di Franca Poli
Questa è la storia dimenticata di una minoranza di Italiani che si stabilì in Crimea fin da tempi antichissimi. Le prime presenze risalgono addirittura all’Impero Romano, per arrivare alla Repubblica di Genova e Venezia. Nella storiografia ufficiale si tende a ricordare il fenomeno delle migrazioni per l’importante dialogo culturale e commerciale tra Paesi, si tende in generale a ricordarlo per gli altri popoli, tranne che nel nostro caso, perché del nostro sterminio, della nostra deportazione, del nostro olocausto nessuno ha mai raccontato e tutto è ancora avvolto nell’oblio.
Nel tempo, sul mar Nero, a Odessa e dintorni si era insediata una folta comunità di Italiani, si parlava il dialetto genovese e la via principale era chiamata appunto la “strada italiana”. Il flusso migratorio maggiore però si riscontrò tra il 1830 e il 1870, quando giunsero in Crimea, nel territorio di Kerch, città portuale che collega il Mar Nero e il Mar d’Azov, due intensi flussi migratori dall’Italia, attirati dalla possibilità di lavorare fertili terre e di trarne guadagno. Si trattava di circa duemila persone provenienti soprattutto dalla Puglia (in maggioranza da Trani e Bisceglie), ma anche dal Veneto, dalla Liguria e dalla Campania, erano italiani poveri dediti principalmente all’agricoltura. Partivano verso quello che per loro appariva come un nuovo Eldorado: clima mite, terre fertili, mari pescosi. E così, per affrancarsi dalla miseria, in cerca di migliori condizioni di vita, queste migliaia di italiani raggiunsero la Crimea, e furono accolti a braccia aperte. La terra costava poco, acquistavano appezzamenti fertili e si arricchivano, facendo quello che sapevano fare: coltivare e commerciare i loro prodotti. La comunità si inserì perfettamente nel tessuto locale e anzi, in pochi decenni, divenne una delle più ricche e ammirate grazie alle sue grandi capacità imprenditoriali e commerciali. Intorno al 1855 si aggiunsero anche molti dei bersaglieri mandati a combattere in Crimea da Cavour che dopo la guerra avevano deciso di trattenersi e di stabilirsi in zona, insieme ai connazionali. Gli Italiani conservavano le loro tradizioni e usanze regionali, tutta la nostra italianità fu trasferita di sana pianta, compresa la religione cattolica, col tempo il loro gergo mutò in un misto di russo e pugliese ma non persero le origini, le tradizioni e la loro cucina rimase del tutto italiana. I nostri contadini seppero trasformare quel pezzo di territorio incolto in zona fertile, ricca di ortaggi, frutta e vigneti, e impararono a produrre persino un tipo di champagne molto gradito allo zar.
Quando scoppiò la rivoluzione di ottobre, i più lungimiranti tornarono in patria, per gli altri fu l’inizio del calvario. Furono circa 3500 persone quelle che decisero di restare e accettare le nuove condizioni dettate dal governo di Mosca. La storia della piccola comunità in Crimea si intrecciò con la complessa tragedia del comunismo sovietico. Nell’ambito del piano di collettivizzazione delle campagne, le autorità sovietiche promossero nei pressi di Kerch la costituzione di un colcos italiano dal suggestivo nome “Sacco e Vanzetti”. I nostri connazionali, piccoli proprietari terrieri, provarono a resistere e continuarono a lavorare alacremente la terra come sapevano fare loro, senza adeguarsi troppo alle restrittive regole di quella che era una specie di cooperativa agricola di produzione. Accadde così che nel fallimentare deserto della collettivizzazione sovietica, il colcos italiano primeggiò e superò tutti gli obiettivi pianificati risultando, grazie all’efficienza dei nostri agricoltori, il più produttivo di tutta la Crimea.
