarà esaltato”, “porgi l’altra guancia”, i deboli e gli oppressi sono sempre visti come i giusti e i forti come gli ingiusti, la malattia santifica mentre la salute e il godimento porterebbero al “peccato” e quindi a futuri tormenti, etc.) e altresì come maximum dell’astrazione metafisica, ponendo un Dio totalmente trascendente, eppure inteso in senso assolutamente personale, senza alcun legame col mondo, che così da sola realtà effettiva (“mundus” come totalità dei piani di coscienza, dottrina del sutratma e dell’axis mundi, non dualismo) finisce per essere nient’altro che pallida imitazione e ombra del Fattore, fino a divenire, nel peggiore dei casi, una “valle di lacrime” o una “massa diabuli ac perditionis”[3]. Così, con la sua consueta dote di sintesi, Nietzsche affermava che “la decisione cristiana di trovare il mondo brutto e cattivo, ha reso brutto e cattivo il mondo”[4]. Dualismo assoluto dunque come malattia dello spirito, come manifestazione di quella Trennung che il giovane Hegel considerava inguaribile ferita dell’animo ebraico. Da questa malattia dello spirito nascono le tre religioni abramitiche, di cui le ultime due, prive del legame etnico che ne conteneva lo spirito negatore e dissolutore, che pure nella storia ha avuto ampiamente modo di manifestarsi, sfoceranno in immani massacri e orrende persecuzioni. Lo spirito settario dell’Abramitismo rivela il deserto e il vuoto interiore, la sterilità, l’ottusità, l’allucinazione. Tutto al contrario l’animo indoeuropeo è un animo nobile, votato alla cristallina chiarezza, teso verso l’affermazione di sé, verso il costante superamento di sé, in una costante Strebung verso l’ideale divino, concepito come nulla di astratto o di alieno o peggio come un padrone assoluto, bensì come la propria più genuina ed intima essenza, che, attraverso un’adeguata disciplina spirituale, viene fatta sbocciare. E veniamo qui alla questione dell’Ubermensch. Utilizziamo non a caso l’etimo originale tedesco perché riteniamo che sia il termine “superuomo” che il termine “oltreuomo” siano sinonimi di interpretazioni viziate da un certo numero di pregiudizi e in ogni caso discostanti dal concetto originario nietzschiano. Che cos’è dunque l’Ubermensch? Iniziamo innanzi tutto a dire cosa non è. Non è il superuomo dannunziano, l’uomo d’azione, il futurista, meno di tutti non è l’oltreuomo di Vattimo, non è un dandy, né un esteta, né un uomo particolarmente dotato. Se lo si dovesse indicare con un esempio storico non lo si potrebbe trovare da nessuna parte. L’Ubermensch è, per definizione, l’uomo di là da venire, l’uomo del futuro, colui che sorgerà al di sopra delle rovine dell’ultimo uomo, la vile creatura che ha guastato e profanato il mondo con la sua immonda presenza e che tuttavia va dicendo: “noi abbiamo inventato la felicità”. L’Ubermensch è al di là del bene e del male, fermo negatore e mortale nemico di quel processo che si potrebbe definire “ontologizzazione” di categorie morali, ossia l’elevazione di categorie morali umane al rango di categorie dell’Essere. In parole povere egli è la negazione vivente dell’universalità della morale, dell’assurda e volgare pretesa di applicare indistintamente a tutti un medesimo precetto e un medesimo codice morale. L’uomo d’eccezione segue la propria legge interiore in quanto ciò che è bene per lui può benissimo essere male per qualcun altro, e viceversa. E abbiamo qui l’idea del rovesciamento di tutti i valori.
“Noi stessi, noi spiriti liberi, siamo già una tra svalutazione di tutti i valori, una dichiarazione di guerra e di vittoria in carne e ossa a tutti i vecchi concetti di “vero” e “non vero””[5].
