Scrive Drieu la Rochelle:
‘Quando ero adolescente, ho giurato di restare fedele alla giovinezza: un giorno, mi sono sforzato di mantenere la parola’.
All’età di sedici anni ebbi l’intuizione, certo confusa e alquanto retorica, come ogni mio gesto parola agire si determinasse sotto il dominio della politica. E, negli anni ’70, divenne slogan trito e abusato della sinistra in cerca di affermazioni dal gusto forte capaci di legittimare l’attesa messianica di quel sol dell’avvenire, tanto prossimo in collettivi deliri quanto sempre più distante – simile a linea d’orizzonte – nella realtà della storia con i suoi accadimenti e dinamiche. Sempre Drieu aveva confidato d’essere diventato fascista per mettere a confronto le proprie forze, se stesso e ‘i progressi della decadenza’. (‘Ho visto nel fascismo il solo mezzo per frenare e arrestare questa decadenza’). Così, sempre a sedici anni, mi iscrissi alla Giovane Italia e, munito di martello, resi con gli interessi l’aggressione subita sotto casa. Inizio di un’avventura goliardica picaresca – i miei idoli divennero Cyrano de Bergerac e Don Chisciotte – tra bastoni e barricate molotov e lacrimogeni sbarre e chiavistelli e le letture in cui Robert Brasillach (i Poemi di Fresnes trovati – per caso o per destino – sulle bancarelle di piazza Fontanella Borghese assieme a I proscritti di Ernst von Salomon e di F. Nietzsche il Così parlò Zarathustra) andava sostituendo inesorabile Sandokan e il Corsaro Nero di Emilio Salgari.
Intuizione non arbitraria, ragionevole, superiore ai troppi dogmi sul primato, ad esempio, dell’economia in apparente conflitto e sostanziale sintonia del marxismo e delle teorie liberiste. Certo oggi ‘i politici sono i camerieri dei banchieri’ (da Lavoro e usura di Pound a Giacinto Auriti, con cui tenni una conferenza presso l’aula consiliare del comune di Civitavecchia). Ciò, però, non fa altro che rafforzare il senso di disgusto e di dissenso con l’oggi, estraneità e opposizione. E ristabilire quali furono le gerarchie autentiche, la presenza del perverso magma del potere con le sue implicazioni visibili e quelle oscure e proporre uno stile di vita e una scelta all’interno di un cerchio magico, interiore e non, di sano e salutare aristocratico anarchismo – di cui l’anarco-fascismo è il volto… Gli uomini sono ventri gonfi dilatati avidi – si pensi a tanto Céline – oppure sbavano e si contraggono per appagare i succhi gastrici, perversioni mentali aberrazioni sogni di sesso nel chiuso del cesso, istinto di morte oscena e spettacolo di caleidoscopio inganno ed illusione. Solo questo? Il vento e l’onda sono nelle mani di Dio, dice un antico proverbio germanico, ma il timone e la vela sono nelle mani dell’uomo. Vi sono e vi saranno uomini in cammino, uomini contro.
E così, collegandomi idealmente e di fatto, ‘pallida ombra di sogno’, a quel filo rosso e nero che ha segnato il Novecento, almeno la sua prima parte, mi feci testimone dei futuristi chiassosi e creativi, degli arditi con ‘pugnal fra i denti, le bombe a mano’, dei legionari della Fiume dannunziana strafottenti e gioiosi, di quella estrema scelta disperata e folle di quando ‘i balilla andarono a Salò’. Immeritatamente, lo confesso, davanti alla celere a Valle Giulia e, quindici giorni dopo, sulle scale del Rettorato e, poi, imbottigliato nella facoltà di Giurisprudenza ad assistere all’ennesimo sogno infranto (leggasi le speranze e le illusioni di Gilles Gambier nel vivere le ore convulse del 6 febbraio 1934, sempre in Drieu a Rochelle). In buona compagnia, dunque e sempre, mi dicevo. Mi dicevo e mi confortavo camminando avanti e indietro e indietro e avanti in tre metri per sei limitato dalle sbarre della finestra e dal chiavistello della porta.
