9 Ottobre 2024
Arte Cultura

Oltre l’Arte e il Folklore – Walter Venchiarutti

Ananda Kentish Coomaraswamy (1877-1947) è stato un valente direttore di musei americani e soprattutto uno tra i più grandi storici d’arte attivi nel XX° sec. Le sue opere hanno contribuito a far conoscere e apprezzare l’arte orientale in Occidente, al punto d’aver saputo influenzare l’estetica del Modernismo Inglese.

Partendo dal presupposto che l’arte medioevale europea e quella indù sono riuscite a delineare il raggiungimento di una teologia visiva e a far comprendere verità sovrasensibili, grazie alla comparazione delle diverse culture religiose (induista, musulmana, buddista e cristiana), lo studioso cingalese ha derivato le analogie che corrispondono alle esigenze primarie dell’uomo. La ricerca della verità, identificata nel binomio sacro-bellezza, ha da sempre avuto per oggetto Dio. Tale presupposto è distante dalla concezione moderna di arte basata sulla predilezione “di effimeri soggetti”. L’avvenuto passaggio dalla ricerca delle conoscenze primarie ad “una superstizione inutile, nella misura in cui il suo effimero e tragico soggetto è l’animale–uomo” ha prodotto il venir meno della funzione principale di utilità, un tempo unica strada maestra e sapienziale riconosciuta al processo artistico. Tale percorso ignorava la successiva distinzione tra le belle arti e le arti applicate, per cui pittura, architettura, carpenteria, musica e ceramica non costituivano generi diversi di poetica o di produzione artistica ma percorsi paralleli, strade orientate alla conoscenza della filosofia perenne. Ogni tradizione conservava le indicazioni di accesso che conducono alla via maestra (marga): la raffigurazione egizia della porta del Sole, la figura del Pantakrator rappresentata nell’occhio di una cupola bizantina, l’equivalente per mezzo del quale l’indiano d’America abbandona il suo Hogam, l’apertura del pi cinese, il paranco della iurta dello sciamano siberiano, il foro del tetto sopra l’altare di Giove, tutte porte attraverso le quali si evade dall’universo conosciuto. Nell’arte tradizionale l’esperienza mistica, il supporto alla meditazione, il riconoscimento della natura simbolica nelle dimensioni quotidiane rappresentano altrettante possibilità offerte all’artista e al fruitore di affacciarsi all’orizzonte metafisico.

Oggi una decadente trasformazione ha portato al deterioramento imposto dalla speculazione economica che favorisce l’interesse dei mercanti d’arte, galleristi, intermediari, il cui mestiere consiste nel procacciare clientela, fama ma anche sfruttamento degli autori. Per contro la produzione privilegiata dagli antichi maestri non era finalizzata alla ricerca spasmodica di tematiche innovative ma perseguiva un adeguamento, il più fedele possibile, ai canoni tramandati dalle precedenti esperienze generazionali poiché l’archetipo può essere imitato, l’individuale può esser solo copiato. Un’aura di impersonalità sovraumana circondava queste opere. Non si contano nei templi e nei santuari le leggende che narrano di tele composte da autori angelici o le storie di statue miracolose, di natura divina che un destino superiore e benevolo aveva fatto pervenire in dono alla comunità dei fedeli. La carenza di autografi, la mancanza di prestigiose attribuzioni non assillavano lo spirito egotico degli artefici e degli estimatori ma avvaloravano la funzione di pubblica condivisione e il fine di utilità salvifica che i lavori artistici erano chiamati a compiere.

L’aiuto strumentale veniva assicurato dalla celata presenza del daimōn nel processo ispirativo. Una volontà immateriale eppure facilmente percepibile aveva guidato la mano mentre reggeva il pennello del pittore, lo scalpello dello scultore, la sgorbia dell’ebanista, permettendo la riuscita di un hapax che sapeva risvegliare l’azione contemplativa, trasformando l’opera in preghiera. Per questo nei musei era necessaria la conservazione, l’esposizione ma soprattutto la spiegazione al pubblico delle opere d’arte antiche di cui spesso era andata persa la capacità di una piena comprensione.

Per Coomaraswamy ogni opera d’arte tradizionale costituisce un supporto per la concentrazione. All’attento osservatore si aprono vere e proprie porte destinate a far accedere ogni pensiero limitato ai grandi misteri che regolano le armonie del cosmo. Esiste una assimilazione tra il conoscente e l’oggetto del conoscere. Non è forse detto anche nelle Upanishad che “si diventa della stessa sostanza del soggetto sul quale si fissa il pensiero”?

