Il testo giapponese più antico di narrativa è il Kojiki. Questa raccolta parastoriografica fu messa per iscritto quando venne fondata la città di Nara. Prima di Heijōkyō (l’attuale Nara) il Giappone non aveva una capitale: quando un sovrano moriva il suo palazzo veniva raso al suolo in quanto segnato dalla impurità della morte e il sovrano successivo si sceglieva un altro luogo. Invece con Nara il paese trovava definitivamente il suo centro: la città comunicava il messaggio di un nuovo grande inizio. Però Nara fu capitale del Giappone solo dal 710 al 794 d.C. Nondimeno il disegno di una capitale stabile si era definitivamente concretizzato e fu ripreso quando venne costruita Heiankyō (l’attuale Kyōto), destinata ad essere la capitale per undici secoli, fino al 1868, quando subentrò Tōkyō, segno di un’altra svolta epocale, l’apertura del Giappone all’Occidente. Ma la costruzione di Nara e la concomitante messa per iscritto delle cronache del Giappone fu un qualcosa che noi occidentali del XXI secolo non possiamo del tutto capire. Come la nuova capitale voleva riorganizzare lo spazio, così la narrativa voleva riorganizzare il tempo. Controllare la forza della parola scritta (narrazione storica con qualche poesia) contro la tradizione orale significava avere il potere sulla storia. Raveri: “Scrivere permetteva di rielaborare selettivamente il passato, di fissare la memoria di certi eventi e renderli paradigmatici – come anche di negarli e sancirne l’oblio – per costruire il senso di una identità nuova per il futuro”.
Il Kojiki è l’opera giapponese più antica che esista. Nella prima parte troviamo molte informazioni sulla mitologia. Diventa il testo fondamentale dello shintoismo. Poiché tutto nasce dal bisogno di legittimare il potere di Yamato si finisce per dire che in realtà l’imperatore aveva discendenza diretta dalla dea del Sole Amaterasu. Fino al 1946 i giapponesi hanno voluto credere, che effettivamente l’imperatore fosse una persona sacra perché discendeva da Amaterasu. Nel 710 i giapponesi parlavano ma non scrivevano, non sentivano l’esigenza di scrivere la propria lingua, perché tutti gli atti che erano redatti (per esigenza) erano politici e venivano scritti in cinese. Quando si è sentita l’esigenza di scrivere un testo che legittimasse un potere prettamente giapponese il cinese non viene reputata più una lingua adatta a questo scopo, sarebbe stato un controsenso perché si stava formando un nuovo stato ed esprimerlo in una lingua non propria sarebbe stato un segno di debolezza. Il compilatore Ō no Yasumaru scrive l’introduzione dell’opera in cinese, dando anche l’informazione su come si è regolato nell’uso delle lingue. Egli adatta la lingua giapponese alla scrittura cinese. Gli ideogrammi cinesi venivano usati soltanto per il valore semantico, ma alcuni invece vengono usati solo in senso fonetico, per cercare di avvicinarsi il più possibile a parole “giapponesi”. Gli ideogrammi cinesi venivano usati solo per il loro valore fonetico nelle 112 poesie giapponesi contenute nel Kojiki. Motoori Norinaga (1730 – 1801), in 35 anni di lavoro completerà il Kojikiden, un lavoro decodificatore del Kojiki per far capire il contenuto e quello che c’è scritto nel Kojiki (sosteneva che tutto quello che c’era scritto nel Kojiki era una verità scritta).
Le fonti del Kojiki sono:
- Cronache imperiali (teiki)
- Detti fondamentali (honji)
- Cronache scritte nel 620 da Shōtoku Taishi.
Il Kojiki inizia con queste parole:
“Al tempo dell’inizio del cielo e della terra:
i nomi degli dei che ebbero origine nell’alta pianura del cielo:
il dio Ame-no-mi-naka-nushi;
poi il dio Taka-mi-mu-su-bi;
poi il dio Kami-mu-su-bi.
