Alterità e identità
Il concetto di alterità (ciò che distingue) e di identità (ciò che unisce) non sono mai stati studiati come oggi da sociologi, psicologi e antropologi. Il motivo di questo tormentato interesse è dovuto al fatto che anche i rapporti di convivialità, specialmente in questi ultimi tempi, hanno subito un accelerato processo di liquefazione. A partire dall’illuminismo: “si è considerata verità di buon senso il fatto che l’emancipazione dell’uomo, la liberazione del suo vero potenziale, esigesse una rottura dei legami delle comunità e che gli individui fossero liberati dalle circostanze della loro nascita” (Z. Bauman, Vita liquida, Laterza, Bari 2006).
L’economia moderna, passata dalla colonizzazione alla globalizzazione, ha contribuito a sciogliere quei legami sociali ereditati dalla tradizione che fino a ieri, per secoli, avevano costituito il collante su cui fondavano i rapporti di convivenza. Il crollo delle ideologie laiche e delle religioni, la mobilità dei mercati, la dinamicità degli scambi culturali, degli spostamenti, l’immediatezza delle comunicazioni, tutto ha comportato un esasperato individualismo sociale. Il solipsismo è la grande malattia contemporanea che occupa lo scenario dei rapporti interpersonali. Alle emotività consuetudinarie, sanguigne e passionali, che un tempo nel bene e nel male arricchivano la vita, si sono sostituite esperienze virtuali e asettiche. L’isolamento dato dal superamento delle realtà emozionali ha prodotto visioni anamorfiche che deformano la percezione diretta delle pulsioni circostanti. Tale schermo protettivo interagisce e i contatti relazionali con il mondo degli altri si riducono a semplici ologrammi. Il passaggio verso una condizione di affrancamento dai bisogni primari del corpo e dello spirito ha portato alla rincorsa verso le necessità secondarie, vere o presunte, con il conseguente estraniamento dalle realtà emozionali riservate al prossimo.
La figura dell’altro non esiste più o meglio, gli altri siamo noi. Questa conseguente identificazione ha necessariamente determinato l’assunzione di atteggiamenti che, nel microcosmo (identità singola) portano ad una falsa comprensione altruistica con forme di pietismo egotico. Contemporaneamente a livello macrocosmico (identità collettiva) sono apparsi sentimenti di rivalsa revanscista e le azioni private e pubbliche si riducono a mero tornaconto della propria persona o del gruppo di appartenenza. Ad esempio quando il nostro prossimo soffre, muore o gioisce noi sostituiamo la percezione della sua sensazione trasferendola su di noi attraverso un processo di immedesimazione. Proviamo dolore o allegria per noi stessi, perché vediamo nell’altro il riflesso della nostra sorte, cioè una semplice preoccupazione di sé. La supremazia dell’io può pure arrivare a coinvolgere le istituzioni, favorendo scontri e aggressioni che possono turbare gli equilibri della geopolitica internazionale.
Il vecchio campanilismo riveste il formato mignon di un nuovo sovranismo extra large. Lo sradicamento identitario passa attraverso una preordinata serie di fasi che possono essere così riassunte: iniziale critica, smantellamento, denigrazione delle culture di appartenenza e progetto di sostituzione con culture liquide (interculturali e globaliste), sostegno incondizionato al melting pop culturale, sostituzione dei valori ideali con quelli economici, costituzione delle basi che portano al pensiero unico, maschera dell’ospitalità e dell’accoglienza per coprire la speculazione, sostituzione della base elettorale con inserimento di nuove fasce.
