12 Ottobre 2024
Attualità Enrico Desii Europa

Normativa europea ed applicazione italiana. Un esempio significativo.

Di Enrico Desii

Dunque l’elettore italiano e quello europeo hanno espresso le loro scelte in questa ennesima kermesse elettorale. Mi guardo bene dall’addentrarmi in futili disquisizioni su chi le ha vinte, chi le ha perse e chi le ha pareggiate. Noto soltanto che siamo rimasti un paese a maggioranza europeista: sono, infatti, assai poco convinto delle reali velleità anti-Ue dei pentastellati, vista, ad esempio, la loro ambigua posizione in materia di immigrazione. Ma anche su quelle forze politiche di altri paesi apparentemente contrarie all’attuale modo di intendere l’Unione, sospenderei il giudizio ed i facili entusiasmi in attesa dei fatti. In ogni caso la sintesi non sarà semplice, viste le notevoli divergenze di fondo.
In Italia, comunque, si può rilevare che il popolo sostiene le scelte effettuate dal suo apparato politico-burocratico. Considerazioni che dovrebbero confortare non poco quest’ultimo.
Uscendo, senza nemmeno esserci entrati, dal commento su questi ludi cartacei, non possiamo fare a meno di riflettere. L’Unione europea sicuramente non ci ha trattato bene in alcuni casi. Altrettanto certamente la potestà legislativa statale è ormai un ricordo in molte materie dal momento che, a colpi di regolamenti e di direttive comunitarie sempre più self-executing, si sta definitivamente estirpando la sovranità degli stati membri. Tutto questo è indiscutibile. Ma noi abbiamo accettato un po’ di tutto in maniera assurda, come al momento (giugno 2013) della sottoscrizione dell’accordo Dublino 2 in materia di immigrazione illegale. Tale protocollo prevede che debba essere il paese di “primo approdo” a farsi carico delle necessità dell’immigrato illegale, dalla prima assistenza sanitaria all’eventuale concessione dello status di rifugiato, mentre gli altri membri dell’unione possono essere coinvolti soltanto su base volontaria. E poi, non contenti, ci siamo pure inventati l’operazione mare nostrum…che tristezza usare il latino a questi fini.
E quando le norme europee ti lascerebbero le possibilità di uscita, nel nostro sistema ci sono pronti i soliti servi sciocchi che hanno completamente dimenticato l’interesse nazionale.
Permettetemi di fare un esempio concreto rimanendo nella stessa materia. Nei giorni scorsi scorrevo una rassegna della recente giurisprudenza del Consiglio di Stato. Vi ho trovato diverse interessanti pronunce del 2013 e del 2014.
In astratto dovrebbe apparire normale che, se una persona di origine extracomunitaria viene condannata per reati abbastanza gravi come lo sfruttamento della prostituzione, lo spaccio, di stupefacenti, l’immigrazione clandestina e, addirittura la violenza carnale, la questura competente proceda a revocare o rifiuti di rinnovare il permesso di soggiorno. Tenendo presente che, in una delle fattispecie citate, il soggetto, in occasione dell’arresto, aveva anche tentato di investire gli agenti di polizia.
Invece, in concreto, le cose ultimamente non vanno così, anche se non lo dicono in televisione e non lo scrivono sui giornali. Per saperlo occorre , come accennavo, andare a leggere le sentenze amministrative, attività giustamente poco diffusa.
Per farla breve e non addentrarsi troppo in complicate questioni giuridiche, la faccenda ruota intorno all’interpretazione dell’articolo 5, comma 5, del testo unico che disciplina l’immigrazione e la condizione dello straniero, vale a dire il decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. In sostanza, la norma impone all’autorità amministrativa che si occupa della revoca o del rifiuto del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare di tener conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo paese di origine.
L’argomento è stato anche recentemente esaminato dalla Corte costituzionale che, nella sentenza 3 luglio 2013, n. 202, ha ritenuto incostituzionale, alla luce della tutela assicurata ai minori ed alla famiglia dalla nostra carta fondamentale, la norma in questione, nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale da quella prevista si applichi solo allo straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare e non anche allo straniero che abbia legami familiari nel territorio dello Stato. In sostanza è stata imposta un’interpretazione della disposizione ancor più estensiva.
Ecco dunque il punto fondamentale. Basta che il delinquente “abbia famiglia” (d’altronde, ammettiamolo, quante volte gli italiani stessi fanno ricorso a questa magica formula…) che l’autorità di polizia non può più vietargli la permanenza sul nostro territorio. Ogni considerazione relativa alla pubblica sicurezza, vale a dire ad un interesse pubblico una volta ritenuto fondamentale e prevalente, oggi deve confrontarsi e, molto probabilmente, risultare recessiva rispetto ad un interesse di natura eminentemente “privatistica”, quello all’unità del proprio nucleo familiare. Naturalmente anche se si tratta di una famiglia che il colpevole mantiene con i proventi di reati che non possono essere considerati bagatellari.
A questo punto anche i più feroci critici dell’Unione europea si chiederanno che colpa abbia quest’ultima di questa assurda situazione. Diciamo che i tecnici di Bruxelles hanno sicuramente inviato un impulso significativo ma il legislatore ed i giudici italiani ci hanno messo parecchio del loro.
Ebbene, sia la norma del testo unico italiano che le interpretazioni del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale, si basano su una quanto mai dettagliata direttiva del Consiglio dell’Unione europea, la 2003/86/CE. Tra le numerose e assai retoriche premesse della medesima, mi limito a riportare che, a detta del legislatore comunitario, “il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare. Esso contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l’integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo d’altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità, enunciato nel trattato” (numero 4). Belle parole, sicuramente.
< br />Ma, al numero 14 delle medesime premesse, si può pur sempre leggere che “la riunificazione familiare può essere rifiutata per motivi debitamente giustificati. In particolare la persona che desideri ottenere la riunificazione della famiglia non dovrebbe costituire una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza interna. Nella nozione di ordine pubblico può rientrare una condanna per aver commesso un reato grave”.
E allora, come si spiega che né il nostro legislatore né i giudici italiani abbiano pensato a tener conto di questa possibilità di tutela offerta dalla direttiva, come farebbe ogni persona di buon senso? O sono dilettanti o sono prezzolati. Fate voi.

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