La campana suona per tutti, per me e per te. Peggio per noi se non ne percepiamo il suono in mezzo al frastuono. L’Agenda 2030 si sta svolgendo sotto i nostri occhi, ma non vediamo né sentiamo. Dopo aver attaccato la proprietà privata delle case di abitazione minacciando di vietarne la vendita se non in regola con le scalmane climatiche “verdi”, in attesa di tassare in maniera esorbitante le abitazioni attraverso la rivalutazione catastale (ce lo chiede l’Europa!) sale il livello dell’attacco. Il quotidiano Le Figaro ha denunciato che nel programma presidenziale di Emmanuel Macron, l’enfant prodige di casa Rothschild, vi sarà una pesantissima tassa sulle successioni. La proposta parte dal CAE, Consiglio d’analisi economica, un’istituzione della presidenza francese. L’obiettivo è tassare le eredità sino a farle scomparire in una generazione. L’idea è attribuita agli eredi del pensiero di Pierre Bourdieu, il sociologo marxista che coniò il concetto di “violenza simbolica”, esercitata non con l’azione fisica, ma con l’imposizione di una visione del mondo, dei ruoli sociali, delle categorie cognitive, delle strutture mentali attraverso cui viene percepito e pensato il mondo, da parte di soggetti dominanti verso soggetti dominati; una violenza “dolce”, invisibile, esercitata con il consenso inconsapevole di chi la subisce.
L’articolo del Figaro termina riassumendo come il tema dell’imposta di successione venga affrontata dalle varie famiglie politiche alla vigilia delle elezioni presidenziali: “la sinistra vuole alzarla, la destra abbassarla, e il centro… non dice niente”. Nulla di nuovo: l’iniziativa è sempre nelle mani dell’avversario, per la timidezza, la paura, la malafede di chi difende solo il proprio orticello senza una visione e un progetto. La sostanza è che in occasione delle elezioni presidenziali di una Francia in cui la maggioranza naturale è sempre più a destra, si deciderà anche sul più ambizioso tra i punti dell’Agenda 2030: l’abolizione della proprietà – per gradi e mascherata da politica fiscale –attraverso la difficoltà di trasmetterla ai discendenti o a chiunque altro. Nessuna sorpresa: impazza la cultura della cancellazione, il rifiuto di trasmettere la civiltà e perfino la vita. Cancellare l’eredità materiale è solo una coerente conseguenza. Il destino è la tabula rasa: nessun lascito di cultura, di comunità e di spirito. Il finale è scontato: gli ultimi padri non lasceranno eredità materiali agli ultimi figli. Le generazioni si sono rinnegate a vicenda. Ognuno ricomincerà da zero: al gregge tosato provvederà il pastore.
Chi scrive sorride amaro, giacché da anni sostiene che avremmo dovuto difendere la proprietà privata non dai collettivisti, ma dai monopolisti. Non è un caso che l’attacco provenga dalla Francia, culla della rivoluzione borghese e mercantile nel XVIII secolo e patria della “decostruzione “nella seconda metà del XX. Francese era anche Alexis de Tocqueville, a cui dobbiamo l’intuizione che la libertà di una nazione si valuta dalla legislazione in materia ereditaria. Se si interrompe il meccanismo di trasmissione di quanto le generazioni precedenti hanno costruito, finisce la società, sepolta insieme con la libertà e con l’istinto umanissimo di realizzare qualcosa per sé e per le generazioni future. Il conte normanno lo capì per primo e previde nelle sue due grandi opere, La democrazia in America e L’Antico Regime e la Rivoluzione, una serie di fenomeni della modernità: la persistenza e pervasività burocratica, la dittatura della maggioranza, il conformismo di massa, l’indifferenza morale e spirituale, l’idolatria dell’uguaglianza.