Libertà e comunitarismo
La complessa rete di offerte proposte dal mercato allontana da una seria visione ontologica e il più delle volte l’osservazione diventa una “reductio ad ventrem”. Le necessità e le precarietà che pesavano sui nostri progenitori erano notevoli, ma la capacità di sopportazione e la solidarietà corale potevano garantire loro un discreto baluardo comunitarista, oggi inesistente (C. Preve, Elogio del comunitarismo, Ed. Controcorrente, Napoli 2006). Tuttavia, nonostante le tendenze degli ultimi tempi, resta sempre difficile spezzare il legame che unisce l’individualità alla coscienza collettiva. L’uomo, in qualità di animale sociale, qualunque possa essere la sua posizione, comprende che la sussistenza non può prescindere dall’ambito comunitario. Non esiste l’uno se non c’è il due. Ogni essere umano si pone sempre in relazione come membro di una determinata associazione, sia essa politica, culturale, linguistica, religiosa ecc. Il riferimento ad un orizzonte di valori è d’obbligo per definire e posizionare chiunque, in qualsiasi momento e circostanza.
L’eredità precostituita che ognuno volente o nolente acquisisce è tale da non poter essere mai completamente rinnegata o rifiutata. Revocare le proprie appartenenze in nome della libertà è utopia. Abbandonare i miti, considerandoli limiti da superare, non significa averli cancellati consciamente e per sempre dalla propria memoria. In fondo “[…] rifiutare una appartenenza è ancora un modo per esprimerla” (A. de Benoist, Identità e comunità, Ed. Guida, Napoli 2005).
Riconoscere una identità significa ammettere che ci assomigliamo poiché riconosciamo d’esser differenti uno dall’altro. L’uguaglianza dei diritti non significa equiparare l’alterità al medesimo, il diritto alla differenza è parte fondante di ogni libertà. Riconoscere le proprie diversità è il modo migliore, secondo la visione olistica durkheniana, per meglio restare uniti. L’alterità è in qualunque caso complementare all’identità e questo rapporto può essere inteso in senso empatico o ostile. In entrambi i casi si tratta di un rapporto.
Anche il donare mette in luce una reciprocità relazionale poiché così si costruisce il giro d’alternanza della reciprocità: dare→ricevere→ contraccambiare (M. Mauss, Saggio sul dono, Einaudi, Torino 2002), il dono fatto a chi non può restituirlo sottintende il non riconoscere l’identità di chi lo riceve. Sostanzialmente il comunitarismo sostiene il primato del bene comune sul concetto di giustizia sociale mentre il liberismo favorisce il concetto di giusto che ritiene debba prevalere su quello di bene comune. Il comunitarista ipotizza l’uomo contestualizzato nella comunità (famiglia, professione, ideologia, religione, ecc.) con i diritti e i doveri imposti dall’appartenenza. La concezione dell’io liberista è individualista, l’uomo viene “emancipato” dalle regole e dai doveri verso il gruppo al fine di poter così meglio perseguire il personale tornaconto.
Il luogo del non luogo
Secondo le riflessioni di Marc Augé l’essere umano è tridimensionale poiché presenta: in primis la dimensione individuale che lo vede soggetto cosciente; la dimensione culturale,insita nella simbologia e nelle regole dei rapporti con le istituzioni che porta alla definizione di una società politica, etnica, nazionale; infine la dimensione generica, è derivante dall’appartenenza alla specie umana (M. Augé, L’uno e l’altro, gli uni e gli altri, Massetti Rodella Ed., Roccafranca 2013).
Entrambi i due concetti di identità e alterità non possono essere disgiunti dalla corretta concezione dello spazio (M. Augé, Nonluoghi- Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2009) che, a seconda dei casi, può diventare l’area principale della relazione,dell’interazione o dell’anonimato. L’antropologo francese ha definito: LUOGO ANTROPOLOGICO: dove vigono le regole relazionali dei legami sociali di residenza,di culto e della storia comune.
Il suo perimetro si caratterizza per la configurazione istantanea di tre posizioni:
– Identitaria poiché rappresenta il distintivo dell’identità individuale e collettiva, ad esempio il luogo di nascita.
– L’aspetto relazionale o sociale è costituito dalle regole di residenza che assegnano all’individuo un posto preciso nell’insieme con gli altri.
