Uomini e donne, vecchi e bambini sembrano oggi ambulanti fardelli di carne da cui frotte di virus balzano tutt’intorno come pulci mordaci. Ogni prossimità ci spaventa. Con un bacio l’amante può uccidere l’amato. Se l’amico incontra l’amico, se ne resta lontano. Noli me tangere, par che gli dica.
Su tutti aleggia una tremenda parola: contagio. Con-tangere, essere tangenti a cose e persone, pare ormai un rischio mortale. La gente si barrica in una ipocondriaca solitudine, lontana da soffi e da calori umani, temendo un nemico indefinibile. Forse un leggendario animale, come il catopleba o il badalischio, dallo sguardo che pietrifica e l’alito che uccide; uno spettro sottile, un’entità prossima al nulla che penetra ogni cosa e luogo. Forse un demone incubo, cui potremmo sfuggire solo aprendo gli occhi.
Vedremmo allora che è inutile rispettare magiche distanze dagli altri, rendersi intangibili, moltiplicare obblighi e divieti. Tutto ciò non ci difende da un rischio costante e inevitabile: restar vittime di un auto-contagio. Perché se tutto ciò che mi è vicino minaccia di infettarmi, è chiaro che io sono per me il più grave pericolo, il primo, più diretto e temibile veicolo di contagio. Se oggi la Legge ubbidisse alla ragione, cosa ormai insperabile, prescriverebbe l’obbligo per ciascuno di star lontano da sé medesimo. Ma la gente non lo rispetterebbe. Continuerebbe ad ammalarsi e a darne la colpa ad altri, a un virus o alla sfortuna, senza capire che la vera causa è l’imprudente intimità con sé stessi.
Purtroppo la scienza moderna ha una visione paurosamente limitata dell’essere umano. La medicina soprattutto, con i suoi teoremi, ci spinge a credere che la malattia sia qualcosa che proviene dall’Altro, dal Non-Io, forze estranee alla nostra volontà. Per questo quando qualcuno si ammala lo commiseriamo, con tono via via più costernato secondo la gravità del male. Supponiamo invece che l’ammalarsi dipenda da un atto volontario. Allora non vi vedremmo un’infelice congiuntura ma un atto colpevole e insensato. Dovremmo addebitare al malato i danni da lui causati a sé stesso e alla comunità.
‘Ammalarsi’ è un verbo riflessivo, indica un’azione che il soggetto compie su di sé, come tormentarsi o illudersi. Implica quindi una responsabilità. In effetti, noi già crediamo che alcuni malanni derivino da comportamenti irresponsabili: il fumare, il bere o mangiare senza criterio e ora, in tempi di contagio, non rispettare norme e decreti. Tuttavia, la nostra mentalità ci porta a compatire il malato, a vedere in lui una vittima del destino. E in fondo è così, se solo capiamo che noi e il nostro destino siamo un’unica cosa, e che quindi ognuno è vittima di se stesso.
La responsabilità della malattia ci sfugge perché consideriamo solo le intenzioni e i comportamenti consapevoli, dimenticando che la nostra volontà può avere radici oscure e molto più profonde. Se il volto si arrossa per la vergogna o il cuore galoppa per un’emozione, la ragione è in noi prima che in qualche circostanza esterna. Eppure, quando l’uomo si ammala, la sua coscienza rifiuta ogni addebito e crede di trovarne le cause fuori di sé. È questa un’idea ingenua e superficiale, che non vede i nervi e il midollo della realtà sotto l’epidermide dei fatti.
Vi fu un lungo periodo, a partire dal secondo secolo della nostra era, in cui la Cina venne amministrata da una comunità religiosa di ispirazione taoista, chiamata Wu-tou mi-tao. Può sembrar paradossale che dei taoisti, inclini al rifiuto delle convenzioni sociali, abbiano messo mano alla società per riorganizzarla, abbandonando una vita ritirata e contemplativa per metter ordine nella vita pubblica. Probabilmente fu proprio il loro anti-conformismo che li portò ad attuare alcune innovazioni sorprendenti. Per esempio, conferirono alla donna la medesima dignità e i medesimi diritti dell’uomo, rompendo coi pregiudizi del vecchio ordine feudale e confuciano. Ma ancora più sconcertanti furono i provvedimenti presi nel campo della salute pubblica.
Secondo il fondatore di quella setta, il Maestro Celeste Chang Tao-ling – l’iconografia lo mostra mentre cavalca una tigre – la malattia nasce dal peccato, ossia da una cattiva pratica di vita, da una disordinata disposizione interiore. Per lui il malato non era quindi una vittima ma un colpevole. Non erano agenti esterni a farlo ammalare ma i suoi abiti fisici e mentali. Il peccato provocava la rottura dei sottili equilibri dell’anima e il male morale, ovvero la perdita dell’armonia interiore, si traduceva in male fisico. La diagnosi non dipendeva perciò da radiografie o esami del sangue, ma da un esame di coscienza e dalla confessione sincera delle proprie colpe.
La malattia non era un evento sfortunato ma la conseguenza di un allontanamento dalla Via e dalla Virtù. Forse la causa di questo traviamento era l’avidità, la paura o la collera. In ogni caso, la guarigione dipendeva dalla fede e da un pentimento sincero, una resipiscenza che riportava l’uomo in armonia col Cielo. A tale scopo il malato veniva ospitato in apposite prigioni, dette “case di riposo”, dove poteva meditare in solitudine, digiunare e, purificandosi, ritrovare l’equilibrio perduto.