Eppure quel ‘tutto è politica’, che si prendeva tanto di me, mostrava crepe e smagliature nell’esistenza del quotidiano – le donne il viaggio letture onnivore –. In principio sottili venature nel muro tanto da non darmi pena, motivo di riflessione, ancora impossibilitato a percepire il sordo brontolio del crollo rovinoso. ‘L’era del cinghiale bianco’, cantata da Franco Battiato, eco di pagine di René Guénon tratte da Autorità spirituale e potere temporale, in contrapposizione e gerarchia con l’orso simbolo dell’ordine guerriero. Non tanto la categoria dell’in-politéia, concetto d’ispirazione evoliana e di cui sono stato sempre ostile apparendomi – forse cadendo in errore – quale mito incapacitante. Errore ed errare, prediligo, alla staticità del vero… Una sera, osservando il tramonto incendiare le arcate del Colosseo dal giardino del Colle Oppio, Sandro mi fece notare che non della bellezza si sarebbe dovuto parlare, ma della sua sacralità. Fu, allora, che mi venne a mente come la vita ricadesse nella pienezza e totalità del sacro.
Le donne, ahimè, a quattordici anni baciai una ragazza di Berlino, in vacanza sulla costa adriatica. A labbra strette, su un pattino. L’amore verso la Germania nacque sulla sabbia dietro i capanni nei dancing gazzosa e twist prima delle notti di Valpurga, Norimberga con un mare di fiaccole inquadrate, la Horst-Wessel-Lied, il fronte dell’Est e le macerie della capitale del Reich, divenuta simbolo estremo dell’Europa precipitata, rogo di tragedia, nell’abisso del Ragnarook. Le donne, non ebbi mai la tentazione di confondere i sentimenti, il cuore che batte forte, la voglia pazza di trasformare due corpi in uno solo, in visioni universali all’ombra di bandiere con i colori dell’arcobaleno. La pacificazione dei sensi, quel ‘il riposo del guerriero’, nulla ha a che vedere con il pacifismo e i suoi derivati. Solo, a volte, l’illusione di rendere la solitudine in dialogo. Cantava Lucio Battisti ‘Mi ritorni in mente, bella come sei…’ ed anche tu mi hai tradito, te ne sei andata. Nel lontano 1967 ‘con la morte a paro a paro’, oggi vai spegnendoti perché ci sono mali che ti divorano dentro. Eppure ancora mi risuonano le parole di Shakesperare nel Romeo e Giulietta ‘Chi non ha amato al primo sguardo?’, quando di mattina scendo in strada al bar sull’autobus…
Non ho compiuto grandi viaggi, no, ho letto Il giro del mondo in 80 giorni ma non ho attraversato l’India dei misteri o le praterie del Far West, ho letto Emilio Salgari ma come lui non ho difeso Mompracem con i miei ‘tigrotti’ della Malesia dalle brame del Rajah bianco di Sarawack o solcato le acque del mar dei Sargassi in cerca del ‘perfido Olandese’ e compiere così nobile e legittima vendetta. Chi vuole addentrarsi nei percorsi intrapresi può ben leggere Strade d’Europa (libro che non piacque a Giano Accame, ma sono convinto come possieda originalità d’impianto narrativo ed una sua estetica). Viaggi alla ricerca delle tracce della storia dei miti di uomini di edificazioni a sfida dello scorrere del tempo della dimenticanza e della decadenza in nome dell’eternità. Certo le tante sere con boccali di birra e ragazze anch’esse bisognose di compagnia. E quella ciotola di latte, offertami da una sconosciuta contadina olandese, a ricordare il Blut und Boden di un’Europa segreta e misteriosa, palpitante sotto i miasmi mefitici imposti dai ‘vincitori’ e che appartiene solo al nostro cuore alla nostra mente.