Questi tre pilastri di dei, tutti, ebbero origine come dei unici, e nascosero il corpo”.
Tutto ebbe origine da questi tre dei, i quali crearono altre divinità le quali per atto sessuale posero le basi di tutto il creato. Quindi a quel tempo il cielo e la terra ancora non erano stati formati, ma tutto era come un uovo, senza alcuna differenziazione. Dal bianco del caos originario sorse il cielo, mentre dal duro (il pesante) sorse la terra. La menzione dei due cieli richiama la polarità cinese Yin-Yang, che in giapponese è detta in-yo.
In giapponese “dio” è detto kami, che non indica il Dio unico cristiano, bensì in genere una entità che può far bene o può far male, come far vincere una guerra o determinare una catastrofe. Quindi kami può riferirsi anche allo spirito di un defunto, il quale dall’oltretomba determina il destino di singoli e comunità.
Il cielo è visto come una pianura, perché era immaginato come un paese o un luogo qualunque di questa terra, quindi anche come un fiume, qualche monte, delle risaie, dei pozzi.
Secondo una interpretazione, il primo dio nominato (Ame-no-mi-naka-nushi) sarebbe la essenza divina, il dio inteso in senso assoluto, l’essenza divina; gli altri due indicherebbero la sua forza creatrice, le sue operazioni creatrici. Infatti nel primo dio non c’è alcun ideogramma che indichi l’operare, mentre il secondo e il terzo dio dimostrano di essere la creazione divinizzata. Gli dei creatori sono i due che seguono (Taka-mi-mu-su-bi, Kami-mu-su-bi), secondo la polarità cinese Yin-Yang, Femminile-Maschile.
Gli dei sono detti pilastri in quanto sin dall’origine le divinità non si mostrano direttamente alla venerazione dei fedeli, ma manifestano la loro presenza attraverso colonne nel tempio, e prima ancora, attraverso un albero, un sasso, un boschetto. Due alberi erano due dei, e così via.
I kami giapponesi, venerati dalla religione autoctona detta shintoismo, non sono del tutto trascendenti né del tutto immanenti. In ogni modo il concetto di kami non ha paralleli con quelli occidentali di “divinità”.
È quindi diverso anche da quello orientale di Dio unico che proviene dall’ebraismo e che ha fatto proprio il cristianesimo e dopo di questo l’Islam. Per l’ebraismo Dio è Qadosh, Santo, termine ebraico che etimologicamente vuol dire “separato” dal mondo dei terrestri. Invece il cristianesimo annuncia l’Emmanel, che in ebraico vuol dire Dio-con-noi: è Gesù Cristo, l’Uomo Dio, che è sceso dai cieli per salvare l’umanità. Incarnato nel seno della Vergine Maria duemila anni fa per opera dello Spirito Santo in Palestina, è morto in croce per redimere l’umanità e dopo tre giorni è risorto da morte, salito dove sta Dio per prepararci un posto.
Dopo la morte di Cristo, i discepoli erano chiusi nel Cenacolo per timore dei giudei. Cristo apparve loro da risorto e donò lo Spirito. Quindi il Cenacolo è il luogo nel quale si forma la chiesa, mediante la effusione dello Spirito Santo. Prima di questo evento il Cenacolo era stato il luogo dell’Ultima Cena, quando Gesù nel dipartirsi dai suoi, dice che il pane e il vino sono il suo corpo e il suo sangue, istituendo in questa maniera la Santissima Eucaristia. In seguito, dopo 50 giorni, il Cenacolo è anche il luogo della Pentecoste, quando lo Spirito discende su Maria e gli apostoli, determinando l’inizio della evangelizzazione: gli apostoli escono dal Cenacolo pieni di Spirito e iniziano a diffondere il messaggio evangelico, che così arriva fino a noi.