“Vedo chiaramente nell’uguaglianza due tendenze: una che porta la mente umana verso nuove conquiste e l’altra che la ridurrebbe volentieri a non pensare più. Se in luogo di tutte le varie potenze che impedirono o ritardarono lo slancio della ragione umana, i popoli democratici sostituissero il potere assoluto della maggioranza, il male non avrebbe fatto che cambiare carattere. Gli uomini avrebbero solo scoperto un nuovo aspetto della servitù.” Tocqueville comprese che l’ideale democratico conteneva il pericolo della dittatura della maggioranza, peggio, della tirannia esercitata in nome del popolo, se questo si lascia strappare la sovranità. E’ la storia dei nostri giorni; onnipotenza del dominio, scarse garanzie contro gli abusi; amore smisurato per il benessere (cioè ben-avere); conformismo eterodiretto. “Non conosco un paese dove regni meno l’indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America.” Dalla visione degli Stati Uniti della prima metà dell’Ottocento dedusse un’agghiacciante previsione del mondo futuro: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua. Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l’unico agente, l’unico arbitro. Provvede alla loro sicurezza, ai loro bisogni, facilita i loro piaceri, dirige gli affari, le industrie, regola le successioni, divide le eredità: non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?”
L’idea di raggiungere il comunismo, stadio finale della felicità umana, attraverso il divieto dell’eredità non fu di Marx ma di Michail Bakunin. Da buon russo, il padre dell’anarchismo pensava ai contadini, la maggioranza stragrande dei suoi connazionali, ed era consapevole, come dimostrò la rivoluzione mezzo secolo dopo, che nessuno avrebbe difeso la proprietà più dei contadini. La sua idea, come quella del suo amico Aleksandr Herzen, padre del populismo, era di incorporare la proprietà privata contadina nelle forme tradizionali di proprietà comune in Russia, la mir e l’obscina. Il problema dell’agricoltura russa, ben compreso da Piotr Stolypin, ministro all’inizio del secolo XX – uno dei modelli di Vladimir Putin, inviso per il suo riformismo agli ambienti finanziari, ai latifondisti non meno che ai comunisti – era la bassa produttività, poiché i lotti di terreno venivano assegnati annualmente dalle comunità rurali e non vi era alcun incentivo a migliorare ciò di cui l’anno successivo avrebbe beneficiato qualcun altro. Con una cauta, ma intelligente privatizzazione, la produttività aumentò.
Stolypin pagò con la vita i suoi successi, ucciso da un fanatico comunista, forse armato dai latifondisti. Prese atto della realtà, dopo le convulsioni rivoluzionarie, Vladimir Lenin, con la NEP (nuova politica economica) avviata nel 1921, un misto di libero mercato in agricoltura e nel piccolo commercio pur entro la rigida pianificazione economica comunista. Dopo la morte di Lenin, Stalin tornò a un’economia statalista in cui la proprietà privata scomparve del tutto. Bakunin, mezzo secolo prima, non pensava a forme comunitarie definitive di proprietà, come Herzen, ma al modo più mite per i contadini di accettare il comunismo o, almeno, di non opporvisi frontalmente, perché in quel caso la lotta sarebbe stata mortale, con la probabile sconfitta della rivoluzione. Pensò che potesse essere mantenuta la proprietà privata sino alla morte dell’intestatario, lasciando l’appropriazione allo Stato, o, nella concezione anarchica di Bakunin, alla collettività, per le generazioni successive. Era un modo più benevolo e astuto di porre la stessa domanda di Marx: accettare la proprietà privata o combatterla.
La storia del comunismo reale è quella delle rapine e degli omicidi per realizzare il collettivismo: nessuno rinuncia volontariamente alla proprietà. Nicolàs Gòmez Dàvila scrisse che in caso di vittoria comunista, la lotta si sarebbe scatenata sull’usufrutto dei beni di proprietà statale. Ma tutte queste sono storie vecchie, legate all’uomo di ieri. Per l’homo davosensis del Grande Reset, la prospettiva è assai più allettante: non avrai nulla e sarai felice. La completa digitalizzazione della vita toglierà il denaro dalle sue tasche: in cambio avrà un reddito universale di sopravvivenza per evitare disordini e malcontento. La società senza lavoro, tra robot, intelligenza artificiale, tecnologie della quarta rivoluzione industriale, renderà superflua l’esistenza in vita di masse umane. Meglio concentrare la proprietà in poche mani forti e sicure, quelle dell’oligarchia e restaurare il feudalesimo. Tutto sarà di proprietà del padrone, gli altri si appagheranno del cibo somministrato a orari stabiliti, dell’abbonamento alle serie televisive, e il resto potranno agevolmente noleggiarlo. Il mondo a misura di Uber e Airbnb.
