<I nostri programmi sono decisamente rivoluzionari. Le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero di sinistra, le nostre istituzioni sono conseguenza diretta dei nostri programmi; il nostro ideale è lo Stato del lavoro. Su ciò non può esserci dubbio: noi siamo i proletari in lotta, per la vita e per la morte, contro il capitalismo. Siamo i rivoluzionari alla ricerca di un ordine nuovo. Se questo è vero rivolgersi alla borghesia agitando il pericolo rosso è un assurdo. Lo spauracchio vero, il pericolo autentico, la minaccia contro cui lottiamo senza sosta, viene da destra. A noi non interessa quindi nulla di avere alleata, contro la minaccia del pericolo rosso, la borghesia capitalista: anche nella migliore delle ipotesi non sarebbe che un’alleata infida, che tenterebbe di farci servire i suoi scopi, come ha già fatto più di una volta con un certo successo. Sprecare parole per essa è perfettamente superfluo. Anzi, è dannoso, in quanto ci fa confondere, dagli autentici rivoluzionari di qualsiasi tinta, con gli uomini della reazione di cui usiamo talvolta il linguaggio>.
Benito Mussolini
Forse nessuno lo sa. Forse solo qualcuno lo sa ma non comprende. E forse qualcun altro, pur sapendo e comprendendo, preferisce glissare, ché la ripugnante e mendace liturgia resistenziale non ammette – non può ammettere – “stonature” o revisioni di sorta. Fatto sta che a Milano, quella tragica mattina del 29 aprile del 1945, a Piazzale Loreto, tra quei poveri corpi appesi a testa in giù alla pompa di benzina e barbaramente oltraggiati dalla canaglia partigiana, ce n’era uno non ben identificato. Era molto alto e aveva una folta barba nera, ormai ridotta a una poltiglia di sangue, polvere e sputi, ma nessuno aveva idea di chi mai si trattasse. L’enigma venne chiarito soltanto quando i giornali pubblicarono l’elenco dei 18 martiri con accanto la qualifica politica che aveva motivato l’infamia. La macabra lista era stata redatta personalmente da Luigi Longo, il cinico tirapiedi di Togliatti. Il quale, anche in questo dramma epocale per la nostra Patria – una tribale carneficina che ne siglava la definitiva disintegrazione morale e spirituale – non sconfessò la sua atavica vocazione di lugubre amministratore mortuario. Per quel cadavere sconosciuto, tuttavia, il puntiglioso burocrate della necrofilia giustizialista targata Pci aveva fatto un’eccezione. Per lui e solo per lui, infatti, chiosò alla spicciolata: <Nicola Bombacci – Supertraditore>. O bella, e chi poteva mai essere costui per giustificare tanto livore da parte di gente che pure del tradimento della propria Patria aveva fatto una ragione di vita? Il fatto è che Nicola Bombacci costituì nel periodo “antemarcia” il nemico più temuto e più odiato dagli uomini in orbace. Tanto per rendere l’idea, durante gli anni Venti un beffardo “stornello” goliardico-fascista cantava: <…me ne frego di Bombacci e del sol dell’avvenire/Con la barba di Bombacci faremo spazzolini/per lucidar le scarpe di Benito Mussolini…>.
Soprannominato “il Lenin di Romagna”, Bombacci era stato infatti il campione della sinistra italica più oltranzista. I suoi comizi, durante le elezioni del 1919, terminavano immancabilmente con lo slogan coniato dal compagno Vladimir Ilich Ulianovich: <Tutto il potere ai soviet!>. Il suo ardore oratorio era tale che sotto la leadership dell’uomo di Civitella di Romagna, in quell’anno, il Partito Socialista – il PCI sarebbe nato soltanto due anni dopo, nel 1921 – mieté una sterminata messe di consensi. All’apertura della nuova legislatura, allorché re Vittorio Emanuele III rivolgeva il suo saluto ai neo-deputati, Bombacci non esitò ad alzarsi in piedi per gridare a squarciagola: <Viva il socialismo!