L’ultimo studio di Emanuele Franz, prolifico saggista e ideatore della casa editrice Audax, è un invito all’esercizio di una filosofia che sia autentica compenetrazione dell’esperienza umana. Di contro agliaccademicismi e specialismi di sorta, sul solco di un pensiero integrale e olistico, capace di segnare, con un aratro extra-morale, il solco del senso, anziché baloccarsi in giochi linguistici o asserzioni dogmatiche, Franz sceglie di porre la questione della realtà – e di tutte le aporie che la contingenza quotidiana ci mostra – nella pienezza della correlazione di vita e pensiero. «È lì – ci spiega infatti – la chiave di tutto: il legame, la relazione, il topos dove si svolge l’esistente, nell’intreccio fra il trascendentale e l’immanente, e questo intreccio è nella ripetizione, perché la ripetizione è Vita. È il vivente la spiegazione del mistero» (p. 21).
Idea e realtà. Il corpo come Tempio della Sapienza (prefazione di Angelo Tonelli, Audax, Moggio Udinese 2018), questo il titolo del saggio appena citato, è dunque in primo luogo una proposta di pratica teoretica, ossia una provocazione, ossimorica sin nella propria radice etimologica, a un confronto serrato e senza scappatoie con la contraddizione che è il cuore pulsante del mistero della vita – cuore di tenebra, splendido e spaventoso a un tempo.
Un approccio di questo tipo comporta almeno tre correlati essenziali: il rifiuto della separazione moderna delle discipline e l’unità osmotica dei saperi; la sfida creativa e singolare – nel senso del singolo à laJünger, Borges, Nietzsche, Burke, Léon Bloy, Gomez Dávila – di una mitopoiesi autenticamente personale, universale nella misura in cui la concretezza dell’esperienza individuale riflette la pluralità dei piani del cosmo, senza calare dall’alto, mediante la pura violenza del concetto, verità indiscriminatamente imposte; il ricorso a un’ermeneutica mitico-simbolica entro cui il fulcro dell’incedere del pensiero procede su un livello analogico e sintonico: con il mito oltre il logos e con il logos oltre il mito.
È di questo armamentario che la mito-scrittura di Franz si alimenta, individuando nella tradizione sapienziale, soprattutto in quella di matrice greca e latina, senza dimenticare i riferimenti all’Oriente e alla “buona novella” cristiana, i fondamenti di una riscrittura della geografia delreale. In questo senso, ci pare che l’utilizzo del mito da parte dello scrittore friulano non sia un semplice espediente letterario, né un escamotage metaforico, quanto una profonda comprensione del dominio mitico-simbolico quale forma cosmica essenziale. La riflessione di Franz risulta pertanto apparentabile a quel fil rouge sotterraneo alla cultura europea, che muove i suoi primi passi nella sapienza arcaica pre-filosofica, per sopravvivere in certe forme di neoplatonismo, innervare il Medioevo cristiano, il misticismo renano, forme esoteriche e alchemiche rinascimentali, e riemergere, infine, in seno alla riscoperta della philosophia perennis in taluni autori romantici e nei campioni novecenteschi del Pensiero di Tradizione. A molti di questi riferimenti, Franz si ispira apertamente, affermando ad esempio: «Noi qui optiamo per un’altra interpretazione che si richiama al concetto del de perenni philosophia, ovvero all’idea, già espressa da Leibniz, di una filosofia eterna soggiacente e comune in diverse religioni» (p. 85).