I crimini veri e propri, quelli che noi definiremmo reati civili o penali, erano giudicati con maggior indulgenza. Venivano puniti solo se reiterati – serviva almeno una doppia recidiva – e la pena consisteva nello svolgere lavori utili per la comunità, come aggiustare le strade o raccogliere erbe medicinali. Erano abolite non solo le esecuzioni capitali ma anche le lunghe detenzioni, che i cinesi temevano più della morte. Essendo meno corrotti di noi, amavano la libertà più della vita.
L’uomo moderno, che crede di aver fatto da allora grandi progressi, vedrà in quei legislatori dei barbari superstiziosi. E in quella Cina una primitiva Erewhon, dove i malati son considerati alla stregua di criminali, processati e messi in galera, mentre i delinquenti vanno in ospedale. Attribuire al malato la responsabilità della sua malattia e sottoporlo a misure rieducative offende i nostri pregiudizi umanitari. E non possiamo certo ammettere che dei vecchi taoisti conoscessero meglio di noi la natura umana.
Bisognerebbe ricordare però che anche nella Bibbia la malattia rappresenta un castigo e un’espiazione. È il manifestarsi di una colpa morale o, come nel caso di Giobbe, una prova cui Dio sottopone l’uomo. Anche nei Vangeli la guarigione è spesso associata al perdono dei peccati e alla fede in Dio. Questo, molto più di certe moderne teorie, stabilisce un legame profondo tra la salute dell’anima e del corpo.
Ma la gente è oggi ossessionata da medici e medicine, e si affida alle macchine per sapere qualcosa di sé. È tanto preoccupata di organi e funzioni da dimenticare di avere un’anima. Non sa che ogni singolo atomo del suo corpo ubbidisce a questa immateriale entelechia. L’uomo moderno è così lontano dalla Realtà da pensare che la malattia e la morte siano nemici da combattere. Fugge, si nasconde o si azzuffa coi suo malanni, senza capire che lotta con sé stesso. E non vede che ammalarsi e morire son qualcosa che lui stesso ha reso necessario.
Io non dubito che quelle antiche pratiche depurative – preghiera, solitudine, digiuno – avrebbero ancor oggi effetti benefici. Certo più di assurdi protocolli medici, dell’ingoiar farmaci o far rattoppi chirurgici. Tuttavia, nella nostra era scientifica, sembra assurdo che per guarire si debba riflettere sulla propria vita nel silenzio di una cella, chiedendo perdono a Dio. La sclerosi di una mente troppo razionale inibisce l’intuizione del vero e la fiduciosa apertura del cuore. Inoltre, se dovessimo seguire la regola del Maestro Celeste, non basterebbero tutte le patrie galere a contenere la folla dei malati. Infatti, come diceva Huxley, la medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno è sano.
Ma di quell’antico modello terapeutico potremmo conservare il succo, cioè il senso pedagogico della malattia: “pathemata mathemata“, i patimenti sono insegnamenti. Così, ogni malattia porta con sé una lezione da imparare. Secondo de Musset “l’uomo è un apprendista, il dolore il suo maestro e nessuno conosce se stesso finché non ha sofferto“. La sofferenza non porta alla conoscenza di fatti o nozioni ma allo scandaglio della propria anima e alla saggezza del cuore. Ci si può piacevolmente istruire su una quantità di cose interessanti e utili, ma le cose essenziali si apprendono solo attraverso il dolore.
La sofferenza è la levatrice di un io profondo e razionalmente insondabile, in cui anima e destino si fondono. Perciò von Keyserling diceva che nulla ci accade che già non ci appartenga intimamente. Ma oggi tutto sembra svolgersi secondo leggi meccaniche, pesi e misure di natura puramente fisica. La medicina combatte con numeri e percentuali; la malattia e la morte sembrano frutto del caso o di una natura indifferente, senza cuore. Perciò la medicina oggi non guarisce più nessuno. Non sa nulla dei sottili processi, dei fili invisibili che avvolgono la vita.
Ammalarsi o morire non sono l’esito di una sfida tra atomi e molecole, ma l’espressione di una relazione tra l’uomo e il suo creatore. Qualunque sia la causa apparente, se anche, come a Eschilo, ci cadesse una tartaruga sulla testa o come Socrate dovessimo bere la cicuta, è perché ogni anima semina un destino e a tempo debito ne raccoglie i frutti. Per questo l’idea di un contagio sarebbe per il Maestro Celeste una totale assurdità. I peccati non passano da un’anima all’altra. Nessuno si ammala e muore perché un fantomatico virus l’ha infettato, ma ognuno si contagia da sé.
Per salvarci dovremo dunque rispettare una scrupolosa lontananza da noi stessi. Non però secondo le inutili misure stabilite dalla legge. Per sfuggire all’auto-contagio devo pormi a una distanza infinita da me stesso, come quella che mi separa dal mio riflesso in uno specchio, o che divide la veglia dal sogno. Questo incolmabile distacco mi rende intangibile e immune. Così, allontanandomi da me, posso riavvicinarmi agli altri senza paura. Il cuore, svuotandosi, richiama in sé il soffio e il calore del mondo. Son libero di baciare l’amante, di abbracciare l’amico. E sento ancora la vita che passa e mi contagia.
Livio Cadè
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