I libri, quanto e di quanti vorrei e potrei raccontare. Le bancarelle di piazza Fontanella Borghese, di cui ho scritto sovente e qui sopra; la libreria Rotondi di via Merulana, specializzata in pubblicazioni esoteriche, e dove acquistai l’edizione assai malconcia di Rivolta contro il mondo moderno dei Fratelli Bocca (quella del 1951), sempre all’età di sdici anni; la biblioteca di mio padre con allineati in bell’ordine i saggi storici con la rilegatura in azzurro pallido e i classici della narrativa color mattone. E l’ultimo dei Mohicani, il mio primo libro comprato all’età di otto anni (furono certo la copertina i disegni interni il suggerimento del babbo ha farmi scegliere) e che conservo ancora gelosamente. Poi di Edmond Rostand il Cyrano de Bergerac con la classica traduzione di Mario Giobbe (Natalino Sapegno gli dedica due righe di merito nella sua storia della letteratura solo per questa traduzione) in edizione di pregio e persa chissà come e quando e del Cervantes il Don Chisciotte tenuto assieme dall’affetto chè ormai s’è reso in fogli consunti e slegati. Nel trasloco una parte – credo qualche centinaio – ha arricchito la biblioteca comunale di un paesino presso L’Aquila andata distrutta dal terremoto e gli amici dell’Istituto Storico ‘Carlo Panzarasa’ di Trieste così come quelli di Passe-partout di Littoria. Ora, ciò che resta coprono le pareti del mio solitario regno/della prigione (già a Regina Coeli scrivevo come lontano dalla piazza i nostri cuori battono a rilento)…
Le letture di Julius Evola (a parte l’unico incontro che ebbi con lui e che si risolse in una sorta di comica e di cui ho raccontato in più occasioni) e di René Guénon mi avevano predisposto a far coabitare, accanto alla priorità della politica (intesa come ‘conquista’ del mondo e sfida con me stesso), un idea di paganesimo, la ricerca di un senso alto ed altro che si risolvesse in me e in ogni cosa, dell’identità di quel patrimonio della cultura romana, indoeuropea (spaziando da Mars Juppiter Quirinus di George Dumézil ai testi dell’amico Adriano Romualdi, ad esempio). Soprattutto la lettura delle Upanishad (‘Di tutte le voci del mondo rimane soltanto, aperta sul tavolo, una traduzione’, 15 marzo del 1945, Drieu la Rochelle, il giorno del suo suicidio) con l’identificazione tra il Brahma e l’Atman – l’infinitamente grande con ‘questo Sé dentro il mio cuore, che è più piccolo di un grano di riso, di un grano di orzo, di un grano di senape, di un grano di miglio, di un nocciolo di un grano di miglio’. Forse, da europeo decadente e narcotizzato (Cristo e Marx e Freud) poter rialzare il capo, ergermi fra le rovine, volgere le braccia verso il risorgente sole (cominciai a trascorrere il solstizio d’inverno in montagna accanto al fuoco e in attesa dell’aurora), sentirmi beneficiato dalla luce e dal calore ed essere io stesso frammento di quella luce e di quel calore… Persi, allora la modestia e scoprii la vanità! ‘Tutto è sacro’, dunque, mi trovai a pensare. Eppure qualcosa mi turbava mi stancava insorgeva, demone presuntuoso e maligno, contro quell’apparente serenità, accusandomi in fondo d’essere avvinto comunque alla catena, aurea sì, ma pur sempre una catena.
(Un paragrafo per annunciare e mettere da parte il sacro, ahimè, questa è vanità tale di cui anche il mago Merlino, con i suoi filtri formule e artifici, non dovrebbe permettersi, ma mi sono dato spazio e tempo su Ereticamente e non intendo abusarne o derogare. Al lettore completare negli spazi bianchi, riga tra riga, il non-detto).