Il Cenacolo si trova sul monte Sion, oggi ancora si può visitare. Viene chiamato così dalla parola latina coenaculum, “luogo dove si cena”, che traduce due termini greci: infatti Marco e Luca lo chiamano anagaion, “sala superiore”, invece negli Atti è detto uperōon, “luogo superiore”.
Leggiamo le apparizioni di Cristo nel Cenacolo:
Giovanni 20: “19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21 Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». 22 Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; 23 a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
24 Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25 Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò».
26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 27 Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». 28 Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29 Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
30 Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. 31 Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome”.
“Il primo giorno della settimana” è nell’originale greco tēi miai sabbatōn, letteralmente “il (giorno) uno dei Sabati”, vale a dire: il primo giorno dei Sabati. È una espressione evocativa, innanzitutto perché Gesù è risorto il giorno dopo il sabato, poi perché viene Cristo a compiere lo Shabbat messianico, cioè il riposo messianico, nel quale si aspetta la venuta del Messia.
Bisogna considerare che Giovanni inizia il suo vangelo con questa espressione greca: en archēi, “in principio”, la stessa dell’inizio della Genesi, il primo libro della Bibbia, che si apre con la creazione del mondo. L’incipit della Genesi è in ebraico be-reshit, che si può tradurre “nel principio”. Giovanni, quindi, richiama quella prima creazione che culmina con lo Shabbat ebraico: adesso è Cristo lo Shabbat, il Messia che dona la pace messianica, quindi anche il riposo del sabato.
“Mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei”: sin dall’antichità la tradizione identifica questo luogo nel Cenacolo, ma ci sarebbero anche altre opzioni. Comunque sia è nel Cenacolo che la Messa è stata celebrata ininterrottamente dal I secolo al 1551 proprio per i molti motivi che rendono il Cenacolo il cuore della chiesa (anno in cui questo luogo fu sottratto ai cristiani, cioè ai francescani). Sant’Epifanio che era stato a Gerusalemme riferiva che alla visita dell’Imperatore Adriano (135) Gerusalemme era devastata per via della distruzione di Tito (70), ad eccezione di poche case, tra le quali la piccola chiesa eretta sul luogo dove gli apostoli avevano atteso la Pentecoste. Prima di Sant’Epifanio, vari testimoni ci parlano del Cenacolo, tra cui San Cirillo di Gerusalemme, San Girolamo, e così via. Tanto che nel IV secolo il vescovo Giovanni erige sul Cenacolo una basilica (Santa Sion), distrutta poi dai persiani nel 614; essa venne nuovamente eretta da Modesto, poi parzialmente distrutta dai musulmani, e in seguito eretta di nuovo dai crociati (La Madre di tutte le Chiese).
Gesù dice: “Pace a voi”, in greco eirenē umin, traduzione a sua volta del saluto ebraico shalom lechem. Il concetto ebraico di shalom è molto più esteso del concetto greco e nostro di “pace”. La radice ebraica indica qualcosa di assolutamente integro, quindi non solo la assenza di guerra, ma la pienezza, l’abbondanza di vita, totale felicità. “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” (Salmo 22). È la pace messianica, la totale soddisfazione, la felicità in maniera assoluta, quanto di armonioso e bello possa capitare. Per i cristiani la pace messianica viene con Cristo risorto. “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non quella che vi dà il mondo” (Giovanni 14, 27). È Gesù stesso la pace messianica (“Egli, infatti, è la nostra pace”, Efesini 2, 14).