Ma l’Ubermensch non si ferma qui. Non solo egli riconosce la molteplicità delle morali come fattore necessario basato sulla diversità delle nature umane (non esiste una presunta “natura umana”, ma solo nature umane al plurale, con profondo scandalo degli illuministi e degli odierni sostenitori della filosofia dei “diritti umani”), ma, in quanto uomo d’eccezione, egli è ormai al di là di ogni costrizione morale, in quanto quest’ultima è utile e necessaria solo per l’individuo-massa, quello che lui chiama l’uomo gregario, oppure per colui il quale non ha comunque imparato ancora a camminare con le proprie gambe, senza appoggi, senza rassicuranti religioni ed escatologie di amore e perdono, senza una qualche speranza insomma. La speranza è una grande bugiarda. Ma non si pensi che Nietzsche si impantani in alcun tipo di pessimismo. Quale pessimismo per il profeta dell’eterno ritorno dell’eguale? Per colui il quale la Vita è una forza profonda e incommensurabile, senza fondo, senza misura, tremenda eppure incredibilmente ricca e sempre nuova? Il pessimismo di Nietzsche, in fondo, non è mai stato altro che “scepsi aristocratica”, un mai pago impulso a squarciare tutti i veli di maya delle confortanti ideologie moderne, ma non si è mai arenato, pur facendo esperienza di stati abissali dello spirito, nelle paludi della disperazione e dello scoramento. In questo la straordinaria forza d’animo di Nietzsche. Che così stiano i fatti ce lo dice lui stesso:
“Ogni specie di pessimismo e di nichilismo diventa nella mano del più forte soltanto un martello e uno strumento in più, per acquisire un nuovo paio di ali.”
Distruggere i vecchi limiti, opus niger, purificarsi dal piombo e rinascita in albedo come essere alato e leggero. Non è un caso che Nietzsche, nello Zarathustra, identifica il suo più grande nemico nello “spirito di pesantezza”, nient’altro che il Saturno-Piombo, il re dormiente, la forza oscura e fatalistica che trascina verso il basso. Questo per capire come, al di là di ogni formazione esoterica e di ogni formale adesione alla “Tradizione” nel senso che poi successivamente andrà a definire Evola, in Nietzsche fossero presenti e operanti tensioni profondissime dello spirito, che in particolare nello Zarathustra si materializzeranno simbolicamente in figure enigmatiche. L’eterno ritorno è il fremito di un animo dionisiaco, di colui che ha capito, in nuce, il senso ultimo di Dioniso come “archetipo della vita indistruttibile” come lo definisce K. Kerenyi, noto storico delle religioni. J. Evola, in uno scritto intitolato “Dioniso e la via della mano sinistra”, affermerà che le figure nietzschiane di Apollo e Dioniso, almeno per come sono delineate nella giovanile “La nascita della tragedia”, sono da considerare assai distanti dal loro senso tradizionale greco. Cionondimeno ci preme sottolineare quanto da vicino i concetti di Ubermensch e di eterno ritorno dell’eguale ricordano concetti propri all’universo religioso indoeuropeo. L’ideale di Vir, Vira, Held, Heroos è certamente diverso dal concetto di Ubermensch, ma presenta diversi punti di contatto con quest’ultimo. L’eterno ritorno dell’eguale non è certamente lo stesso delle dottrine esiodea o indù dei cicli cosmici, eppure l’Ubermensch sembra tanto quella “nova progenies”, di cui già cantava oltre due millenni fa il sommo Virgilio nella sua quarta ecloga, che sarebbe scesa dall’alto del cielo per mettere fine agli stenti e alle pene e ripristinare i mitici “Saturnia regna”. E così veniamo ad una conclusione molto importante. L’Ubermensch non è, propriamente parlando, un