‘This is a song about inrequited love’. Così Axl Rose il 6 giugno 1992, in una intervista rilasciata a Parigi, sul senso della canzone November rain – fra le più celebri dei Guns n’ Roses. Qualcuno ha tradotto ‘inrequited’ con l’amore non corrisposto, io prediligo legarlo ad una sorta di inquietudine (quell’Inquieto Novecento, edito nel 2004, e che fu il bel titolo del libro, scritto in coppia con Rodolfo) di irrequietezza, l’avvertire un stare comunque contro… E, poi, questi due versi: ‘And it’s hard to hold a candle – In the cold November rain’, che mi sono divenuti subito cari (‘ed è difficile portare una candela – nella fredda pioggia di Novembre’). Una candela accesa nella sua stanza là nella Ulmstrasse, impossibilitati a raggiungere Madrid, nel trentesimo anniversario dell’assassinio di José Antonio. Io, accanto alla finestra, osservare le cime degli alberi piegati dal vento; tu, le lunghe dita diafane, con il plaid a coprire la devastazione del tuo corpo. Novembre 1966, Francoforte sul Meno.
Da qualche parte cominciare, quando in testa ti sorge – chissà come e perché – una qualche scintilla una idea, magari piccola-piccola, un frammento a cercare troppe parole per darsi consistenza… e quando poi scopri che solo i ‘tuoi’ ricordi rimangono a raccontare di una esistenza ormai al confine, persa ormai la stagione – sentimenti ed emozioni e il sangue che scorre veloce e sudore ‒ legata al linguaggio del corpo. E, allora, quella pioggia di novembre diviene un alibi per nascondere l’altro che non si trattiene e scivola sul tuo viso lento e accusatorio. Grigio il cielo e le cose e gli stati d’animo. Il giorno volge rapido verso sera con le sue ombre incerte e la malinconia e la nostalgia di un camino mentre sulla mensola ormai i fiori appassiti.
Anche Nietzsche ha affidato al suo Zarathustra ‘il canto funebre’ di quanto lungo la via s’è perduto: ‘O visioni e immagini della giovinezza. O voi tutti, sguardi dell’amore momenti divini! Come presto siete dileguati! Oggi il mio pensiero ricorre a voi come a’ miei morti’. Eppure c’è qualcosa che permane, ostinato: ‘Sì, tu sei ancora per me quella che infrange tutti i sepolcri. Salve, o mia volontà! E solo dove sono i sepolcri sono possibili le risurrezioni!’… Modesto forse l’appiglio, questo mio, idealmente in camicia nera. Immodesti i morti di novembre, a cui va questo ricordo.
1 novembre del 1972, a Venezia muore il poeta Ezra Pound. Sull’arca del sepolcro dedicato ad Isotta, nel Tempio Malatestiano di Rimini, il cimiero in marmo termina con due teste di elefante e i cartigli ove campeggia il motto tanto a lui caro da farne verso nei Pisan Cantos: ‘tempus loquendi – tempus tacendi’. Pochi sono coloro che seguono il feretro all’isola di San Michele, dove viene sepolto accanto alle tombe di Stravinskij e di Diaghilev. Così, simile all’eroe greco Ulisse, Pound ha attraversato con la potenza del verso antiche e recenti civiltà; ha incontrato i personaggi grandi e portatori di storia con gli uomini che, giorno dopo giorno, l’hanno vissuta; e sempre se stesso, testimone e poeta, visionario e, al contempo, lucido costruttore.
La guerra eterna del sangue contro l’oro (così il banchiere Lord Bennett ebbe ad ammonirlo: ‘ Abbiamo impiegato vent’anni per battere Napoleone, ci basteranno cinque anni per battere il fascismo’). 11 anni di internamento presso il St. Elisabeths Hospital, vero e proprio manicomio criminale è il prezzo d’aver scelto ove schierarsi. Al termine del viaggio il poeta può alfine concedersi il riposo dovuto, il silenzio, nella consapevolezza che quanto andava detto non era stato taciuto: questo il suo dono per l’uomo. ‘Ho cercato di scrivere Paradiso – Non muoverti, – Lascia che il vento parli – questo è Paradiso’.