Basterà la magica card e avere credito. Se saremo stati buoni sudditi, ci forniranno quanto richiesto. Perché impegnarsi, perché costruire qualcosa di proprio e pretendere di lasciarlo in eredità ai figli, se ci saranno? Disse Groucho Marx, che talvolta superava in filosofia il suo omonimo del Capitale: che cosa hanno fatto per me i posteri? La perfetta società capovolta, con buona pace dello stupido comunismo di ieri in cui nessuno aveva nulla, ma in cambio gli era garantito un tetto (in comune) e un’occupazione. Nel dorato mondo di Davos, dei filantropi e di Tecnopolis, non avremo nulla, non saremo nulla, ma potremo prendere in affitto ciò che ci deve piacere secondo il Dominio, dalle 17 alle 20 o per un giorno intero, se il credito residuo lo consente. La differenza rispetto al comunismo per l’uomo comune si riduce a una variante cromatica: colore grigio uniforme per il collettivismo di Stato, arcobaleno accecante per il capitalismo privato. Una forma sopraffina di nichilismo di massa.
La proprietà privata non va mantenuta, difesa e diffusa tra il maggior numero di esseri umani come fatto naturale, istinto primordiale dell’essere umano. Forse lo è, forse no: di sicuro è un potente fattore di emancipazione, di indipendenza, di libertà, di responsabilità e di partecipazione alla polis. Solo chi vive del proprio, chi ha obiettivi, chi vuole costruire qualcosa di durevole ha un vero progetto di vita e intende trasmettere qualcosa ai figli e ai posteri. La proprietà dell’abitazione, di un terreno coltivato, di un’attività economica, o semplicemente di ciò che ci piace e ci riempie la vita è il più grande incentivo per un’esistenza morale, per osservare le norme civili e lasciare un’impronta, una traccia nel mondo. La proprietà va estesa al massimo, il suo godimento deve essere intangibile e ognuno deve poterla trasmettere ai suoi discendenti o a chi sceglie. Giusto pagare una ragionevole imposta, ma nulla che equivalga al furto differito.
Anche in assenza di un espropriazione vera e propria, chi si impegnerà ad acquistare una casa, un terreno, chi vorrà avviare un’attività economica, se saprà di non poterne godere fino in fondo e di non poterla cedere, donare o lasciare in eredità, se non un essere già espropriato di se stesso? Chi ha qualcosa tenderà a disfarsene nell’unico modo fruttuoso: venderà la nuda proprietà mantenendo, a discrezione dell’acquirente, l’uso o l’usufrutto. I pochi che già possiedono quasi tutto, diventeranno in poco tempo e senza colpo ferire padroni universali: il denaro lo creano loro con un clic sul server delle loro banche centrali! La generazione successiva, colpita e affondata, non avrà nulla e sarà felice in quanto non più composta da uomini, ma da animali addestrati, nomadi della vita, cani di Pavlov che hanno imparato a sbavare al suono della campanella, annuncio della distribuzione del cibo.
Stiamone certi: la legge francese – e le elucubrazioni dell’Agenda 2030 – non riguardano lorsignori. La cupola, i super ricchi, gli stakeholders, rimarranno tali: hanno inventato la persona giuridica, la società anonima, la responsabilità limitata. Tutto ciò non cade in successione, tanto meno è colpito dalle tasse: la banda dei Robin Hood alla rovescia fa le cose per bene, tra paradisi fiscali, holding, trust, deterritorializzazione. I padroni del denaro, della tecnologia, dell’industria e della finanza sono come i componenti di una staffetta: si passano il testimone e corrono veloci al traguardo. A noi è prescritta una vita da atomi connessi agli apparati artificiali. Generazioni che non avranno nulla, senza fratelli, puntini tra la folla solitaria che non lasceranno ai posteri nemmeno gli affetti, per i quali la vita sarà stata un baleno senza senso, lo “Strano interludio” del dramma di Eugene O’Neill. Non avrai né lascerai eredità – morale, spirituale, materiale – e sarai felice. Anche l’animale dopo il pasto.
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