Su fb trovo una riflessione, con un certo accento di cose perdute, dell’amico Giacinto su la disattenzione verso Giovanni Gentile e il suo pensiero, coltivata da molti di noi in quegli anni, lontani per lui lontanissimi per me, della nostra giovinezza ‘militante’. E non basta il commento di Antonio che ricordava la complessa lettura di opere come La Logica (nessuno ci chiamava, allora, a un simile impegno), mentre dissento e con fermezza sulla sua affermazione essere Genesi e struttura della società una ‘specie di bignamino’. Intanto perché intorno ai vent’anni la padronanza del linguaggio specifico è dubbia e balbuziente, poi perché ha il sapore di una certa – mi si perdoni – arroganza verso Gentile e il suo testamento spirituale (ed egli ne era ben consapevole). Sapeva essere sotto il bersaglio di qualche mano vile e assassina, ma era anche conscio e orgoglioso di aver completato il percorso del suo filosofare. Dopo quarant’anni circa di esercizio in classe di argomenti di storia e filosofia di fronte a ragazzi dai sedici ai diciannove anni, magari in gran parte distratti e indolenti, evito tenermi ancorato alla cattedra e al registro (oggi sarei patetico al centro anziani panchine di qualche abbandonato giardinetto portare a spasso il cane – tre cose che ancora non mi riguardano, scanso equivoci e va da sè escludendo Frodo e il suo padrone) perché la vita è altrove e le idee nascono, come ricordava Robert Brasillach, dalla realtà e dalla comunione con gli altri…
Certo il linguaggio di Gentile si rende nella tradizione ‘barocca’ e complessa a cui noi – ormai usi a modelli espressivi anglo-americani e giornalistici – non siamo abituati ed anzi ci suscitano una certa irritazione (qui non parlo delle opere filosofiche vere e proprie, ma di articoli recensioni brevi commenti). Aggiungo, però, che se egli fosse nato in Germania e non in una cittadina sperduta e ignota della Sicilia (Castelvetrano, in provincia di Trapani, il 29 maggio 1875), reggerebbe il confronto con Martin Heidegger – e che io mi sia dato ad approfondire il secondo e meno il primo è scelta autonoma da questo contesto. Ciò valse già per Gianbattista Vico (riportato alla conoscenza nostra da Benedetto Croce e proprio da Gentile), il quale di nascita partenopea subì il peso del linguaggio e della periferia culturale, mentre ebbero fortuna e lustro autori tedeschi che pure nutrivano il medesimo suo sentire per la storia.
Non amavamo Giovanni Gentile, direi proprio di no, noi giovani arditi e irriverenti mentre ci sentivamo eredi e testimoni dei ‘repubblichini’ e coltivavamo Rivolta contro il mondo moderno e Cavalcare la tigre cadendo nella categoria degli evolomani tanto irrisi dallo stesso Evola. Di Julius Evola non ripeterò di quel tragicomico e unico incontro per evitare la facile e legittima ironia degli amici di RAIDO, qualora vi sia chi di loro legga i miei interventi su Ereticamente. Va solo ricordato come fosse fra i primi ad incontrare Mussolini appena liberato dalla prigionia del Gran Sasso e portato in Germania. E divenisse un richiamo, eco forte e prioritario punto di riferimento, nell’immediato dopoguerra, per tanti giovani reduci e non solo della Repubblica Sociale. Si potrebbe, ad esempio, ricordare il processo ai FAR con Evola chiamato a testimoniare in barella. E Adriano Romualdi che di lui fu il discepolo più caro e devoto.
Poi il distacco. Troppo forte il richiamo della piazza, bastoni e barricate, i comandanti Tonino Fiore (nella sua lucida eresia di masaniello meridionale ) e poi Giuseppe Dimitri (lo stile da guerriero riconosciuto da camerati e avversari), le mani levate, le canzoni urlate contro i nemici sempre troppi e troppo pochi per noi guasconi dal grande naso e il pennacchio sul cappello, i fumogeni i lacrimogeni le molotov, il ’68 goliardico e plebeo gioioso e feroce dopo il suo annuncio di primavera mancata, a cui volemmo essere parte… e come poteva Evola condividere là dove l’aristocrazia gli appariva essere al massimo avanguardia della spranga e di una rivoluzione inutile. Ogni mutazione un atto contro il cielo, una ghigliottina…
Non vedevamo in Gentile altro che il filosofo del Regime, un liberale prestato al Fascismo, uno di coloro che ne avevano compromesso le spinte rivoluzionarie, alla stessa stregua del Re infido dei generali massoni del capitale pronto a vendersi al miglior profitto al Vaticano a benedire i vincitori di turno la borghesia restia e vile a osare a cambiare a mettersi in gioco… Certo la riforma della scuola, l’unica che ha avuto capacità di essere compiuta e completa, troppo ‘umanista’ di contro la modernità di un paese che voleva trasformarsi in Nazione rendere le masse in popolo consapevole unità di destino farsi potenza giovane e virile contro le plutocrazie. Forse solo Nino Tripodi e pochi altri lo difendevano e poco erano ascoltati; noi, pervasi da un furore, a ripensarci più anarchici che fascisti (oh, anarco-fascismo a me rimasto nella mente e nel cuore!), andavamo a cercare gli dei nelle brume della terra di Thule, i ragazzini della HJ con il panzerfaust fra le macerie di Berlino aprile 1945, gli eroi giovani Corneliu Zelea Codreanu e Josè Antonio e Léon Degrelle, e gli scrittori francesi della collaborazione Drieu la Rochelle ‘aristocratico e giacobino’ e Louis-Ferdinand Céline folle e disperato e il mio fratello più caro Robert Brasillach, ‘ il poeta dei balilla’ come l’aveva definito Giano Accame. No, nonostante il suo assassinio per vile mano partigiana, non c’era posto nel nostro immaginario e formazione culturale per Giovanni Gentile.