Proprio perché Gesù vince il peccato e la morte donando la salvezza ai battezzati. Per questo i Padri della chiesa testimoniano che durante i giorni che separavano la Pasqua dalla Pentecoste era proibito essere in lutto e anche inginocchiarsi, bisognava stare in piedi. Cristo risorto “stette in mezzo a loro”, estē eis to meson, dove il verbo greco (istēmi) significa letteralmente “stare in piedi”. Un suo derivato, anistēmi, è il verbo tecnico della risurrezione come “alzarsi”. Le Odi di Salomone dicono: “Il mio stare eretto è legno innalzato”, cioè è la croce gloriosa. Giovanni nell’Apocalisse vede un Agnello immolato ma in piedi, cioè già risorto, già vittorioso.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”: Gesù si manifesta risorto, cioè con un corpo glorificato, ma ha i segni delle piaghe. Adesso si entra nell’aldilà con l’anima, ma alla fine dei tempi tutti risorgeremo nella nostra corporeità, ma si tratta di un corpo trasformato in modo glorioso (è questa la risurrezione della carne). In questo momento solo Cristo e Maria sono risorti. Ma perché Cristo appare con le piaghe? Certamente per mostrare che è proprio Lui: colui che è risorto è colui che è stato crocifisso.
Ma c’è anche un’altra ragione. Isaia 49, 13 ss: “Giubilate, o cieli; rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha pietà dei suoi miseri. Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato». Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherei mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me”. Il Signore consola il suo popolo: il verbo ebraico è nacham, termine messianico, il Messia infatti era detto nella tradizione ebraica il Menachem, il Consolatore. Il riferimento a Sion è forse una profezia del Cenacolo, che sta sul monte Sion, e Sion è anche il nome di Gerusalemme; una volta il Cenacolo era all’interno delle mura, adesso è fuori, in quanto le mura sono state ricostruite da Solimano il Magnifico nel XVI secolo. Gli apostoli si sono sentiti abbandonati, come fossero orfani. Il riferimento agli orfani è quanto Cristo aveva detto prima di dipartire: Non vi lascerò orfani, ma vi manderò il Consolatore. Gesù si commuove spesso in maniera viscerale, come una madre, gli evangelisti usano il verbo splanchizesthai, che deriva dal greco ta splancha, cioè “le viscere”, traduzione dell’ebraico rachamim, “misericordia”, letteralmente “viscere materne”. Le piaghe di Cristo, che egli mostra ai discepoli, sono il segno indelebile dell’amore di Dio per il mondo intero. Egli mostra quanto ama l’essere umano. Egli non è venuto a condannare il mondo ma a salvarlo. Guardiamo più in profondità il testo di Isaia: “disegnare”. Isaia usa la radice ebraica Ch-Q-Q, che significa precisamente “scolpire, incidere, tatuare”. È più di un semplice disegnare, qui Isaia profetizza le piaghe di Cristo, quasi fossero incise sui palmi delle mani. Esattamente come avvenne.
Dalla vista delle piaghe di Cristo i discepoli si rallegrano, come a dire che la Pace messianica deriva dalla sofferenza. “Dalle sue piaghe siamo stati guariti” (Isaia 53, 5). Il verbo greco della gioia adoperato da Giovanni è chairō, che indica un rallegrarsi per gioia evidente, come se i discepoli manifestassero alla vista di chi li osserva tutta l’esultanza.
Gesù mostra anche il costato, in greco pleura, che era stato trafitto dalla lancia del soldato romano (Giovanni 19, 34), che la tradizione chiama Longino: dal costato esce sangue e acqua, cioè grazia su grazia (Giovanni 1, 16), che i Padri della chiesa identificano con i sacramenti. Nel greco dell’Antico Testamento (Septuaginta) il termine pleura indica anche il lato del tempio. In Ezechiele 47 si parla del fiume escatologico che esce dal lato del tempio e risana la terra. Questo fiume di acqua viva è Cristo, sorgente viva di sangue e acqua, le grazie che redimono la nostra natura peccatrice.
Questa effusione di grazia è una nuova creazione. Cristo, vero Dio e vero uomo, risana e ricrea il mondo mediante la sua sofferenza. È il mistero della croce, che in Giovanni è intimamente legata alla gloria. Il Risorto mostra ai discepoli il costato, dal quale, durante la crocifissione, uscì sangue e acqua. Nella cultura ebraica il sangue indica la vita, invece l’acqua in Giovanni indica lo Spirito di Dio. nella effusione del sangue e dell’acqua dalla croce Dio dona al mondo intero la vita rinnovata nello Spirito, che si perfeziona nella effusione dello Spirito, dopo la vista del costato, nel Cenacolo e poi, dopo 50 giorni, con la discesa dello Spirito su Maria e gli apostoli il giorno di Pentecoste. Da notare che il Risorto dice “Pace a voi” per ben due volte nel capitolo 20 (vv. 19 e 21), e in Giovanni le ripetizioni non sono mai tautologiche, intendendo sottolineare qualcosa di importante.