uomo, ma ne rappresenta precisamente il perenne superamento. L’Ubermensch è un essere in continuo auto trascendimento, che giustifica il suo essere “mensch” in virtù dell’Uber, dell’andare oltre sé stesso. Egli è dunque in quanto supera sé stesso. In una formula: “progredior, ergo sum”, l’elemento dell’essere non è fissato in un’identità fissa e stabile, ma in un continuo gettare dei ponti oltre sé. È in fondo ciò che ha ispirato l’idea heideggeriana del “progetto gettato”, “das geworfene ich”. È in fondo vero che Nietzsche era un ateo? Lo è stato davvero? Certamente, nel senso cristiano del termine. Eppure come considerare la sua stessa definizione di “pagano” come colui il quale, con atteggiamento sommamente affermativo, pronuncia il “grande si” a tutte le cose? È evidente che, secondo questa sua stessa definizione, egli rientrerebbe a pieno titolo tra i “pagani”. Che cos’altro di schiettamente indoeuropeo può dunque trovarsi in Nietzsche? Molto. Lo spirito dello “Zarathustra” è una sinfonia di grandissima bellezza, uno scritto per saggi e per invasati, e cioè per “tutti e per nessuno”. Saggi e invasati. Chi conosce anche solo per sentito dire della mitologia nordica sa benissimo che Wotan, uno degli archetipi più importanti per le popolazioni germaniche, è l’invasato e il saggio per eccellenza, rimandando il suo nome a un etimo indoeuropeo *Wat-, che si ritrova anche nel latino in vat-es. Pur non conoscendo bene l’antico mondo germanico, ed anzi dimostrando spesso una sensibilità aliena a quella della maggior parte dei tedeschi dei suoi tempi, Nietzsche ha riportato in vita lo spirito di Wotan tra le pagine dello Zarathustra, impersonandolo proprio in quest’ultimo. A una simile conclusione arrivò anche C. G. Jung, che parlò dell’archetipo di Wotan come componente chiave dell’inconscio ereditario dei germani. E certamente per noi non è un caso, pur non condividendo a pieno il concetto junghiano di inconscio collettivo, che tale archetipo si sia potuto manifestare con tale potenza e chiarezza in un filosofo che, appunto, non conosceva bene l’antico mondo germanico. Il centro della spiritualità dello Zarathustra ruota attorno a questi pochi ma intensi concetti: Vita, Salute, Forza. Sotto un preciso punto di vista la filosofia di Nietzsche si accorda appieno con l’idea indoeuropea del sacro, e cioè nella sua intuizione di esso come vita pulsante, come potenza immanente, come forza radicale e più concreta di ciò che comunemente si definisce concreto, una linfa che scorre impetuosa nelle vene dell’esistenza. Questa concezione assomiglia innegabilmente a quella romana del numen, dal radicale *nu-, ovvero presenza, attualità, immanenza. Tutto questo in netta opposizione con un’idea di “altri” mondi, di realtà divine astratte, di morali e giudizi di valore umani accollati ai vari “Dio”, “Jahweh”, “Allah”, “Gesù”, etc. Dio è morto nel mercato, nel chiasso dei calcoli e dei profitti, nella nascente civiltà (leggi inciviltà) capitalistica, tra i proclami deliranti dell’ultimo uomo che afferma “non esistono uomini superiori: siamo tutti uguali”. L’inversione della normale e legittima gerarchia tradizionale di cui siamo testimoni nell’odierno regno oclocratico è sinteticamente profetizzata nello Zarathustra:
“Oggi infatti la gente da poco è diventata padrona: predicano tutti rassegnazione e modestia e astuzia e laboriosità e riguardo e il lungo eccetera delle piccole virtù. Ciò che è di natura femminea, servile e soprattutto miscuglio plebeo: questo ora vuol diventare signore di ogni destino umano: o schifo! Schifo! Schifo!”