 “Se un poeta non è in grado d’imitare le realtà eterne, ma è solo capace descrivere i capricci della natura umana, anche se le sue rappresentazioni saranno tra le più attraenti e realistiche, non vi sarà posto per lui in una società ideale”.

Ogni artista è un demiurgo poiché crea, dà forma a ciò che non è. Ripete ritualmente una azione che ab immemorabili sta all’origine della vita. Nel saggio “Perché esporre le opere d’arte” la validità che legittima una iconografia non è il ricorso a riprovevoli raffigurazioni di cose banali e qualsiasi, nemmeno i sentimenti dell’artista o i caratteri umani sono temi degni di raffigurazione, ma la descrizione delle azioni attribuite agli Dei e agli Eroi. Come per Platone il compito dell’arte è quello di saper cogliere la verità primordiale, rendere udibili i silenzi, quindi l’arte vera “è fatta di rappresentazioni simboliche, significative di cose che possono essere viste solo con l’intelletto”.

Tali convinzioni per il modo e per il tempo in cui furono formulate non tardarono ad essere avversate dai fautori della critica e dall’accademismo ufficiale poiché ponevano in crisi le fondamenta su cui reggeva la cultura sentimentale, estetizzante e materialista che preferiva l’espressione istintiva e astratta alla bellezza formale dell’arte tradizionale. L’osservazione antropologica dovrebbe aver insegnato che il formalista del neolitico era il rappresentante di culture “primitive”. Nei suoi lavori contemporaneamente erano presenti le necessità dell’anima e del corpo. Per comprendere le opere d’arte esposte alla nostra ammirazione Coomaraswamy ci insegna che non occorre spiegarle nei termini proposti dalla nostra psicologia e dalla nostra estetica, ma è necessario abbandonare i pregiudizi etnocentrici. Una qualsiasi cultura va intesa solo se si ha dimestichezza con i principi etici che l’hanno caratterizzata. Gli oggetti che vediamo esposti sottovetro nei nostri musei originariamente non erano tesori da vetrina ma manufatti d’uso comune, oggetti pratici, unicum, dietro i quali si potevano sentir pulsare le vibrazioni del costruttore. Non rappresentavano i risultati usciti da un lavoro seriale o i prodotti di una catena di montaggio perché l’impegno e le tensioni dell’artefice non sono paragonabili all’efficientismo asettico di una macchina. C’è quindi da chiedersi se gli articoli in vendita presso i nostri negozi siano fabbricati da uomini veramente liberi o derivino da processi servili. Lo scultore e saggista Eric Gill ha fatto notare che nella nostra contemporaneità risulta evidente una grossa aporia: “Si ha da una parte l’artista che mira unicamente ad esprimere la propria personalità; dall’altra l’operaio senza alcuna personalità da esprimere”. Con il distacco della cultura dal lavoro e la separazione del lavorare per vocazione dal lavorare per necessità è venuta meno la figura dell’artigiano ponte fra la materia e lo spirito. La vera sensibilità dell’esteta non dovrebbe limitarsi a gioire per l’utilità e la bellezza dell’opera ma trovare completezza nella capacità di comprensione, nello scoprire la ragion d’essere, cogliere ciò che essa può esprimere.

Oltre al ruolo riservato alla cosiddetta “mentalità primitiva” anche la definizione di folklore, da parte dello storico d’arte allievo di Guénon, merita qualche cenno. “Per ˂folklore˃ intendiamo l’intero e coerente corpus culturale che è stato tramandato, non nei libri ma dal passaparola e in pratica, al di là della portata della ricerca storica, sotto forma di leggende, fiabe, ballate, giochi, giocattoli, artigianato, medicina, agricoltura e altri riti e forme di organizzazione sociale, in particolare quelle che chiamiamo tribali. Questo complesso culturale è indipendente dai confini nazionali e persino razziali e di notevole somiglianza in tutto il mondo”.

 

Se per Vladimir Propp nei racconti popolari russi si celano importanti retaggi storici, per Coomarawamy i giganti delle fiabe sono i titani della mitologia, gli stivali delle sette leghe corrispondono ai passi di Agni o del Budda e Pollicino configura il Figlio, che Eckhart definisce “piccolo ma così potente”. Il contenuto del folklore è quindi metafisico. “L’inattitudine a riconoscerlo è dovuta principalmente alla nostra profonda ignoranza della metafisica … ma fintantoché è possibile la trasmissione del contenuto del folklore è anche disponibile un terreno sul quale si possa edificare la costruzione della piena comprensione iniziatica”.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *