Quando, nell’autunno del 1963, mi iscrissi all’Università, facoltà di filosofia, era ancora in atto la festa della matricola, sebbene si notassero i segni della sua crisi, la disaffezione di molti studenti, le premesse di quel vento dei cambiamenti che, pochi anni dopo, soffiò con l’illusione di tutto mutare. Forse si estinsero dei dinosauri, ma la loro ombra perdurò e, al suo riparo, nuovi mostri si generarono… Intanto, sotto il bel sole delle ottobrate romane, si dava caccia alle matricole, s’imponeva loro di versare pegno, si stilavano i papiri, soprattutto ‘fagiolate’ (trappole agli iscritti del secondo anno, costretti a pagare caffè e bibite al bar di viale Margherita) con relative penitenze, alcune fantasiose in stile goliardico altre solo perverse. Ricordo come ad un penitente riottoso furono tolti giacca e pantaloni, appesi ai tram in movimento e in senso opposto, lasciato democraticamente libero di inseguire o l’una o gli altri… Ed anch’io ebbi il battesimo con l’acqua della fontana della Minerva (ripetei il rito quando mio figlio Emanuele si laureò e si sottopose suo malgrado e sforzandosi di stare al gioco) e acquistai, con una ‘cartata’ di paste al cioccolato e alla crema, il papiro che appunto portava, simile a ceralacca, uno sberleffo di crema.
Disegni di donnine dalle grandi tette, procaci e voraci di uomini dal fallo smisurato, con la firma dei goliardi anziani e fuori corso e, rara, quella del pontifex maximus (allora l’ambito titolo era nelle salde mani di uno studente calabrese iscritto a medicina che, dismessa la divisa del vanesio, divenne nostro responsabile e, successivamente, mio medico di base), battute da trivio e motti in un latino, latino maccheronico ed assai azzardato. Fra questi ultimi ne ricordo uno solo ‘noli mingere contra ventos’. Ci si accontentava di poco, in contraddizione con idee che ci impegnavano a divenire adulti ed altri. (Era un universo ancora legato a ondate ormonali, molte delle quali si risolvevano in solitudine, con il monito che facevano male al cuore e alla vista; di militari e servette che si scrutavano si cercavano il giovedì pomeriggio e si strofinavano al buio di modesti cinema parrocchiali; di ragazze di ‘buona’ famiglia – fra costoro le mie tre sorelle, ad esempio, – che imparavano a ballare in scuole del Centro sotto l’occhio vigile di madri sospettose).
Non pisciare contro il vento, già… La fila di tifosi olandesi contro i muri nei dintorni di piazza di Spagna dopo aver devastato la Barcaccia del Bernini, al Pantheon e in Campo di Fiori, mentre i ‘vespasiani’ troneggiavano prima che, per decoro urbano, venissero tolti alla vista e all’uso liberatorio, immortalati dal grande Antonio de Curtis in una memorabile sequenza di Totò truffa. Oggi, timidamente, le incontinenti vittime dell’età e della prostata ingrossata, fingono di sorseggiare un caffè e corrono lesti alla toilette del bar. Poi dicono che il caffè rende nervosi… E, magari, trovare il cesso occupato o guasto!
(Del caffè iniziai il consumo a Regina Coeli, primi mesi del ’70. Ero da poco passato dalle celle d’isolamento di ‘Villa Triste’ al 2° braccio e dovevo adattarmi alla compagnia degli altri, nell’ora d’aria, avanti e indietro e ancora avanti e indietro, in un cortile destinato ad una quarantina di detenuti e che ne doveva pigiare un centinaio. Tutti erano curiosi di conoscere il ‘bombarolo’, lo studente, di cui i giornali si adoperavano a dire tutto il male possibile e oltre. Molti mi fermavano, magari per chiedere di scrivere loro una lettera alla moglie o alla puttana, per offrirmi una sigaretta e l’unica vera merce di scambio, appunto un caffè. Ed io a rifiutare, cortesemente, ma pur sempre dicendo ad ognuno di no. In cortile avevo conosciuto l’ultimo della banda Giuliano, grande e grosso, sempre con una maglia nera a girocollo, primo utile persuasivo maestro del corretto comportamento da assumere in carcere, di quelle leggi non scritte ma ferree, di cui ero sprovveduto e ignaro. E fu lui a consigliarmi di accettare il caffè, spiegandomi che qualcuno l’aveva a male, supponendo come, da borghese, avessi la puzza al naso. E aggiunse, in modo inequivocabile, che magari a qualcuno passava a mente di sanare l’offesa facendomi uno sgarro con il manico del cucchiaio reso affilato levigandolo alle sbarre della finestra. Capii che era meglio essere nervoso che sfregiato…).
Parentesi, di cui sono abituati i miei estimatori, che oramai sanno che molti di questi articoli sono ‘atti di adorazione’ (titolo di una raccolta di racconti brevi di Mishima) verso il soggetto che scrive e si narra. Vi prego solo di non confonderli con il vomitio sul lettino dello psicanalista…
Giamblico di Calcide, vissuto a cavallo tra il secondo e il terzo secolo D.C. fu filosofo di origine siriaca, dove aprì ad Apamea una scuola si studi neoplatonici, accentuando il divario tra l’anima e il corpo. Partecipò alla tendenza del tempo di ridurre, ad unità organiche e in armonia gerarchica, le componenti della filosofia e del loro subordinarsi alla teurgia, atto sommo del conoscere (ciò spiega la cura con cui Marsilio Ficino ne tradusse gli scritti per poi trarne insegnamento in età umanistica). Grande fu la sua fama e di lui ebbe ad intessere lode Giuliano imperatore (noto fra i cristiani come l’Apostata). Fra le varie opere si ricordano i dieci libri sulla vita e il pensiero di Pitagora, che ci forniscono indicazioni regole modelli di comportamento della scuola di Crotone. Fra cui i Simboli che ho ritrovato l’altra notte accanto a I versi d’oro pitagorei con un saggio introduttivo di Julius Evola. E sotto gli occhi mi cade la prescrizione numero quindici ‘Non orinare rivolto al sole’. (Spiegato, dunque, il repentino passare da amenità autobiografiche a dotti riferimenti alla filosofia antica. Una comune esigenza fisiologica…).
La contrapposizione tra le due affermazioni, l’ingiunzione dell’una e dell’altra, appaiono così evidenti, che oserei dire cadono nel banale… come pioggia soggetta agli spruzzi dettati dall’atmosfera così sfuggire al rischio di trovarsi i pantaloni maculati e bagnati. Un rapporto immediato tra causa ed effetto in cui la carne si omologa ai dettami della natura. Al contrario il culto del Sole richiede riti sacri ed eterei, magari risolti con il sacrificio del sangue ed il cuore offerto al dio perché rinnovi la sua presenza sul mondo. Reductio ad Unum come si rilevava nel Medio Evo. La luce emanata dal sole, i suoi raggi, sono come gradini di una scala, ora discendente ora ascendente e l’essere prossimi o distanti dalla fonte primaria fa la differenza, rende le gerarchie nobili e consolidate. Pitagora l’intese in questo modo? Temette di offendere l’Uno da cui tutto si diparte e a cui tutto aspira? In fondo, a ben guardare, l’avversità che manifestò verso le fave (si narra come preferisse la morte per mano nemica che nascondersi in un loro campo) risponde al medesimo dettato se, nel linguaggio pittoresco e plebeo, vengono omologati… Oppure, ma le citazioni potrebbero essere a iosa, quanto scrive Otto Weininger (Delle cose ultime), questa figura inquieta di giovane ebreo, morto suicida a ventitre anni (gli stessi anni di un altro suicida, anch’egli giovane ebreo e a me caro, Carlo Michelstaedter): ‘l’uomo è debole ed immaturo al punto che non può neppure fissare il sole’.
E se provassimo a rovesciare il sacro ed il profano? Terreno ardito e scivoloso… eppure è proprio questo il compito, pensava Drieu la Rochelle, dell’intellettuale (mi si dirà piccolo borghese, falsamente eretico, in sé arrogante e presuntuoso), andare là dove ancora nessuno s’è collocato. Prime forme, oscure e primitive, di religiosità le rocce i massi erratici le pietre rivolte verso (o contro?) il cielo, erette dalla natura e intese quali stabili erezioni. Il sole feconda la terra, l’uomo la donna. L’India Vedica ed Arya, il kama-sutra le sculture del tempio di Devi Jagadambara a Khajuraho. Un paese sterile e impotente – la civiltà dell’opulenza – destinato all’estinzione nella sua originaria forma identitaria. Sesso libero ed estremo, attuazione di sogni proibiti, in ‘amore’ tutto è lecito, appagamento dei desideri i più sfrenati – come sottrarsi e perché doversi sottrarre al loro richiamo? -, ci penserà il tempo e l’anagrafe. Qui ed ora sta l’eterno. Nell’orgasmo e nella eiaculazione l’urlo e le lacrime, rivolta libertaria e appagamento nella vittoria. Orinare evitando il vento, non soltanto un banale accorgimento, ma il riconoscersi parte integrante integrata e ‘sacra’ della natura…
Tutte le cose sono dei, pensava il savio Talete, nella luminosità e dal calore del sole riscaldate o solo vaganti nel nulla simili a vaghe e pallide ombre di sogno. Blowin’in the wind, cantava Bob Dylan a tempi della mia inquieta e irriverente giovinezza. Questa volta, è proprio il caso di dirlo, ho pisciato fuori dal vaso? Dopo il tentativo di suicidio nell’agosto del ’44, s’era rifugiato in una sorta di terra di confine tra la vita e la morte, precluso al mondo e in attesa di quel totale donarsi all’Essere di cui solo i mistici conoscono l’accesso. Sulla scrivania la traduzione delle Upanishad, esile voce a confortarne i giorni estremi. Così Drieu la Rochelle fino a quel 16 marzo del ’45. Dalla Chandogya-upanishad, terza lettura: ‘è questo atman dentro il mio cuore, che è più piccolo di un grano di riso, di un grano di orzo, di un grano di senape, di un grano di miglio… questo stesso Sé che è dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio, più grande del cielo…’. Insomma in questo nostro corpo è racchiuso l’inizio la fine e il destino del mondo.
Lasciatemi, dunque, pisciare rivolto verso il sole e non contro il vento… Eppure Fedor Dostoevskij, che ha saputo scavare nell’animo umano forse ben più – mi turba ammetterlo – del mio amico Nietzsche, ne I fratelli Karamazov fa dire ad Ivan, accusato e portato in prigione, che lo possono racchiudere nella cella più buia e profonda, ma egli, pur non potendo beneficiare della luce e del calore, sa che vi è il sole…
Mario Michele Merlino
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