Con questo articolo, la Redazione di Ereticamente ha intenzione di inaugurare una nuova sezione di approfondimento dedicata ai nuovi studi romanologici, che negli ultimi tempi hanno interessato campi d’analisi scientifici, come quelli dell’archeologia, dell’antropologia, della filologia, della semantica, arrivando, in più di qualche occasione, per vie davvero enigmatiche, a conciliarsi con paradigmi tradizionalistici, che solo a qualche distratto erudito, erano apparsi ormai superati.
In questa occasisone, sarà nostra cura delineare le linee fondamentali di ricerca che hanno caratterizzato due recenti pubblicazioni. Nello specifico, ci riferiamo al testo del famoso archeologo Andrea Carandini, “Il Fuoco Sacro di Roma (Vesta, Romolo, Enea)”, edito per le Edizioni Laterza, ed il testo dell’antropologo Maurizio Bettini, “Dèi e uomini nella Città”, per Carocci Editore. Codesti sono due libri che, come tematizzeremo, hanno un’essenziale portata innovativa negli studi scientifici inerenti la tradizione romana, ma, soprattutto, ricollocano la natura fondante dell’’Urbe non più entro gli angusti ambiti etnico-naturalistici, entro cui una critica post-tradizionalista l’aveva erroneamente confinata, ma ridonandole la sua vasta ed uranica dimensione metafisica, che nella sua enucleazione ha inteso sacralmente rappresentare un Mistero nuovo, ma esistito prima, quale patto tra pari, tra Uomini e Dei.
“cuore teologico, regale, pubblico, sacerdotale, rituale, simbolico e memoriale di Roma… il fascinus o fallo (sacro a Marte?) conservato presso il fuoco di Vesta e gli scudi chiamati ancilia, le hastae o lance di Marte e i sacri ammennicoli di Ops…” (p. 17).
Ci si trova dinanzi ad una visuale rivoluzionaria. Il centro radiante dell’Urbe non è più identificato nell’ambito del Pomerium, entro il Sulcus Primigenius, ove vi era il Mundus, il fosso contenente le diverse porzioni di terre con cui si sancisce il patto federativo tra le varie gentes primordiali, ma è si sposta extra – moenia, oltre le mura, nel Foro, e si identifica col Fuoco Sacro, che Carandini, ben documentatamente dimostra, non solo essere connesso profondamente con l’essenza noetica espressa dal riferimento sacrale e greco della Dea Hestia, come focolare fondante delle città greche e delle colonie come Cuma, ma, soprattutto, avere natura prettamente Pubblica, indi ontologicamente diversa e superiore ai similari riferimenti domestici e pre-civici, di origine italica:
“…così le vestali, caste sacerdotesse di Vesta, hanno avuto poco a che vedere con le vergini delle famiglie o le serve di casa dei primordi, associate dai padri di famiglia alla cura dei focolari domestici…” (p. 28).
In tale ottica, si comprende il perché si faccia, di seguito, non al rito fondativo della città, ma a due riti fondativi, di genere assolutamente diverso. Oltre al primo già accennato di natura etrusca, Carandini riferisce di una seconda fondazione, in cui Tito Tazio e Romolo avrebbero consacrato a Vesta, insieme ai Sacraria di Marte e Ops, il potere unico della società romana, col consenso di Giove, nel primo giorno del calendario, nel natale di Marte, il 1° Marzo (p. 63ss).
Tutto ciò si ricollega magicamente con le analisi antropologiche di Maurizio Bettini, sempre sulla fondazione dell’Urbe. Oltre a considerare la complementarietà le diverse forme del Sulcus Primigenius, circolare e quadrata, espressione del Divino e dell’Equilibrio, della cosiddetta ed ermetica Quadratura del Cerchio, come fissazione in terra del volere divino, così come espresso anche da Kerenyi e Baistrocchi, il Bettini nota argutamente come semanticamente il termine “primigenius” stia ad indicare un “generato per primo”, come un inizio che non conosce un tempo ed un substrato anteriore. Ciò, ovviamente, si ricollega alla novità pubblica del Fuoco Sacro, anche nell’azione rituale di rimescolare le porzioni di terra delle singole comunità convenute, a voler intendere quasi un vero e proprio atto cosmogonico, non di prosecuzione, ma di nuova nascita:
“…fondare la Città è, per i Romani, l’equivalente di dare inizio al mondo…” (p. 23).
Seguendo la sua analisi filologica il Bettini, comprende come in Plutarco ed in vari altri autori non sia casuale l’accostamento del termine Orbis al termine Urbs, Cerchio e Città, quale espressione, insieme al Mundus, del Divino che si esplicita nella storia.
Ciò, per inciso, sia in Carandini sia in Bettini, ripropone la dimensione nettamente anti – mitica della religiosità romana, in cui la necessità di teogonie si avverte solo molti secoli dopo la fondazione.