– La valenza storica, ovvero un preciso calendario rituale organizzato per risvegliare le potenze tutelari, fatto di riti, feste, ricorrenze, ecc.
Sono invece da considerare NONLUOGHI gli spazi caratterizzati dall’effimero, dal passaggio,dalla trasmissione, dove la certificazione identitaria avviene attraverso l’uso di tessere, biglietti, carte di credito, documenti. Non integrano in sé i luoghi della memoria ed esprimono l’immanente (economico, ludico, utilitaristico) in modo omogeneizzato e unilaterale. A loro volta i non luoghi si suddividono in:
– Nonluoghi propri, rappresentati dalle sedi dell’anonimato, come periferie, zone atte a favorire la circolazione accelerata delle persone (strade, autostrade, aeroporti, ecc.), i centri di smistamento (stazioni, porti, ecc.).
– Subluoghi, identificabili con le località dequalificate del degrado (campi profughi, bidonville, discariche, quartieri dormitorio).
– Superluoghi, i posti deputati ad ospitare le sedi dell’utilitarismo. Hanno sostituito i luoghi simbolici. Sono di massima dedicati alla finanza, al credito (banche, agenzie finanziarie) e ad ospitare la burocrazia amministrativa; riguardano gli spazi assegnati alle attività ludiche e sportive (stadi, palestre, piscine, aree giochi); gli empori del settore economico/commerciale (ipermercati, supermercati, mercati, grandi magazzini, ecc.).
– Nonluoghi immaginari, creati artificialmente dai mezzi di comunicazione mediatica (televisioni, computer, telefonini, ecc) dove il soggetto vive oltre le dimensioni del reale.
Anche la definizione data alla nozione di “frontiera” indirettamente chiarisce le prospettive del tema originario. Augé si chiede se l’ideale di un mondo egualitario non passi attraverso l’abolizione di tutte le frontiere, bensì dal loro riconoscimento e prosegue: “Il nostro ideale non dovrebbe perciò esser quello di un mondo senza frontiere, ma di un mondo nel quale tutte le frontiere siano riconosciute, rispettate e attraversabili, cioè un mondo in cui il rispetto delle differenze cominci con il rispetto degli individui, indipendentemente dalla loro origine, dal sesso e dalle convinzioni politiche”.
Veri e falsi pregiudizi
La parola identità viene sovente associata a quella dell’immigrazione. Se ciò è stato vero per i pellerossa resta una leggenda metropolitana quella secondo cui oggi le radici dei nativi verrebbero irrimediabilmente compromesse dal sopraggiungere di nuovi arrivati. In realtà la vera minaccia di cancellazione identitaria, attualmente in corso, è a svantaggio delle minoranze allogene che spesso soffrono pressioni riguardanti l’adattamento, lo sfruttamento del lavoro e l’emarginazione sociale. In questo contesto sono ben altre le cause che minano alla base la sopravvivenza delle culture autoctone. La disgregazione delle identità collettive è infatti causata da un complesso di fattori affatto secondari, che inspiegabilmente non vengono tenuti in considerazione sia dagli xenofobi quanto dai fautori dell’angelismo cosmopolita. Rifiutare l’altro o peggio accettarlo con il fine di integrarlo solo per ricondurlo allo stesso (riconoscerlo come noi siamo) sono due errori solo apparentemente antitetici.
Nelle moderne società nazionali, a compromettere la capacità di produrre un proprio modello di vita e di pensiero non è tanto l’arrivo dei “nuovi barbari” ma l’adozione di quegli atteggiamenti mentali che hanno aperto al primato del consumo, all’ideologia della merce e dei costumi, all’omogeneizzazione mediatica, concorrendo a favorire il culto della persona, del successo, della dittatura del privato e della finanza (A. de Benoist, Oltre il Moderno, Sguardi sul terzo millennio, Arianna ed, Casalecchio 2005). Non sono poi da sottovalutare il plauso delle famiglie medie e la presa sulle più giovani coscienze offerti dai centri di ritrovo commerciale e dai parchi del divertimento fittizio (M. Augè, Disneyland e altri nonluoghi, Boringhieri , Torino 1999) che fomentano le uscite domenicali e occupano il tour dei vacanzieri.