Questa prerogativa fu causa, insieme alla relativa agiatezza dei coloni e alla religione professata, di invidie e sospetti. Furono proprio i dirigenti italiani del Comintern che cominciarono a tenere sotto stretto controllo la comunità di Kerch, in quanto le qualità degli italiani, la loro capacità produttiva, la relativa indipendenza dai nuovi dettami che riuscivano a conservare nel lavoro, risultava essere poco consona alla disciplina del partito. Proprio per educarli ai nuovi metodi, fu inviata a Kerch una delegazione speciale di controllo col compito di svolgere “propaganda antifascista” e di chiudere la chiesa. Capo della missione rieducativa, che poi si rivelò punitiva, fu Paolo Robotti, cognato di Togliatti, presidente del “club degli emigrati” a Mosca e responsabile delle innumerevoli sparizioni di connazionali, avvenute durante le purghe staliniane grazie ai suoi verbali delatori consegnati a chi di dovere. Di ritorno a Mosca, dopo l’importante incarico avuto, scrisse nel suo resoconto di aver sistemato al meglio la situazione al colcos italiano, di aver dato la giusta impronta in modo che avrebbe ripreso nuova vita e prosperità, di aver chiuso la scuola religiosa e rispedito il prete in patria.
In realtà la visita di Robotti rappresentò il primo atto della tragedia degli italiani in Crimea. La “pulizia”, da lui guidata con l’ausilio degli agenti del NKVD, condusse alla deportazione di intere famiglie, alla divisione e lacerazione di altre e alla sommaria esecuzione di molti innocenti.
Giuliano Pajetta, quasi ragazzo, alla sua prima esperienza in URSS racconterà in seguito in un libro di memorie: « (…) la cistka al “Sacco e Vanzetti” si rivelò un’operazione dolorosa con molti strascichi penosi (…) quella notte, tornato a casa, fui colto da un cattivo pensiero, avevo una pistola, e, scosso da ciò cui avevo assistito, pensai di punta
rmela alla tempia e farla finita ». Era Pajetta al suo primo incontro con la realizzazione del socialismo sovietico e con la spirale di sangue che questa metteva in atto. Fu fortunato, però, perché la tentazione di farla finita gli passò subito dato che non fu trattenuto in Russia e, tornato a Parigi, poté leggere su un giornale comunista francese quanto fosse stato giusto il suo operato: “Il gruppo dirigente del colcos Sacco e Vanzetti era stato smascherato e punito” e venivano elencati i cognomi dei responsabili fucilati, ne cito alcuni: Bisceglie, Puglia, De Martino, Carbone, Cassinelli, a testimoniare la loro origine senza ombra di dubbio italiana.
rmela alla tempia e farla finita ». Era Pajetta al suo primo incontro con la realizzazione del socialismo sovietico e con la spirale di sangue che questa metteva in atto. Fu fortunato, però, perché la tentazione di farla finita gli passò subito dato che non fu trattenuto in Russia e, tornato a Parigi, poté leggere su un giornale comunista francese quanto fosse stato giusto il suo operato: “Il gruppo dirigente del colcos Sacco e Vanzetti era stato smascherato e punito” e venivano elencati i cognomi dei responsabili fucilati, ne cito alcuni: Bisceglie, Puglia, De Martino, Carbone, Cassinelli, a testimoniare la loro origine senza ombra di dubbio italiana.
Il momento più tragico della storia di queste comunità italiane si ebbe comunque dopo l’occupazione tedesca della penisola di Crimea, dove anche Mussolini aveva mandato un reparto della X flottiglia Mas. Le truppe italiane si stabilirono a Mariupol e insieme ai tedeschi parteciparono a numerose sortite sul Mar Nero fino a quando, dopo una decina di mesi, l’armata rossa li sconfisse in modo definitivo e lasciarono il territorio. La comunità italiana dopo questo periodo subì le peggiori ritorsioni possibili da parte dei sovietici. Kerch, Mariupol e Simferopol, su cui si erano già abbattute le precedenti cistke, furono accusate di collaborazionismo e vennero decimate. Le esecuzioni e le deportazioni tornarono all’ordine del giorno. Furono almeno duemila i connazionali caricati sui treni per estenuanti viaggi e marce forzate verso il Kazakistan, male equipaggiati, affrontando temperature assolutamente insostenibili, chi riuscì a sopravvivere raggiunse il gulag: i maltrattamenti, le sofferenze, le malattie e in seguito, quasi sempre, la morte.
