Scartando indiscriminatamente le ciarlatanerie insieme ai cosiddetti «mezzi magici», abbiamo eliminato anche una grande quantità di strumenti di ordine spirituale?
Le acque del Mar Mediterraneo esondate nel Mar Nero attraverso il Bosforo si erano ormai ritirate e le temperature, mediamente superiori di 1°C. rispetto a quelle attuali, erano risalite, quando la Terra fu sconvolta da una nuova catastrofe. L’eruzione di Thera (1600-1525 a.C. circa), oggi Santorini, riempì il cielo di una spessa coltre fuligginosa per un lungo periodo e l’aria si raffreddò notevolmente.
L’ennesima ondata di crisi avvalorò nella mente dell’uomo la convinzione secondo cui il mondo, a sua discrezione, poteva capovolgersi in poche ore. Una normale eclisse era ritenuta così un motivo sufficiente a gettare interi popoli nel panico, una brutta mareggiata faceva pensare a un mostro marino in cerca di cibo, un terremoto veniva ricondotto alla collera degli dèi.
Pronto ad assumere ansiolitici al minimo stress emotivo, l’uomo di oggi non sarebbe sopravvissuto un giorno nelle condizioni in cui vennero a trovarsi gli antenati post-diluviani, per cui c’è poco da sorridere. Da parte sua l’umanità dell’epoca confezionò nuove «superstizioni», che, per quanto possano sembrare assurde ai nostri occhi, servirono a farla sentire accettata da una Natura che sembrava divertirsi a giocare con l’uomo come il gatto con il topo.
Era merito dei riti celebrati regolarmente dai gruppi umani il ritorno alla normalità dopo ogni evento calamitoso. Grazie alle «formule magiche» la boscaglia verdeggiava di nuovo, le rondini ritornavano a primavera, i semi ricominciavano a maturare per sfamare il clan. Persino il Sole veniva spronato dai suoni di certe parole di potere, come ben sapevano gli Egizi che celebravano incantesimi ad ogni alba per assicurarsi che l’astro fiammeggiante, sprofondato la sera prima nel cielo scarlatto dell’Occidente, uscisse di nuovo dalla sua tana notturna.
Dopo tutto quello che era accaduto, nulla poteva essere dato per scontato. Se l’uomo non avesse fatto la sua parte con esorcismi e scongiuri, il Sole avrebbe anche potuto decidere di non presentarsi all’appello. Era già successo, e il ricordo di quella tragedia si era impresso in modo indelebile nella memoria dei popoli. Senza le rappresentazioni magiche destinate a risvegliare il Cielo e la Terra, persino la ruota cosmica avrebbe potuto frenare, incepparsi, fermarsi, o forse rompersi del tutto.
Questi pensieri non appartenevano ad «anime semplici e primitive» ma a individui che si erano presi degli spaventi bestiali, e ciò nonostante conservavano ancora una briciola della saggezza primigenia. Sapevano (all’opposto di noi) che il benessere dell’ambiente dipendeva dal grado di comunione tra l’uomo e il Tutto, perciò l’essere umano, in qualità di enzima più evoluto della macrocellula chiamata Cosmo che lo comprendeva, aveva il compito di elaborare e trasformare gli elementi coinvolti nel mastodontico processo di trasformazione. Non stava a lui interrompere l’evoluzione biologica e spirituale di quel vasto organismo. Preghiere e scongiuri servivano proprio a oliare e lubrificare l’intero sistema.
Per molto meno, cioè per un virus killer che in Italia ha oltrepassato la media annuale di poche migliaia di morti, noi abbiamo esorcizzato le nostre paure partendo dallo stesso principio. Tutti abbiamo visto in televisione la massima autorità religiosa salire sulle guglie del Duomo di Milano e salmodiare “O mia bela Madunina che te dominet Milan, aiutaci nei giorni tribolati di questo coronavirus“, mentre a Napoli un altro prelato si rivolgeva a San Gennaro affinché si prendesse cura del popolo provato dall’infezione letale. Una compagnia di sacerdoti caldei non avrebbe saputo fare di meglio.