>. Inoltre, il suo discorso d’esordio come oratore parlamentare mandò in fibrillazione le asfittiche istituzioni massoniche e faccendiere del dopoguerra concionando: <La rivoluzione è una necessità storica, il Parlamento è un relitto del passato ed è nostro dovere dargli gli ultimi colpi di piccone. In Italia devono formarsi immediatamente dei consigli operai>. Ma allora, per quale motivo un uomo di tal fatta, uno che aveva introdotto in Italia il marchio della falcemartello, divenne improvvisamente fascista? Il fatto è che Bombacci sarà stato pure comunista, ma non era certo uno stupido. Idealista, romantico, rivoluzionario ma non ingenuo, pressoché di casa nella cosiddetta patria del socialismo reale – partecipò in prima persona ai solenni funerali di Lenin, tenutisi a Mosca nel lontano 1924 – Nicolino, come affettuosamente lo chiamava il Duce, era rimasto profondamente deluso dallo stalinismo reale. Intelligente osservatore e acuto indagatore dell’universo concentrazionaria in cui col tempo s’era andato trasformando l’ex-impero zarista, ad avviso dell’appassionato e generoso agitatore romagnolo la rivoluzione bolscevica s’era mutata in un’insopportabile tirannia. Un moloch occhiuto e spietato che, tradendo le promesse, opprimeva sotto una cappa di grigiore sanguinario e iperburocratizzato quello stesso sventurato popolo che voleva ancora liberare, si, ma solo a parole. Un tale Vladimir Degot, un losco figuro che all’epoca viveva a Roma come agente sovietico infiltrato nel PSI, nei suoi corposi dossier che di continuo spediva a Lenin parlava spesso di Bombacci. E nei dettagliati rapporti che stilava, la spia, riferendosi a Nicolino, lo descriveva come un romantico avanguardista che al momento opportuno si sarebbe sicuramente schierato in testa alle furibonde orde del proletariato tricolore in rivolta. Insomma, Bombacci finì sconciato in quel modo – e pressoché dimenticato dai posteri – proprio perché nella sua lungimiranza di politico di razza aveva compreso che dal socialismo e dal comunismo made in Italy – schieramenti guidati da una pletora di corrotti, pavidi e trasformisti – ci si poteva aspettare di tutto tranne che la difesa dei ceti meno abbienti. E che per rinnovare da cima a fondo le sgangherate istituzioni della “grande proletaria”, onde giungere al riscatto sociale dei diseredati e all’emancipazione dalla miseria atavica che li opprimeva, si doveva fare affidamento solo su una nuova creatura politica. Una neonata forza di popolo e di pensiero che del socialismo era figlia e del socialismo aveva conservato alcuni presupposti teoretici, economici innanzitutto. Ma che dell’identità nazionale – e soprattutto di tutelarne l’interesse in ogni sede, ripudiando l’autolesionistico furore internazionalista – aveva fatto il suo contrassegno ideologico e comportamentale.
E fu proprio questa sua convinzione che, pur dopo molte vicissitudini, portò il generoso politico romagnolo ad abbracciare incondizionatamente il fascismo e più tardi a condividere col suo più illustre amico-avversario-compagno di sventura, Benito Mussolini, il martirio finale. Non per nulla, possiamo ricordare la famosa dichiarazione fatta a Mosca da Lenin il 1° novembre del 1922 a una delegazione di comunisti italiani guidata proprio da Bombacci: <In Italia c’era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini! Ebbene, voi lo avete perduto e non siete stati in grado di recuperarlo!>. Ma in questo Lenin ebbe ragione a metà, infatti fu il Duce stesso a “recuperare” Bombacci alla causa rivoluzionaria. Tant’è vero che in quel maledetto aprile del 1945, accingendosi a salire sulla macchina che lo avrebbe portato dritto in braccio al boia, Bombacci, rivolgendosi all’amico Mussolini, commentò con amara ironia: <E pensare che non ho mai aderito né al Pnf né al Partito fascista repubblicano, eppure mi appresto a morire accanto a te!>.
Ma da dove si possono attingere tutte queste preziose nozioni che nessun libro di testo, nessun quotidiano a grande diffusione e nessun esimio professore in carriera si prenderà mai la briga di divulgare? Basta andarsi a leggere il bel saggio di Roberto Mancini “Oltre Destra e Sinistra-Il Socialismo Fascista”, Edizioni del Borghese, 260 pagine, 18,00 euro.