20 novembre 1936, cortile interno della prigione di Alicante, sulla costa sudorientale della Spagna. Sono le 6,45 del mattino. José Antonio Primo de Rivera, insieme a due falangisti e a due réquétes, è allineato contro il muro. Ha la forza di rivolgersi al plotone d’esecuzione con voce vibrante: ‘Vi hanno detto che sono un avversario da uccidere, ma voi ignorate che il mio sogno era – Patria, pane e giustizia – per tutti gli spagnoli, specie per i miseri e i diseredati’. Estremo testamento, lapidario, sincero come si può essere di fronte alla morte, di quel fascismo ‘immenso e rosso’ poetato da Robert Brasillach, che tanto amava la Spagna e considerava José Antonio simbolo dell’eroe e giovane e puro. Era nato a Madrid il 24 aprile del 1903, aveva dunque trenta tre anni. ‘Il cui destino tragico’ – scriveva Maurice Bardèche, circa trent’anni dopo, in Che cos’è il fascismo? (1963) – ‘lo sottrasse all’amarezza del potere e ai compromessi della guerra’.
Dal discorso di fondazione della Falange Spagnola, teatro La Commedia, Madrid il 29 ottobre del 1933, l’immagine celebre ‘Il nostro posto è all’aria aperta, sotto la notte limpida, arma al braccio e nel cielo le stelle. Che continuino gli altri a celebrare le loro orge. Noi, fuori, in vigilante attesa, fervida e sicura già presentiamo l’alba nella allegria dei nostri cuori’. La gioia di vivere che sarà la cifra della giovinezza ricca di ideali e di sogni, la giovinezza ‘fascista’ comunque si vogliano intendere i movimenti che hanno attraversato l’Europa tra le due guerre. Varrà ricordare anche il timore espresso, ad esempio in una lettera a Giménez Caballero del 12 luglio del ’36, verso ‘l’affermarsi di un falso fascismo conservatore, senza coraggio rivoluzionario e senza sangue giovane’. Sarà questa la sorte che toccherà alla Falange, al sangue generoso offerto in prima linea, con il pronunciamento militare, il 18 luglio, guidato da Franco, e soprattutto con il decreto di unificazione del 19 aprile del ’37 a Salamanca.
25 novembre 1970, sede del Quartier generale della base di Ichigawa dello Jieitai (le Forze di auto-difesa), nel cuore di Tokio. Nell’ufficio del generale Mashita si svolge l’antico rituale del seppuku – imperfetto perché Morita, il suo discepolo prediletto e prescelto, per ben tre volte inferse la lama della katana nel suo corpo, le lacerazioni furono atroci e terribili, prima che un altro dei suoi discepoli, esperto nell’arte del kendo, lo decapitasse. Così lo scrittore in arte Mishima Yukio, il suo vero nome era Kimitake Hiraoka, pose termine all’esistenza – all’età di quarantacinque anni – dopo aver arringato con inutile e inascoltato e deriso proclama – ‘nella fervida speranza che possiate risorgere come uomini e come guerrieri’ – i soldati raccolti sotto il balcone della palazzina del comando. Nel pieno del vigore fisico – cultore del body building e dell’uso della spada tradizionale giapponese – ed intellettuale reso celebre in patria e all’estero, candidato al premio Nobel. Prima dell’inizio della decadenza di cui aveva orrore. Giovane e vecchio simili al bene contro il male. In quale luogo – si chiede lo scrittore – la potenza del pensiero, il sole, si concilia con la forza dell’agire, l’acciaio, nel mentre il linguaggio della mente ignora il linguaggio del corpo. Questo luogo questo confine estremo questa linea d’orizzonte si esprime tramite la morte. Ecco il senso del morire giovane, perché colui che va ‘a cercar la bella morte’ solo nel vigore e nella pienezza è impossibilitato a barare. Ecco perché mi è sembrato poter definire Mishima ‘il guerriero della nientità’ e in ciò consiste il suo folle e disperato ‘fascismo’… ‘Non chiedo più nulla. La sola cosa che desidero è che una di queste mattine, mentre i miei occhi sono ancora chiusi, il mondo intero cambi’.