E’ il principe Miskin ne L’idiota ha pronunciare la celebre frase ‘la bellezza salverà il mondo’ – tema questo che Fédor Dostoevskij riprende e sviluppa ne I fratelli Karamazov. In sanscrito, da cui deriva il termine, essa indica ‘il luogo ove Dio brilla’. E’, dunque, il passare dal sacro all’estetica (e viceversa, va da sé) un passaggio senza traumi e salti? I filosofi lo hanno spesso delineato – penso al Platone del Fedro – questo concorrere al medesimo fine – le Idee sono vere e giuste e belle –, rendere compiuta la visione complessiva della realtà. E’ che si necessita intendere su cosa sia bello… La bellezza per lo scrittore russo sta nella rivelazione stessa di Dio attraverso l’amore la pietà la compassione. Alla domanda dell’ateo Ipolit su come può salvarsi il mondo tramite il bello, il principe Mynski tace ma si reca ad assistere all’agonia di un giovane morente di diciotto anni. La condivisione del dolore svela la bellezza. Così, si tramanda, come Dostoevskij si recasse sovente a Dresda, in contemplazione delle Madonna Sistina di Raffaello esposta nella pinacoteca (la Gemaeldgalerie). Una visione ieratica e terapeutica.
A me viene a mente altra distinzione tra ciò che appartiene alla concezione estetica e a quanto si oppone. Mario Castellacci e il suo La memoria bruciata quando riferisce dell’otto settembre. ‘Premevano nell’idea di ‘bello’ parole fino a quel momento importanti, giunte a quel punto al limite storico estremo di un possibile riscatto: onore, decoro, lealtà, coraggio, patria contrapposti a vergogna, viltà, voltafaccia, sisalvichipuò’. E mi torna a mente il quadro di Van Gogh Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles che tanto piaceva ad Elisabeth. Come le canzoni Ritornerai di Bruno Lauzi e La notte di Adamo e Lontano, lontano di Luigi Tenco che, sempre, rimandano a lei. Eravamo giovani vivevamo nell’eminente dignità del provvisorio, con il Brasillach de La ruota del tempo, intesa quale bellezza, che tanto dispiace ai borghesi, equivalente alla bruttezza. L’estetica oggi da accompagnare, dunque, all’irriverenza al gesto di sfida alla strafottenza della giovinezza lontana e mai perduta. Non delle belle forme immortalate nella staticità (non amo entrare nei musei e, poi, consentitemi un po’ di ironia stolida e maschilista, i Bronzi di Riace dal fisico perfetto rivelano fra le gambe la ‘piccinità’ dell’esistenza!), semmai in quelle dell’azione delle emozioni sentimenti un gioco contro ogni pretesa serietà perbenismo luoghi comuni e consolidati. Da Mishima:‘Non chiedo più nulla. La sola cosa che desidero è che una di queste mattine, mentre i miei occhi sono ancora chiusi, il mondo intero cambi’. Tutto è bello come fu tutto e politico e sacro, dove le contraddizioni partecipano al divenire e non si risolvono nella coerenza d’un gelido ed ipocrita ‘sono’…
Mentre attraverso una vena m’introducono il sondino ad esplorare il cuore e tenere aperte le coronarie che vanno restringendosi, anestesia locale sala gelida lampada sugli occhi, l’intuizione ‘tutto è malattia’, nella materia inerte chissà, nella vita il senso della decadenza (fu così che, per gli antichi greci, Dioniso ed Apollo si coalizzarono e sparsero a piene mani i doni dell’illusione e dell’inganno?) domina a fondo e dietro ogni maschera il brulicare dei vermi. Eppure, in difformità contro la morte quale salvezza, vorrei urlare disperato e fiero la parola (quella parola che dà ad ogni cosa il segreto del suo essere) ‘Sempre!’ a vincere il tempo