In questo contesto tragico si inserisce una storia che mi ha particolarmente colpita. Pia Piccioni, marchigiana, era sposata con Vincenzo Baccalà, amico di Gramsci ed esponente del partito comunista italiano. Entrambi attivi politicamente, dopo l’avvento del fascismo erano emigrati a Parigi. Avevano già tre bambine quando Togliatti li “spedì” in Russia. Il trasferimento ha un sapore punitivo perché il carattere del Baccalà era piuttosto spigoloso, un personaggio inquieto e impulsivo che certamente non rientrava nelle grazie del “Migliore”, tanto da indicarlo nel suo elenco di persone da allontanare con l’appellativo di “Merluzzo secco”. Il suo trasferimento e il nuovo incarico come propagandista tra i marinai italiani di Odessa non gli doveva piacere troppo e lui non fu capace di nasconderlo, tant’è che una mattina, inaspettatamente -era il 19 febbraio 1937- vennero a bussare alla sua porta, lo prelevarono e la moglie non lo vide mai più.
Pia Piccioni andò a Mosca a chiedere notizie del marito in più occasioni, fino a quando qualcuno le sibilò che con ogni probabilità “suo marito aveva un’altra donna” e lei fece ritorno in Italia. In realtà Vincenzo Baccalà era già morto, fucilato a fine novembre 1937. La moglie seppe la verità soltanto nel 1991 quando, nel mese di luglio, ricevette una comunicazione della Croce Rossa che la informava dei fatti avvenuti allora, la informavano anche che il marito era stato riabilitato, dunque non aveva tradito il “comunismo” e il suo “onore” era salvo, ma mai fu possibile per la vedova individuare un luogo di sepoltura. La signora Pia nel corso degli anni aveva cercato in tutti i modi di avere notizie del marito e si era rivolta inutilmente al partito per sapere se fosse stato deportato in un gulag. Aveva chiesto l’autorizzazione a pubblicare un diario in cui raccontava la sua triste storia, ma non ebbe riscontro alcuno. Domandò aiuto anche alla moglie di Togliatti, Rita Montagnana, che aveva conosciuto in Russia, la quale le assicurò il suo appoggio, infatti qualche tempo dopo, grazie all’interessamento di Longo che aveva letto il suo diario, venne convocata nella sede del comitato centrale del PCI dove Roasio e Lampredi, entrambi reduci dalla Russia, le dissero testualmente che da loro mai nulla sarebbe stato fatto contro l’Unione Sovietica, togliendole ogni speranza. Il suo libro di memorie venne pubblicato, tramite Milano Leonardo, solo quando lei era ormai una innocua vecchietta di oltre novant’anni. Dopo il crollo dell’impero sovietico e le persecuzioni subite, gli Italiani residenti a Kerch da qualche migliaia iniziali erano ridotti a poche centinaia.
Oggi sono in tutto meno di 400, hanno costituito il circolo culturale “Il Cerchio”, dove la infaticabile presidente Giulia Giacchetti Boico tiene vivo il lume delle origini. Predispone corsi di lingua italiana, intrattiene rapporti culturali col nostro Paese, organizza scambi di studio per i ragazzi di Kerch, e si batte per ottenere il riconoscimento alla cittadinanza italiana e lo status di minoranza deportata all’intera comunità. Da qualche anno l’associazione, il 29 gennaio, per non dimenticare gli Italiani uccisi o scomparsi, tiene a Kerch la “Giornata del Ricordo Italiano”, organizzando una toccante cerimonia col rito dei garofani rossi gettati nel Mar Nero congelato. È a dir poco commovente l’ adesione conservata e rinnovata alle tradizioni di origine e a un Paese che, almeno finora, non si è meritato tanto attaccamento, visto che non mi risulta che l’Italia ufficiale si sia ancora fatta viva per riconoscere e ricordarsi di questi Italiani prima perseguitati e poi ignorati.
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