Al netto dunque del bombardamento di «studi americani» in grado di spiegare sulle riviste scientifiche praticamente ogni cosa, non siamo granché cambiati negli ultimi secoli. Né reggerà ancora per molto la favola bella della società forgiata dai riflessi pop del decostruzionismo secondo cui la nostra scienza medica avrebbe raggiunto vette mai toccate in precedenza.
Afflitta dalla visione materialista, meccanicista, riduzionista, la medicina occidentale moderna non riesce a vedere l’uomo nella sua totalità, né inquadra la dialettica salute/malattia nella giusta prospettiva. Considera la realtà corporea una mera entità biologica anziché il Tempio dello Spirito in cui l’«uomo intero» impara ad apprezzare il Buono, il Bello, il Giusto. L’individuo viene trattato come un «capo di bestiame» da isolare e atrofizzare, così da fargli perdere le sue qualità uniche e irripetibili, da svuotarlo da ogni attitudine morale, estetica e religiosa.
Ma sarebbe riduttivo circoscrivere i problemi alla medicina. Di fatto tutte le teorie scientifiche, che da qualche tempo se la tirano da reginette di bellezza, pullulano tanto di misteri quanto di astrazioni e sono avulse dall’esperienza reale. Se pure elaborate, nulla dicono sul mistero della vita ma semplicemente spostano i confini dell’ignoto un po’ più in là, aprendo le porte del castello degli specchi in cui è difficile entrare e praticamente impossibile uscire.
Dopo oltre due secoli di studi scientifici e astrofisici non abbiamo dell’infinito un’idea più chiara e meno vertiginosa di quella posseduta dall’uomo primordiale, o da un Leopardi. Higgs non ha scoperto dio né Darwin è riuscito a provare la sua inesistenza; d’altronde, certi incontri non avvengono in biblioteca o guardando attraverso i telescopi.
Ci vuole un cuore puro per conoscere «l’altro» da sé, la comunione d’intenti non avviene quasi mai attraverso il filtro culturale della coscienza. Per questi motivi, ed altri ancora, andando avanti ribadire la presunta ovvietà di certe categorie non sarà più sufficiente. Già oggi fa sorridere lo slogan «è vero perché lo dice la scienza». È chiaro che la prossima sfida da raccogliere e possibilmente vincere sarà quella di ridare un senso al mondo, e per fare ciò si dovrà ri-cominciare tutto daccapo, ovvero ri-partire dai principi elementari che tengono insieme una società permettendole di vivere. Attualmente l’uomo è letteralmente uscito dal racconto cosmogonico ma, se intende sopravvivere a sé stesso, prima o poi dovrà rientrarci.
Con il senno di poi bisogna riconoscere che non è stata una grande idea quella di gettare via il bambino con l’acqua sporca, eliminando con incosciente leggerezza le ciarlatanerie insieme ai cosiddetti «mezzi magici», la maggior parte dei quali era invece di ordine spirituale.
Nessuno si è preoccupato di fare distinzioni tra l’autentico e il falso, così è andato perduto il grande complesso di riti, credenze e costumi che hanno caratterizzato le società precedenti in una concezione religiosa dell’esistenza che, comunque, nel bene come nel male, conferiva ad essa un orizzonte di senso. Ne è uscito il caos che ha causato un indebolimento della ragione e la scomparsa del senso critico.
Per pigrizia e comodità, più che altro, oggi si crede a qualcosa se l’ordine è quello di crederci e non si crede se l’ordine è quello di non crederci. Se quindi la regina delle discipline chiamata «scienza» dice che i mezzi magici sono tutti da scartare, si scartano.
Eppure il complesso di conoscenze che a partire dagli anni di Descartes ha fondato la sua fortuna su varie teorie, ha scientemente ignorato la psiche dello scienziato che le elaborava. Non si capisce come si possa prescindere dall’orientamento, dagli umori, dalle costrizioni, dalle tendenze e dalle competenze (limitate per ovvi motivi) del ricercatore. Figlio del suo tempo e della sua mentalità, lo scienziato è dopotutto un individuo che inserisce le proprie conoscenze in un paradigma, seguendo una felice definizione del filosofo Thomas Kuhn, per arrivare al punto di partenza.