Sulla base di questa metodologia, innervata dalla pulsione della vita e da un’ermeneutica mitica, Franz affronta in questo studio, che può essere considerato un approfondimento del suo precedente La storia come organismo vivente (un saggio di filosofia della storia), una questione teoretica centrale: il rapporto fra idea e realtà. Rifiutando tanto una posizione radicalmente idealistica, destinata al solipsismo, quanto un ingenuo e insostenibile realismo, Franz mostra come una comprensione più profonda del reale possa avvenire grazie a una visione polare e processuale, d’impianto metamorfico in senso goethiano: qui i poli in cui si dipanano fenomeni e manifestazioni – soggetto e oggetto – vengono ricompresi alla luce del mutuo compenetrarsi delle polarità stesse. Il pensiero è allora corporeo, l’idea è materiale, allo stesso modo in cui tanto la materia quanto il pensiero sono innervati di idee. «L’Unità fra i due mondi sta qui: nell’ammettere che l’uno è nell’altro e non vi è scissione, come Platone ha affermato, fra un mondo visibile e uno invisibile» (p. 11). Lo studioso non deve scindere fra ideale e reale, bensì fra concreto e astratto, rigettando il dualismo, «schizofrenia metafisica» (p. 37), e il riduzionismo monista, soggiornando nel qui ed ora, in quell’“effetto maniglia” che si dà nella misura in cui «l’unione dei due livelli – idea e realtà – conduce alla manifestazione, all’epifania dell’esistente, come, appunto, in una maniglia che si infila nel vano di una porta» (p. 44).
L’oggettività o soggettività di un’idea, allora, lo spiega bene Nicolas Gomez Dávila nelle sue Notas, «non possono essere naturalmente che mere direzioni dello spirito: oggettività e soggettività sono tendenze o sfumature, variazioni di intensità o di rotta di un pensiero che trascende queste categorie». Pensiero ed esperienza, soggetto e oggetto, immanenza e trascendenza, visibile e invisibile: sono tutte polarità che sfumano l’una nell’altra, come mostra la coppia esemplare di idea e realtà.Non è solo la materia a partecipare, come in Platone, delle idee, ma sono le stesse idee a partecipare della materia. Il tutto si dipana nel cosiddetto Pensiero Esteso, mediante una movenza speculativa in qualche modo opposta e complementare a quella dell’idealismo magico di Evola: non è tanto il soggetto a fondare la realtà e il dato naturale, ma è il pensiero che, fuoriuscendo dalle cose materiali ed entrando in un soggetto pensante, compie l’“esperienza della materia”, ossia il «trasferimento del pensiero dalle cose al soggetto pensante» (p. 57), realizzando il divorzio mistico fra idea e cosa.
«La sintesi – per tornare alle Notas dell’aforista colombiano – non è la conclusione del processo dialettico, bensì il suo punto di partenza. La sintesi è l’oggetto concreto stesso, la realtà densa e ricca di contraddizioni, e il processo dialettico le è posteriore come tentativo di analisi costruttiva dell’oggetto».Mito, simbolo e analogia sono strutture di mediazione – epistemologica e ontologica – di questa eterna e sfuggente danza, di questa sinusoide in cui «una curva si contrae, un’altra si espande, come il battito di un cuore, mai si presenta la completezza delle due, sempre una tende all’altra e l’altra alla prima, incessantemente» (p. 63).
Le riflessioni condotte in Idea e realtà percorrono – è bene precisarlo – una gamma di questioni molto più ampia di quella qui dibattuta, andando a intercettare problemi di gnoseologia, epistemologia, filosofia della storia, comparazione religiosa.Le osservazioni di Franz sono sempre acute e originali. Alcune, ricavate da tradizioni filosofiche ben riconoscibili, altre intuizioni del tutto eccentriche e originali; talune teoreticamente ineccepibili, talaltre a nostro avviso più discutibili – come alcune espressioni biologiste e vitaliste e l’insistenza sull’identità fra idee e vuoto. L’acquisizione più importante del saggio Idea e realtà, tuttavia, ci sembra riposta, al di là delle singole disquisizioni, in quello sforzo analogico e mitico-simbolico di un ripensamento delle categorie linguistiche stesse della speculazione occidentale, lungo una direzione per molti versi affine al Realismo Fantastico teorizzato da Louis Pauwels e Jacques Bergier nel celeberrimo Il mattino dei maghi. Qui, i due alfieri delle scienze di confine asserivano che l’uomo occidentale si troverebbe di fonte a «un nuovo insperato connubio della ragione, al vertice delle sue conquiste, con l’intuizione spirituale», un accordo che lascia presagire, per usare una lirica espressione di Vigny, che «la materia forse non è che una delle maschere fra tutte le maschere portate dal Gran Volto». La filosofia di Emanuele Franz procede sulla scia di questa intuizione. Alla ricerca degli dèi nelle particelle subatomiche.
Luca Siniscalco