La perdita di beni e valori di solidarietà sociale dovuti all’uniformità dei comportamenti non sono da ricercare in capri espiatori ma restano conducibili a precisi comportamenti rinunciatari che fanno aumentare la separazione tra avvenire individuale e destino comune. Per contro l’affermazione delle individualità nazionali non necessariamente è da ostacolo agli inserimenti.
Il bagaglio della tradizione, costituito dall’insieme di usanze e costumi rappresenta il patrimonio dinamico di una società, un derivato di esperienze che, in quanto tali, non sono affatto unidimensionali e monolitiche. I valori di un tempo necessariamente si adeguano alle esigenze del presente, esorcizzano le differenze, consentendo fattori di cambiamento.
La distinzione teorizzata da Paul Ricoeur (P. Ricoeur, L’identitè narrative, in Revue des Sciences Humaines, LXXXXV, 1991) pone a confronto i due significati sovrapposti e distinti che i latini attribuivano al termine identico: idem sinonimo di simile, analogo (eguaglianza che implica immutabilità nel tempo) e ipse identità di se stesso, ipseità, che non presuppone una fissazione alla persistenza. Permanenza e cambiamento sono compatibili con l’identità. Così come la personalità dei singoli si modifica nel tempo e non è mai la stessa, perché nel corso della vita l’essere umano acquisisce nuove potenzialità e trascura o perde le vecchie (L. Pirandello, Uno, nessuno, centomila, Ed. Einaudi, Torino 2014).
Alla stessa stregua le idealità di una comunità assommano fattori di permanenza a fattori di cambiamento, derivati da mutazioni endogene o esterne. I conflitti sociali non si risolvono annullando o demonizzando le differenze ma ottimizzandole in un confronto di rispetto reciproco. Lo scorrere del tempo a sua volta dimostra che, nonostante la volontà dell’uomo, la selezione dei valori trasmessi segue un processo naturale. I falsi profeti possono temporaneamente alterare le prospettive ma, in un’ottica plurisecolare, arriva sempre il giudizio della storia che, al di là degli immediati interessi di parte, distingue il vero dal falso e ridimensiona le arroganze da qualsiasi parte e colore provengano.
I limiti della personalità odierna
I membri liberi della società romana per l’identificazione disponevano dei tria nomina: – il praenomen. Equivalente al nome proprio. – il nomen. Con il cognome si individuava la famiglia allargata, il gentilizio, l’appartenenza alla gens. – il cognomen. Il sopranome distingueva il soggetto all’interno della propria famiglia.
Nella società contadina cremasca ogni individuo era dotato di:
Nóm, che distingueva l’appartenenza legata al soggetto. Cugnóm, utilizzato ad indicare tutti i componenti del casato (vincolo del sangue diretto o acquisito). Nei paesi del Cremasco spesso l’uso endogamico portava alla compresenza di più gruppi contraddistinti dallo stesso cognome che non si riconoscevano tra loro come gruppi parentali. Al comune cognome si aggiungeva un epiteto dialettale che contribuiva ad una aggiuntiva individuazione della schiatta.
Scurmàgna, soprannome usato in seno alla comunità, per vincolo diretto (nascita) o indiretto, del suolo (abitazione). Il nomignolo delineava fortemente la personalità dell’individuo e la sua attribuzione proveniva da persone che ne conoscevano a fondo le consuetudini, le attitudini morali e corporali. Il nomignolo poteva infatti riguardare un ripetitivo intercalare usato dal soggetto, sottolineava un pronunciato difetto fisico, richiamava la sua attività commerciale, una prerogativa caratteriale, il luogo di provenienza oppure a volte comportava l’aggiunta del nome paterno. Nella società moderna la sfera di appartenenza si è notevolmente ristretta.