Rimaneva Genesi e struttura della società, completato alla vigilia della morte e pubblicato postumo. Ma non ne capimmo, forse, il lascito. Una certa atmosfera funeraria ne inficiava la qualità o noi eravamo di troppi pregiudizi e remore prigionieri. Eppure quel vecchio ‘trombone’ liberale abbandonava i lidi oramai fattisi scorie dello Stato riservato al cittadino, quello sancito dalla Rivoluzione francese per annunciare, lucido e ottimista, la nascita dello Stato dei lavoratori, di quella giustizia sociale che era stato il filo rosso da quando a Fiume era stata proclamata la Carta del Carnaro per arrivare ai 18 punti di Verona, tardivo ma non dismesso ritorno alle origini. Insomma egli entrava fra coloro che riconoscevano al Fascismo il compito doveroso di realizzare l’originale autentica via al socialismo italiano. E, allora, leggere il recente libro, citato da Giacinto, La ghirlanda fiorentina, può aiutarci a comprendere come sempre servili e indecenti furono e sono gli intellettuali nell’Italia gretta e provinciale, che odiavano Gentile nonostante o soprattutto perché avevano da lui beneficiato favori e prebende. Ed anche comprendere come i comunisti chiudevano ogni confronto con altre immagini del socialismo possibile per proporsi monopolio fallace e menzognero del proletariato e dei suoi diritti delle possibili conquiste salariali e organizzative. Meno convincente è, a mio parere, l’ipotesi di eliminare chi, nel dopoguerra, poteva rappresentare un polo attrattivo della rinascita dell’Italia.
(Gli epigoni del comunismo italiano – quello sovietico era ben altro nelle sue manifestazioni tragiche e ferine, con un rigore tetragono e totalitario, eppure esso stesso è andato in rovina – sono oggi i macellai dello stato sociale, i becchini dell’ideologia ugualitaria, i fautori della mobilità del denaro, i servitori delle banche). Ebbene ad alcuni di noi restava in piedi fra le rovine quel Fascismo della Repubblica Sociale, di quel Partito di ‘credenti e combattenti’ auspicato da Alessandro Pavolini, di quei giovani volontari della Decima MAS in armi per mare e per terra, Nicolino Bombacci che volle morire sereno accanto al Duce ricordando con il pugno chiuso la sua incrollabile fede nel socialismo e la fedeltà verso l’amico di tante giovanili battaglie nella terra natia di Romagna, di quella rossa Salò che preservava la camicia nera. E il rimpianto, un certo rammarico di Giacinto, ha questo ed altro rinnovato nella mia memoria…
Ognuno, si dice, ha tanta storia. Che i più giovani pensino che la nostra generazione sia fatta solo di sconfitte fallimenti delusioni, che si debba scomparire senza neppure lasciare tracce, sul modello di quanto affermava Filippo Marinetti sul futurismo e la sua funzione, hanno certo qualche ragione e non mi turbo. Fummo anche noi, a vent’anni, arroganti e sovente stronzi. Forse portavamo, in più, un modello di autorità disciplina stile non solo verso noi stessi e le nostre organizzazioni, ma verso coloro che rappresentavano le radici della nostra storia. E quelle testimonianze, enfatizzate forse in eccesso, ci aiutavano ad evitare di venderci e, se ci siamo ‘venduti’ (come alcuni suggeriscono, male lingue dei pavidi e degli impotenti, dove il salotto si addice loro e non le strade), l’abbiamo fatto nell’illusione della Rivoluzione, magari tramite figure carismatiche quali il Comandante Borghese… il quale comunque sia è stato ben altro ed alto dei mestatori del presente, di quell’oggi che ‘appartiene alla plebe’ così come Nietzsche ci ammoniva. Allora, Giacinto, nessun rimpianto nessun rancore nessun rimorso nessuna rivalsa. Se non abbiamo raccolto il giusto peso che ci giungeva da Giovanni Gentile e abbiamo preferito trascorrere nottate a bere vino a fumare ascoltare il canto delle sirene ad attaccare manifesti e metterci il martello sotto la giacca, beh, quel ‘romanticismo fascista’ nessuno ce lo può togliere… e, se non siamo più in armi, riusciamo ancora a sputare lontano…
Mario Michele Merlino
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