Novembre volge al termine e sempre più è ‘difficile portare una candela’, l’ultima, a testimonianza. Eppure, in questa superba evocazione tanto cara a Charles Maurras si risolve e si assolve, con ‘uno schianto non una lagna’, il senso alto e nobile di un ricordo che ci rende tutti più vivi ed autentici: ‘la giornata sta per finire senza fiamme: ho pregato che non si accendano fuochi. Che la sera scenda con le sue nebbie incerte: il dettaglio, l’incidente, l’inutile, vi affogheranno, mi resterà l’essenziale? Ho mai chiesto altro alla vita?’ E queste figure esemplari, questi ‘nostri’ morti, sono il senso del perché siamo qui e non altrove…
Notte tra il 29 e il 30 novembre 1938: Codreanu, il Capitano della Guardia di Ferro viene prelevato dalla prigione con la scusa del trasferimento in altro carcere. Nella foresta di Jilava uno ‘strano’ guasto al motore costringe i prigionieri – con Codreanu altri tredici legionari – a scendere. Saranno strozzati, poi spareranno alla schiena per simulare un tentativo di fuga, parzialmente sciolti versando sui cadaveri acido solfo- rico. La moglie lo riconoscerà soltanto dall’anello nuziale al dito. Al re Carol e al suo ministro degli interni Calinescu, l’uomo dal ‘monocolo nero’, non bastava però che egli marcisse tra sbarre e chiavistelli – ‘Fede e Amore, non le ho perdute, ma sento che a un tratto si è disseccato il filo della speranza. Sono 60 giorni che dormo vestito sul tavolato e su questa stuoia, 60 giorni e 60 notti che le mie ossa succhiano, come una carta assorbente, l’umidità che trasuda dalle pareti e dal pavimento’.
Come José Antonio fu esente da affrontare e magari sottostare all’inevitabile (?) logica di quando un movimento diviene forza di governo, nella necessità del reale. Del resto, non di programmi si richiedevano ai legionari romeni ma essere uomini nuovi, divenire esempio. ‘Noi c’eravamo messi in marcia senza rimuginare in precedenza problemi, senza scervellarci notti intere su punti programmatici, senza accese discussioni durate ore e ore, senza profonde riflessioni filosofiche, senza riunioni di gruppo, ecc… Proprio perché avevamo lasciato da parte tutto questo, l’unica possibilità di manifestare il nostro stato interiore era il canto, e cantavamo qui canti che esprimevano appieno i nostri sentimenti, quei canti che ci davano forza’. Altro è il duro compito di chi vuole conquistare il potere per portare il vento dei cambiamenti e instaurare uno Stato nuovo. Questo vollero i fascismi e dobbiamo essere loro grati. E grati, però, anche a uomini come Codreanu che ci hanno richiamato al valore, oserei dire sacro, di appartenere in primo luogo – e nonostante tutto – ad una comunità ‘di credenti e combattenti’…
Nonostante tutto… Essi furono, nei nostri cuori e nella nostra mente, dei vincitori. Maestri. Perché, anche loro tramite, imparammo a coniugare il pensiero e l’azione – solo così sorge una dottrina e uno stile –. Fierezza e speranza, dunque. ‘We still can find a way – Cause nothin lasts forever – Even col November rain’ (‘Possiamo ancora trovare una via – perché niente dura per sempre – nemmeno la fredda pioggia di novembre).
4 Comments