Il patronimico (scurmàgna) è completamente scomparso in quanto l’attenta osservazione delle peculiarità e delle manie individuali, grazie all’isolamento prodotto dalla civiltà di massa, è diventata improponibile. Anche il cognome è sempre più spesso affiancato e sostituito da anonimi codici alfanumerici che più speditamente, in un’epoca altamente digitale, offrono le possibilità di acquisto, prelievo, identificazione. Oggi permane il nome, forse perché ritenuto più democratico degli altri; con la sua diffusione seriale, permette una illusoria riservatezza da apolide e sembra garantire la parvenza di una inesistente privacy. Quest’ultima è infatti fortemente compromessa dalle occhiute e onnipresenti telecamere, sparse ovunque, dai cellulari satellitari di ultima generazione, da spie e microspie pronte a documentare tutti gli atti pubblici e privati della quotidianità.
C’è stato un tempo in cui non solo i singoli venivano accompagnati durante l’arco della loro vita da un nomignolo, ma anche tutte le comunità, gli abitanti di comuni grandi e piccoli che fossero, erano contraddistinti da un epiteto che li rendeva inconfondibilmente riconoscibili. La consuetudine popolare attivava a definire i nomi degli abitanti dei paesi circonvicini con suggestivi soprannomi. Queste definizioni maliziose e pungenti provenivano da una serie di credenze e di fatti veri o immaginari che col passare del tempo avevano finito per fare breccia nell’immaginario collettivo, spesso venivano utilizzate in senso ironico.
Identità e campanilismo
Le ragioni identitarie sono rintracciabili anche in quella che è stata definita la festa laica più importante per i Cremaschi: il carnevale. In essa riecheggiano le rivalità che fin dall’Alto Medioevo hanno scandito il rapporto di difficile convivenza tra villici (gagèt) e cittadini (schitì). Non sono mancate le dispute e le reciproche incomprensioni mai sopite tra città e paesi confinanti. Nella stessa città, come nei paesi, il confronto si è esteso ai rioni per motivi politici (quartieri Guelfi e Ghibellini a Soncino), amministrativi (i rioni, legati agli statuti comunali che regolavano le quattro porte d’accesso alla città murata), sportivi e religiosi e fidelen da S. Roch a Soresina).
Nonostante il trascorrere dei millenni queste rivalità hanno continuato a persistere, come ad esempio nell’alimentare il senso di diffidenza reciproca tra Cremaschi e Cremonesi. Questi ultimi considerati colpevoli in quanto eredi di coloro che avevano aizzato il Barbarossa all’assedio e alla distruzione di Crema. Sono incomprensioni suggestive ma che probabilmente originano nella preistoria e risalgono alle diverse origini etniche. Il vernacolo cremasco sarebbe infatti una derivazione del lessico cenomane mentre quello Cremonese apparterrebbe all’area insubre. Anche all’interno della stessa città spesso sorgevano dispute tra i quartieri legati alla posizione centrale o periferica, tra paesi vicini le fazioni che contribuivano a fomentare contrasti da cui derivavano storielle divertenti e aneddoti localistici non sempre nocivi al contesto ambientale delle piccole comunità.
Spesso si riscontra fraintendimento nello scambiare il campanilismo (atteggiamento sentimentale circoscritto che tende a non travalicare l’orizzonte del proprio campanile, a preservare, far rivivere e valorizzare usi e costumi folclorici) con il fenomeno del nativismo (che invece ne rappresenta l’applicazione politica). La sudditanza economica, comporta necessariamente l’avvallo linguistico e la dipendenza diventa non solo finanziaria ma anche culturale. L’asservimento energetico dai paesi orientali, così come la sudditanza alla politica occidentale gravano oggi sul potenziale sviluppo e sull’indipendenza dell’Europa e quindi dell’Italia, è necessario non solo accorgersene, ma soprattutto, prima che sia troppo tardi, cercare di porvi rimedio.
Walter Venchiarutti