Nella prima metà del Novecento il fisico austriaco Erwin Schröedinger avanzò dei dubbi persino sulla tanto decantata «individualità», o Io cosciente, che magari poteva essere una semplice illusione. La nuova trovata era in verità una vecchia conoscenza dei maestri delle Upanishad, i quali insegnavano che l’uomo non era realmente un individuo spirituale ma «parte» di una stessa Entità.
Noi non siamo qualcosa di diverso rispetto al Tutto che ci ingloba e ogniqualvolta c’illudiamo del contrario anche la nostra scienza perde colpi, come adesso, mentre nei periodi di grazia i risultati non si fanno attendere. Molte delle più strabilianti scoperte della modernità sono nate proprio dall’analisi di ciò che precedentemente era stato omesso per vizio di forma e di cultura ma che l’innata percettività della subcoscienza era riuscita ad avvertire e suggerire.
Non appesantite da inutili sovrastrutture le nostre oscure sensazioni organiche, che risiedono nello stato di subcoscienza che è «natura», sono capaci di portarci in alto. Mentre l’Io cosciente ci tira giù, ultimamente incoraggiato dalla «voce della scienza» (autorizzata dai Padroni Globali) che distribuisce certezze.
Facciamocene una ragione: l’ingegno umano non è perfetto, e dunque un metodo scientifico imperniato sulla divulgazione di «certezze» (saldamente ancorato a qualcosa di molto simile al paradigma di Laplace) è destinato a naufragare.
Qui non si tratta, evidentemente, di ingaggiare una gara tra magia, scienza e coscienza per vedere chi la vince, ma semmai di scaricare un po’ di zavorra prima di andare avanti. Sappiamo che senza il capitale non ci sarebbe stata alcuna scienza: se non fosse stato per gli uomini d’affari che cercavano di arricchirsi, Colombo non sarebbe arrivato in America, James Cook non avrebbe raggiunto l’Australia e Neil Armstrong non avrebbe mai messo piede sulla superficie della Luna. Ma ultimamente la commistione tra economia e sapere scientifico è diventata intollerabile.
Negli ultimi secoli il capitalismo è stato l’agente propulsore dell’ascesa fulminea della scienza, ormai divenuta puro scientismo. Un dogma che ha distribuito a profusione false promesse, a cominciare da quella secondo cui povertà, malattia, guerra, carestia, vecchiaia e persino la morte non sono il destino inevitabile del genere umano bensì il frutto di un’ignoranza superabile attraverso le «conoscenze scientifiche».
Quali? Chi finanzia la ricerca? Non sfugge che la prima domanda che si pone un investitore è: “questo progetto ci consentirà di aumentare la produzione e i profitti? Contribuirà a una crescita economica?” Un progetto che non è in grado di rispondere a tali requisiti ha poche possibilità di vedere la luce, ovvero di trovare uno sponsor.
Da troppo tempo capitalismo e scientismo vanno a braccetto. Gli scienziati dipendono dai magnati dell’industria e questi devono ringraziare i ricercatori che a cadenza regolare se ne escono con qualche nuova scoperta, sia essa il motore a scoppio o la pecora geneticamente modificata. L’andamento dell’attuale economia dipende in larga misura da quel che avviene nei laboratori farmaceutici, dove si brevettano nuove medicine e nuovi vaccini i cui profitti stanno ripagando i miliardi di soldi finti che le banche e i governi hanno creato a partire dal 2007-8 con il potenziamento della cosiddetta «finanza creativa». Arte contemporanea.
Vale lo stesso discorso per la tecnologia che promette all’uomo un futuro radioso e favoleggia di avveniristiche intelligenze artificiali. Nei prossimi anni non sarà facile trovare l’attrezzo adatto a sganciare questa specie di catena di Sant’Antonio, tutto è talmente interconnesso che se i laboratori non esaudissero le aspettative dei loro finanziatori milioni di lavoratori rimarrebbero in mezzo a una strada. Prima o poi bisognerà tuttavia uscire da questo labirinto d’interessi, se non vogliamo che la scienza, quella vera, rimanga al palo per i prossimi mille anni.
30 giugno 2020