A questo proposito le attuali interpretazioni dell’Ubermensch sono totalmente carenti sotto il profilo filologico. Si vuole creare un Nietzsche che non è mai esistito laddove non è possibile calunniarlo, rigettarlo o ignorarlo, data la mole del suo pensiero e l’enorme influenza che quest’ultimo ha esercitato. Il cosiddetto Oltreuomo che va oggi piuttosto di moda non è affatto colui che ha superato la morale collocandosi al di là del bene e del male, bensì è il vile che, per istinto ribellistico e anarcoide (cose profondamente disprezzate da Nietzsche), ponendosi al di qua di essa la rigetta, non essendo abbastanza forte e autonomo per superarla, e forse anche solo per seguirla con disciplina. È così che le attuali interpretazioni di Nietzsche (sia detto per inciso, chi non ha un animo affine al suo non lo può comprendere) arrivano ad equiparare tristemente l’Ubermensch e l’ultimo uomo, così rivelando proprio una sensibilità da Untermensch! (mi si perdoni il termine) Essere al di sotto della morale non è evidentemente la stessa cosa che essere al di là di essa. La differenza è abissale, ed è esattamente quella che intercorre tra l’Ubermensch e l’ultimo uomo. Il concetto di Ubermensch è di così difficile comprensione per i contemporanei (diciamo pure che non l’ha capito quasi nessuno!) perché essi, così come pure già gli uomini moderni dei secoli precedenti, sono troppo abituati, diremmo anzi addirittura narcotizzati, a ragionare secondo concetti, valori, categorie e idee umane che non possono neppure realmente concepire un ideale di “uomo non umano”, figuriamoci comprenderlo appieno o peggio seguirlo. Al di là delle ragioni della follia che colpì Nietzsche durante grossomodo il suo ultimo decennio di vita, che non si spiegano secondo noi con malattie intese in senso puramente biologico, ma che hanno a che fare col piano dell’animo ancor prima che con quello del corpo, l’impressione di follia che si ricava da molte delle sue opere deriva dal recupero di una dimensione arcaica e pre-socratica di sapienza, quella dei vati e degli aedi e dei sapienti come Eraclito, con il cui pensiero la filosofia di Nietzsche è massimamente compatibile. Questa è l’ottima intuizione di G. Colli, grande studioso proprio di Nietzsche e dei presocratici. Impossibile sarebbe, a questo punto, ridurre Nietzsche esclusivamente a martellatore e distruttore di ogni orizzonte di senso marcio e di ogni idolo e illusione, una specie di “vandalo delle idee”. Nietzsche distrugge l’edificio vecchio fatiscente per sgombrare il campo a nuove Vie e a nuovi Valori, abbatte il fantasma di una metafisica stanca per realizzare il romano “hic et nunc”, supera ogni concezione dualistica e idealistica per tentare di ricondurre, con uno sforzo titanico, tutto ciò che si è idealizzato come bello, sublime, magnifico, etc. ma concepito come lontano e inarrivabile sul piano effettuale e reale di conquista. È evidente a questo punto come la “pars construens” del pensiero di Nietzsche sia di un peso non indifferente. La seconda parte dei frammenti postumi noti come “Volontà di Potenza” è d’altronde tutto un enorme progetto di costruzione di nuovi Valori per Uomini nuovi e per un Mondo nuovo. Il seguente passo, tratto da “Al di là del bene e del male” può ben valere come appello per l’uomo del futuro, la cui venuta è ormai imminente e assolutamente necessaria:
“Noi, che abbiamo un’altra fede, noi, per i quali il movimento democratico non è solo una forma di decadenza dell’organizzazione politica ma una forma di decadenza e cioè di riduzione dell’uomo, un suo diventare mediocre e perdere di valore: dove dobbiamo rivolgerci noi con le nostre speranze? Verso nuovi filosofi, non rimane altra scelta; verso spiriti abbastanza forti e indipendenti da poter stimolare opposti giudizi di valore e rivalutare e capovolgere “valori eterni”; verso precursori, verso uomini del futuro, che già oggi formano quei lacci e quei nodi che costringeranno la volontà di millenni verso nuove strade. Per insegnare all’uomo che il suo futuro è volontà, dipendente da una volontà umana e per preparare grandi avventure e tentativi collettivi di disciplina e di educazione, per mettere fine in tal modo all’orribile dominazione dell’assurdo e del caso che si è chiamata “storia” – l’assurdo