La grazia, in greco charis, che evoca etimologicamente uno sfolgorio di luce, è Dio stesso. Essa è lo Spirito di Dio, lo Spirito Santo. La parola greca charis era usata dalla traduzione greca della Septuaginta per tradurre l’ebraico chesed, l’amore di Dio nei confronti delle sue creature. Infatti Giovanni 4 afferma che Dio è Spirito e 1Giovanni 4 che Dio è amore.
Lo Spirito e Gesù sono le due mani del Padre, come dicevano i Padri della chiesa: lo Spirito è l’azione di Dio Padre nella storia, così come Gesù, che è l’incarnazione di Dio.
È lo Spirito che fa la chiesa e non gli uomini che la compongono. La chiesa primitiva era formata da peccatori e increduli, non solo i Dodici ma anche, per esempio, la comunità di Corinto alla quale si rivolgeva Paolo. Nonostante questo, la chiesa si è diffusa in tutto il mondo.
Abbiamo versioni evangeliche che sono ciascuna un grande lavoro redazionale: non la trascrizione esattamente fedele di ciò che Cristo ha fatto o detto, bensì l’interpretazione selettiva della vicenda-Cristo fatta dai testimoni oculari, poi ampliata dalla chiesa primitiva. Gli evangelisti hanno ri-costruito la vicenda-Cristo in maniera simile (Marco, Matteo, Luca, Giovanni) ma da angolature differenti.
Tuttavia, c’è sempre una costante: che il gruppo dei Dodici non fa bella figura. Nel Vangelo di Giovanni il gruppo dei Dodici, del quale Tommaso fa parte, non è mai la esaltazione idilliaca dei discepoli di Cristo ma è il resoconto storico di una comunità in cammino nella fede; quindi, nei Dodici c’è sempre qualche difficoltà. Ciò fa propendere verso l’attendibilità storica dei racconti evangelici, pur con prospettive differenti, per le quali gli elementi storici sono re-interpretati con lo scopo di dimostrare tesi teologiche. Chi scappa, chi si impicca e chi lo rinnega tre volte. I Dodici sono lo specchio di una infedeltà di fondo. Per esempio, alla fine del discorso dei pani, quando il Nazareno propone una lunga trattazione del suo corpo come pane di vita (Giovanni 6), Gesù dice che uno dei Dodici è un diavolo, ed è Giuda Iscariota: pertanto essere parte dei Dodici non significa avere verso Gesù una relazione particolarmente fedele e significativa.
Parlando di Tommaso, dobbiamo far riferimento anche ai vangeli apocrifi (letteratura cristiana non canonica), citiamo ad esempio il Vangelo di Tommaso. Il Vangelo di Tommaso è costituito di 114 loghia (detti di Gesù), risale al II secolo d.C., quindi è successivo ai vangeli canonici. Nel 13° loghion è scritto: “Gesù disse a loro: A chi assomiglio? Pietro rispose: Sei simile a un angelo giusto. Matteo: Sei simile a un filosofo. Tommaso: La mia bocca è assolutamente incapace di dire a chi assomigli. Gesù gli disse: Io non sono il tuo maestro perché tu ti sei inebriato alla fonte gorgogliante che io ti ho indicato. Poi lo prese in disparte e gli disse tre parole. Gli altri chiesero a Tommaso: Cosa ti ha detto? Tommaso rispose: Se lo sapeste, prendereste delle pietre per lapidarmi. E dalle pietre uscirebbe del fuoco e vi brucereste”. Quindi Tommaso è tratteggiato negativamente anche dalla tradizione apocrifa.