Tornando all’approfondimento antropologico del testo “Dèi e uomini nella Città”, è importante notare come non casualmente il centro sacrale viene da Carandini spostato entra – moenia, perché il Pomerium, in realtà e secondo le espressioni riportate da Tacito (Annales, 12, 23 s,; Ab urbe condita, I, 44, 3-5; Noctes Atticae, 13, 14), non rappresenta una delimitazione verso l’interno, ma una proiezione universale verso le future conquiste, verso l’inglobamento successivo del Foro e del Campidoglio, secondo la Fortuna concessa dagli Dèi. Come nel Fuoco Sacro, la dimensione pubblica sancisce il superamento dello stato pre – civico, di natura tribale e domestica, così nel riferimento all’Urbs come Orbis, come cerchio, come Mondo, vi è la sublimazione di ogni vana restrizione naturalistica:
“Nelle loro reciproche relazioni Urbs, Orbis, Pomoerium descrivono una vera e propria cosmografia, in cui il mondo e la città tendono a sovrapporsi” (p. 28).
A tal punto della nostra disamina, non possiamo non considerare la natura interna e gnoseologica delle Divinità nell’ambito della religiosità romana. In ciò, elementi di vera novità ci vengono forniti dai quattro falsi enunciati da Carandini nel suo testo in riferirmento (p. 126ss), in cui i vari mitologhemi di natura italica, etrusca e persino virgiliana inerenti le origini ancestrali dell’Urbe vengono quasi descritti come aggiunte successive, per tramite di una forte influenza greca, ma anche a seguito di precise indicazioni politiche del momento, volte a glorificare il prestigioso di precise personalità. Sicuramente il metro di giudizio dell’archeologo potrà apparire molto desacralizzato e basato su direttive ermeneutiche prive della dovuta comprensione ontologica della società romana, ma, a parer nostro, è interessante notare come tali considerazioni possono sottilmente coniugarsi con quanto sulla cosmopoiesi prospettata antropologicamente dal Bettini. In ciò si risorge tutta la valenza, già vista in merito a Vesta, circa il valore metafisico del Pubblico, della Civitas con istituzione che sacralmente e giuridicamente fonda una visione nuova della vita, perché nuovo è il Patto contratto con gli Dèi, da auctor che sono ontologicamente diversi rispetti all’humus, che pur va assolutamente riconosciuto, delle popolazioni pre-civiche, che si scontreranno ed influenzeranno notevolmente Roma…oppure Roma si farà influenzare, secondo le proprie regole e la propria mentalità.
Nello specifico, Bettini evidenzia come la concezione romana del Divino non conoscesse genealogie, il Numenico esistendo di per sé e per l’eternità, e come la modalità di conoscenza di esso non fosse dipendente da una data forma cultuale, ma dalle istituzioni civiche. L’affermazione è di un portata assolutamente innovativa e straordinaria. Le Istituzioni, pertanto, fondate sul Sacro Pubblico Fuoco, sulla Vesta che ben ci racconta Carandini, attuano la formalità del Divino, non le subiscono. Ciò, per noi, significa che non solo i Romani possono essere considerati “facitori” di Divinità, coloro che noeticamente possono alchemicamente “costruirli”, ma anche che la Res Publica, come affermato ancora da Carandini, oltre ad essere altamente anti – mitica, non conosce la dicotomia Sacro e Profano (come tante volte ci ha fatto notare l’amico Giandomenico Casalino), non conosce la laicità, che nasce e si perpetua nella diatriba catto – massonica, non conosce Stato laico, etico, ma solo Stato platonicamente sacrale:
“Una specifica divinità nasce per la comunità che la onora… in coincidenza con la cerimonia pubblica che ne consacra il tempio e ne sancisce l’ingresso nella Città” (p. 21).
Quale qualità interna conferisce ai Romani tale potestà, che gli Italici e gli Etruschi non possedevano? Sempre il Bettini, ci parla della Vis, in ambito di quella che era la interpretatio deorum, come metodo congetturale di trasposizione cultuale tra religiosità differenti, quale entità unica per il riconoscimento del Numenico. Essa era, è la natura interna del Dio, la conoscenza di esso, che non si configura tramite comparazioni formalistiche o cerimonialistiche, ma tramite la sperimentazione del proprio potere, l’identificazione con esso, quale la indica Varrone con Esculapio (p. 52ss).
Ma, in conclusione, come si configura questa potestà? Il Bettini non configura una connessione diretta tra le due componenti, ma la si intuisce abbastanza chiaramente, cioè tra la Vis e l’Auctoritas. Nella sua saggia disamina circa la differenza tra l’accrescimento interno romano e l’evangelica exousìa, quale potestà conferita dall’esterno, in conformità con altri studi come quelli di Casalino e di Viola, il verbo augeo viene inteso come simbolo di una dimensione intensiva interna, che attivamente prende il governo della personalità profana, dominandola, non mortificandola femmineamente. L’Auctoritas, pertanto, può essere concepita come la realizzazione spirituale della Vis, di un potere numinoso, che tanto più diviene marzialmente attivo, tanto più interagisce da pari con la dimensione uranica dei Numi. La conoscenza degli Dèi, quindi, altro non è che la conoscenza e l’affermazione della componente gioviana nell’Augure, nel Flamen, che non attendono il segno del Divino, ma lo attirano a sé magneticamente, quasi per comando. Qui si cela la chiave di volta di tutta la religiosità romana, ponendola noeticamente in alterità con le culture con cui ha indubbiamente interagito.
Infine, possiamo solamente aggiungere che, per “colpa” di un archeologo come Carandini e di un antropologo come Bettini, abbiamo maliziosamente pensato che… Evola e Pio Filippani Ronconi abbiano sempre avuto ragione!!!
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