Questo libro è illuminante, travolgente, sconcertante. Quasi “scandaloso”. È un manuale che fa vacillare inveterate convinzioni e spariglia dogmi e falsi tabù e, pur da anticomunista convinto, ti costringe a riflettere su quanto possa essere complicata – fino al paradosso – la politica contemporanea. Si viene a sapere ad esempio che il percorso formativo di pezzi da novanta del nazionalismo socialista e socialcomunista europeo e mondiale del ‘900 – stiamo parlando di rivoluzionari doc del calibro di Josè Antonio Primo de Rivera, il mitico fondatore della Falange spagnola, di Juan Domingo ed Evita Peron, del dittatore cubano Fidel Castro, di Che Guevara, di Francisco Franco e di altri protagonisti che hanno scritto a lettere cubitali la Storia del XX secolo – ebbene, come dicevamo, si viene a sapere che il cursus politico di questi grandi leader, pur con diverse sfumature ideologiche e comportamentali, è stato contrassegnato da un massimo comune denominatore. Un filo rosso esistenziale e umano che ha virtualmente accostato questi radicali innovatori proprio a uomini come Mussolini, Bombacci, Lenin, allo stesso Hitler. Gente che della feroce lotta senza quartiere al grande capitalismo internazionalista e apolide fece la propria ragione di vita. Statisti convinti che il vero nemico del genere umano era rappresentato proprio dalle spregiudicate lobby bancarie di Wall Street e della City. E si viene a sapere, inoltre, che anche il Duce, il Fuhrer, e il fondatore dell’Urss, a loro volta, durante il lungo itinerario di maturazione che li portò spesso ad attraversare inenarrabili sofferenze, aspre vicissitudini personali, cocenti emarginazioni e dolorose cadute, attinsero a piene mani da altri giganti del pensiero politico tardo-ottocentesco come Blanqui, Sorel, Proudhon, Pisacane, Oriani. Da sindacalisti rivoluzionari come Corridoni e De Ambris. Da anarchici generosi come Berto Ricci. Tutta gente che già agli inizi del ‘900 inorridì davanti alle drammatiche prospettive d’indigenza materiale e sociale che, nel fosco panorama europeo e italiano dell’epoca si andavano profilando per le sterminate pletore di braccianti e operai vittime della guerra, della crisi e di una mentalità affaristica dedita esclusivamente alla cura dei propri interessi. Erano i primi, deleteri effetti che l’industrializzazione senza freni, favorita dal liberismo selvaggio, complice la smisurata avidità di banchieri e imprenditori senza scrupoli, andavano portando a compimento con cinica disinvoltura e sprezzo per la dignità umana. Il tutto col pacioso e sbracato cerchiobottismo degli “scaciati” e inconcludenti socialisti riformisti nostrani. Astuti parolai e affabulatori incalliti, sazi d’incarichi, prebende e commissioni, grassi come matrone, intenti solo a intrallazzare e senza la minima idea di quanto fosse faticosa e grama la vita di un contadino, di un operaio o di un muratore. Poveri cristi schiacciati dalla fatica, logorati dalla denutrizione, dalla tisi e dalla malaria, privi di ogni garanzia e preda di padroni sfruttatori e arroganti che li vessavano e ricattavano senza ritegno. Esistenze segnate dalla disperazione più nera che, dopo i disastri seguiti alla Grande Guerra e alla crisi finanziaria ed economica causata dal venerdì nero di Wall Street del 1929, divennero, se possibile, ancora più miserabili. E fu proprio la Grande Guerra a causare la rivoluzione bolscevica in Russia e l’avvento del fascismo in Italia. E fu la catastrofe del 1929 a provocare l’ascesa di Hitler nella esangue Germania dei primi anni 1930. Tutto ciò si può trovare scritto a chiare lettere sul saggio di Mancini il quale, in questa sua opera di chiarimento filosofico e analisi politica, si lancia in un’audace ipotesi d’inquadramento storico e di elaborazione concettuale continuando a risalire “su per li rami” del pensiero idealista europeo. E veniamo così a sapere che le “cellule staminali” del nazionalismo, del socialismo utopistico, del sindacalismo rivoluzionario, dell’anarchismo otto-novecentesco, risalgono si a Blanqui, a Sorel, a Proudhon, a Fourier, a Owens, certo, ma che anch’essi attinsero a loro volta a pensatori antecedenti come Stirner e a Feuerbach. I quali – manco a dirlo – riallacciandosi a Marx, a Hegel e a Kant, elaborarono concetti e proposizioni risalenti alla Rivoluzione francese e al movimento illuminista. Lacerti di pensiero che, “sconfinando” nel Rinascimento, nel Medio Evo, e continuando a procedere a ritroso come in un’ideale macchina del tempo, giungono fino a Sant’Agostino e, ancora prima, al greco Platone, il Padre dell’idealismo occidentale.
Un salto cronologico di 2500 anni circa e ci ritroviamo sempre allo stesso punto, al “che fare?” di marxiana memoria. Anche oggi infatti siamo costretti ad affrontare le stesse problematiche che afflissero i nostri avi socialisti nazionali e sindacalisti rivoluzionari alle soglie del Novecento. Cadute le ideologie, sbriciolatisi i muri e ridottesi le distanze, il mondo è diventato un villaggio globale dove si stanno puntualmente riproducendo, a livello globale, gli stessi guasti che condussero l’umanità al massacro della II guerra mondiale. Bisogna reagire, sicuro, anche se non sappiamo quali saranno i nostri compagni di lotta. Troppo odio, troppo sangue è stato versato in questo lungo, tribolato dopoguerra tra gli opposti schieramenti di destra e sinistra. Una sola cosa è chiara. I veri nemici sono sempre gli stessi. E stanno ancora lì a rispecchiarsi placidamente nella torbide acque dell’Hudson, del Potomac e del Tamigi, sempre più arroganti, sempre più invadenti, sempre più distruttivi per le sorti dell’umana specie. Ora una loro propaggine, allignata all’ombra delle modernissime torri di vetro di Francoforte, è arrivata a spargere disperazione su tutta l’Europa mediterranea. L’Armageddon è imminente.
Angelo Spaziano
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