Allora non stupisce che nel capitolo 20 Giovanni faccia risaltare l’incredulità di Tommaso. Nonostante che i Dodici siano così “malmessi” nella fede, tanto da avere paura dei giudei non fidandosi di Dio, Gesù rivolge loro un mandato: quello di rimettere i peccati. Questo mandato si inserisce in una dinamica frequente nel Vangelo di Giovanni: dal Padre al Figlio e dal Figlio ai discepoli. “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. “Come”, in greco kathōs, non indica in Giovanni una comparazione, ma andrebbe tradotto “sul fondamento del fatto che il Padre ha mandato me, così anche io mando voi”.
Il mandato di rimettere i peccati, che dalla cerchia dei Dodici si estende ai successori degli apostoli che costituisce la chiesa cattolica, non dipende dalla fede né da una perfezione morale particolare. I Dodici e la chiesa futura non sono formati dai migliori. Non sono persone eccezionali. Ma fanno esperienza del Risorto, il quale infonde su di loro lo Spirito, cosa che li qualifica per la missione. I sacramenti impartiti dalla chiesa non trovano la loro validità nella santità dell’officiante (ex opere operantis) ma nel sacramento stesso (ex opere operato).
È lo Spirito che fa gli apostoli e li rende capaci di annunciare il Regno, non la perfezione individuale. Per questo la chiesa è santa anche se è formata da peccatori.
Giovanni 20 si collega a Genesi 2, 7: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e alitò nelle sue narici uno spirito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. L’originale ebraico è molto più pregnante. Per polvere si intende la polvere superficiale, quella più fine. Il termine tradotto con “essere” vivente è nefesh, che tra i vari significati ha anche quello di “desiderio”. Lo Spirito di Dio (nishmat) conferisce all’uomo la caratteristica di avere un desiderio costante verso la vita, come una forza centrifuga rivolta alla vita e al mondo. Gesù alita sugli apostoli per indicare che Egli è Dio e sta compiendo una nuova creazione. I discepoli, investiti dello Spirito, si animano di un desiderio costante di andare nel mondo per evangelizzare e compiere l’opera divina della salvezza.
Giovanni si collega anche a Ezechiele 37, 7-10: “Io profetizzai come mi era stato ordinato; mentre io profetizzavo, sentii un rumore e vidi un movimento fra le ossa, che si accostavano l’uno all’altro, ciascuno al suo corrispondente. Guardai ed ecco sopra di esse i nervi, la carne cresceva e la pelle le ricopriva, ma non c’era spirito in loro. Egli aggiunse: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano». Io profetizzai come mi aveva comandato e lo spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi; erano un esercito grande, sterminato”.
Lo Spirito rende i peccatori pronti alla missione, conferendo doni assai diversi, come detto da Paolo in 1Corinzi 12, 3-7. San Cirillo di Gerusalemme scriveva: “Una sola sorgente irriga tutto il paradiso. Essa diventa bianca nel giglio, rossa nella rosa e purpurea nelle viole e nei giacinti. Essa non muta in sé stessa ma si adatta alla natura di ognuno. Così anche lo Spirito Santo: pur essendo uno solo e sempre lo stesso, conferisce a ciascuno il carisma che gli conviene”.
È lo Spirito l’anima della chiesa. La chiesa è guidata dallo Spirito, che scrive dritto anche sulle righe storte di noi uomini. Gesù dice a Tommaso letteralmente: “Non diventare incredulo, ma credente”, dove si usa il verbo greco ghignomai, che non è un semplice “essere” (einai), ma un “diventare”, implicando un processo in fieri. Quindi Gesù invita Tommaso a convertirsi mediante l’esperienza del Risorto. Questo vuol dire che i primi ad aver bisogno della conversione sono proprio i Dodici, sono loro i primi “malati” che hanno bisogno del Medico Celeste. Solo dopo, “risanati” dalla grazia, possono “guarire” i fedeli ed essere dei veri pastori.