della “maggioranza” è solo la sua forma più recente – perciò sarà necessario un giorno un nuovo tipo di filosofi e di detentori del comando di fronte alla cui immagine tutti gli spiriti nascosti, terribili e benefici che sono esistiti sulla terra, figureranno pallidi e deformi. L’immagine di tali condottieri è quella che ci sta davanti agli occhi – posso dirlo forte, voi spiriti liberi? Le circostanze, che bisognerebbe in parte creare e in parte sfruttare per la loro nascita, le presumibili vie e le prove grazie alle quali un’anima potrebbe giungere a una tale altezza e a una tale potenza a sentire il vincolo a questi compiti, un capovolgimento dei valori sotto la cui nuova pressione e sotto il cui martello una coscienza verrebbe temperata come acciaio e un cuore trasformato in bronzo, così da poter reggere al peso di una tale responsabilità. D’altro canto la necessità di tali condottieri, il terribile pericolo che essi possano mancare o fallire e degenerare, queste sono le nostre vere preoccupazioni e i turbamenti, lo sapete voi, voi spiriti liberi? Questi sono i nostri pesanti, lontani pensieri e le tempeste che passano nel cielo della nostra vita. Ci sono pochi dolori così acuti come l’aver visto, indovinato e partecipato al modo in cui un uomo straordinario si è allontanato dalla sua strada ed è degenerato. Chi però possiede la rara attenzione al comune pericolo che l’uomo stesso degeneri, chi come noi ha riconosciuto la mostruosa casualità che finora ha giocato il suo gioco sul futuro dell’uomo – un gioco al quale non ha partecipato né una mano e neppure un “dito di Dio”! – chi scopre la fatalità che giace nascosta nell’idiota ingenuità e nella fiduciosa credulità delle “idee moderne”, e ancor più in tutt’intera la morale cristiano-europea, costui soffrirà un’angoscia con la quale nessun’altra si lascia paragonare, con un unico sguardo egli abbraccerà tutto ciò che con una concentrazione e un incremento favorevole di forze e di compiti ci sarebbe ancora da ottenere con l’educazione dall’uomo egli sa con tutto il sapere della sua coscienza come l’uomo non sia ancora esaurito per le massime possibilità e come il tipo “uomo” sia stato già spesso vicino a decisioni segrete e a nuove vie, egli sa ancor meglio per un suo ricordo dolorosissimo contro quali miserabili cose un essere in divenire, di altissimo rango, fino ad oggi si sia infranto, sfasciato, sia colato a picco, sia divenuto miserabile. La totale degenerazione dell’uomo giù fino a ciò che oggi appare ai babbei socialisti e alle teste vuote come il loro “uomo del futuro”, come il loro ideale, questa degenerazione e deprezzamento dell’uomo a perfetto animale del gregge (o come essi dicono in uomo della “società libera”), questo abbrutimento dell’uomo in bestiola con uguali diritti ed esigenze è possibile, non vi è alcun dubbio! Chi ha pensato a questa possibilità fino in fondo, almeno una volta, conosce una nausea in più rispetto agli altri uomini, e forse anche un nuovo compito!”
Giuseppe Arminio De Falco
NOTE
[1] Non lasciamoci fuorviare: i grandi spiriti sono degli scettici. Zarathustra è uno scettico. La forza, la libertà derivante da vigore e da eccesso di vigore dello spirito si dimostrano mediante la scepsi. Gli uomini che abbracciano una convinzione non hanno alcun rilievo per ciò che è fondamentale in fatto di valore e non-valore. Le convinzioni sono prigioni. Non vedono abbastanza lontano, non vedono al disotto di sé – dietro di sé… Uno spirito che voglia grandi cose, che voglia anche i mezzi per esse, è necessariamente uno scettico. La libertà da ogni sorta di convinzioni, il saper guardare liberamente è elemento costitutivo della forza… La grande passione, fondamento e potenza del suo essere, ancora più illuminata, ancora più tirannica di quanto lo sia egli stesso, ne impegna intero l’intelletto; essa rende privi di scrupoli; essa gli dà perfino il coraggio dei mezzi empii; in certi casi gli concede delle convinzioni. La convinzione come strumento: molte cose si raggiungono solo mediante convinzione. La grande passione ha bisogno di convinzioni e le usa, non si sottomette a quelle – essa si conosce sovrana.
[2] Così parlò Zarathustra.
[3]Agostino, De Correptione et Gratia, 9, 25.
[4] La Gaia Scienza.
[5] L’anticristo.