Bisogna fare anche una osservazione riguardo a “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”: la coppia di contrari è uno stilema semitico (merismo) per il quale si pongono due estremi opposti per evocare tutto quanto sta in mezzo: quindi Giovanni vuole riferirsi alla totalità della misericordia e dei benefici che gli apostoli sono chiamati a portare al mondo da parte di Dio. Per via delle opere dei discepoli si realizza la pace messianica!
In particolar modo il perdono dei peccati, garantito dall’effusione dello Spirito, richiama la prospettiva profetica per la quale lo Spirito purifica Israele. Inoltre, l’uso del passivo (saranno rimessi) indica che è Dio la sorgente della purificazione di Israele dalle sue colpe, operata però per mezzo di uomini, che sono solamente lo strumento dell’azione di Dio.
Il filosofo greco Empedocle diceva che “ogni uomo crede solo in ciò in cui si imbatte”. Per credere in Dio bisogna incontrarlo. Dio fa verso tutti il primo passo, spetta però all’uomo avere l’umiltà di cogliere i segni del Risorto nella propria vita e nella storia, iniziando un cammino di conversione.
Dovunque nasca, ogni uomo della terra conosce in maniera diretta o indiretta un messaggio religioso. È un modo di Dio di manifestarsi. Dio è uno e, in qualunque modo lo si chiami, è sempre Lui che si rivela nelle religioni. Ci sono moltissime religioni, ma Dio ha deciso di ricapitolare tutto in Cristo. Paolo (Efesini 1) scriveva: “3 Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. 4 In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, 5 predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, 6 secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; 7 nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. 8 Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, 9 poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito 10 per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra”.
È possibile che si salvino anche coloro che non sono battezzati, se seguono la legge naturale che Dio ha impreso nei loro cuori. Tuttavia, tale salvezza viene ottenuta per mezzo dei meriti di Gesù Cristo, come insegna la teologia cattolica.
Anche se Dio in Cristo ci ha ottenuto la salvezza, bisogna fare uno sforzo di volontà nell’aderire a Dio o alla legge naturale, che spesso coincide con i precetti generali di ogni religione, più o meno. Sant’Agostino diceva che Dio che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te.
La salvezza richiede l’umiltà di confessare le proprie colpe e di abbandonare la via del peccato, riconoscendo Dio Signore assoluto della propria vita.
Lord Byron in pieno Romanticismo cantava la figura di Manfred, il quale per amore della libertà decise di non sottomettersi a nessun credo, nemmeno in punto di morte, rifiutando sia vari culti spirituali sia la “tentazione della redenzione”, concessa da un prete.
Questa libertà spinta all’estremo è il primo male dell’umanità, quello dei progenitori che per superbia non vollero riconoscere la signoria di Dio, anzi decisero di essere come Lui, mangiando il frutto dell’albero proibito.
Noi siamo figli di Dio, il quale ci ha creato. La vera pace sta nell’affidarci a Qualcuno che ci ama davvero, tanto da dare la propria vita per noi. L’umanità non troverà la vera pace fino a quando non si affiderà al Cuore misericordioso di Gesù.
Pressoché tutte le religioni riconoscono che al principio vi fu un atto divino che pose inizio al mondo. Il Kojiki parla di tre divinità, simbolo di un’unica sostanza divina in azione. La Genesi parla del Dio unico, ripreso dal cristianesimo e dall’Islam. Prima ancora, ammettono una creazione induismo, religioni mesopotamiche, religione egiziana, zoroastrismo.
Non tutte le religioni ammettono una creazione, come il taoismo, per il quale il mondo è costituito di cicli eterni, analogamente al buddhismo e ai culti e filosofie greco-romani. Il taoismo è uno dei capitoli della riflessione cinese, accanto al confucianesimo. Per il primo bisogna essere naturali e liberi dai condizionamenti della società umana, per il secondo bisogna seguire i doveri civili. Taoismo e confucianesimo sono quindi i due poli opposti del pensiero cinese. L’uomo ideale per il confucianesimo è il buon funzionario di stato e il buon padre di famiglia, che segue i riti sociali. Invece per il taoismo è chi vive libero nella natura facendo l’eremita su qualche montagna. Nel taoismo vi è il bigu, una pratica che consiste nell’astensione dai cereali, che sarebbe una forma di allontanamento dalla vita degli agricoltori, la quale ha strappato l’uomo dallo stato naturale primigenio nel quale non si coltivavano e quindi non si mangiavano i cereali.
Nella rivelazione cristiana, che a detta di Paolo è quella definitiva, tanto che Dio vuole ricapitolare tutto in Cristo, Dio vuole dal battezzato un atto di amore. Per amare Dio, bisogna prima conoscerlo: l’amore è la conclusione del vero processo di conversione.
“Se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Romani 10, 9). L’inciso “con il cuore” significa che Cristo vuole un atto di amore. Osea 6, 6: “Amore voglio e non sacrifici”. Solo se c’è amore, allora il sacrificio sarà ben accetto e anche l’adesione ai precetti avrà un valore autentico.
Nelle quattro versioni evangeliche (Marco, Matteo, Luca, Giovanni), quando si parla di “credere” (in greco pisteuein), non ci si riferisce a qualcosa di devozionale, come oggi potremmo pensare. La fede di cui parlano i vangeli è una scelta di vita rispetto a un fatto fondamentale. Non è credere un contenuto dottrinale, ma avere fiducia che l’amore di Dio si è verificato effettivamente in Gesù Cristo. È qualcosa di squisitamente esistenziale e non dottrinale. Per questo la “conversione” è detta in greco biblico con il sostantivo greco metanoia, che vuol dire etimologicamente “cambiare mente”. I discepoli sperimentano il contatto con Dio e con suo Figlio, Nostro Signore Gesù Cristo, riconoscendo che in quest’ultimo l’amore del Padre si è realizzato: da ciò segue un cambiamento radicale di vita. Infatti, Tommaso diventa credente quando “vede” le piaghe del Risorto: “Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!»”. A questo punto Tommaso, colui che era renitente a credere nonostante avesse vissuto con Cristo come gli altri discepoli, diventa colui che fa la affermazione di fede più bella e profonda dell’intero Vangelo di Giovanni: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il vero discepolo di Cristo, di ieri e di oggi, non può accontentarsi di una fede superficiale, ma deve incontrare il Risorto. Il Risorto è presente in corpo, sangue, anima e divinità nella Eucaristia: gli occhi dell’anima riescono a scorgere nel pane e nel vino consacrati il Risorto. Oggi di norma non vediamo più Gesù con gli occhi della carne, ma solo con quelli dell’anima, è solo con questi ultimi che possiamo renderci conto che Egli è il Figlio prediletto di Dio, nel quale si manifesta l’amore del Padre.
Santa Caterina da Siena si interrogava: Chi, avendo conosciuto tanto Amore, può restare indifferente? Chi conosce Cristo e vi scopre l’amore di Dio, non può non rispondere con amore. L’essenza del cristianesimo è amore. Amore di Dio che manda a morire suo Figlio per noi e amore dei credenti verso di Lui. A questo punto l’amore si irradia anche ai fratelli. È il nuovo comandamento di Giovanni 13, 34-35: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”.
È questa la nuova creazione: la civiltà dell’amore, garantita e fondata sul dono dello Spirito.
Bibliografia
- M. Calzoli, L’uomo orientale, Lecce 2023;
- Kojiki, versione italiana dall’originale giapponese di M. Marega, Milano 2021;
- M. Raveri, Il pensiero giapponese classico, Torino 2014;
- J. Zumstein, Il Vangelo secondo Giovanni, 2 voll., Torino 2019.
Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 51 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.