Nella sua nuova veste di intervistatore (ultimamente molto interessante il dialogo a due voci con Michele Ruzzai sulla Tradizione) ecco che il nostro Prof. Calabrese si cimenta in un’altra piacevole ed erudita conversazione con l’Ing. Felice Vinci autore del best-sellers ‘Omero nel Baltico’ opera storica-mitologica pluridecorata e oggetto di studi accademici nelle più autorevoli università occidentali.
Questa intervista nasce su richiesta del nostro illustre ospite dopo che Fabio Calabrese ha approfondito alcune questioni sull’indoeuropeismo con il Prof. Ernesto Roli, altro autorevole studioso e amico della nostra testata culturale.
Questi contraddittori riteniamo siano utili ai nostri lettori per le loro ricerche, per i loro studi, per i loro approfondimenti sulla questione identitaria cui Ereticamente è molto sensibile al tema perchè ritiene che nel panorama della dialettica politica nazionale mancano veri e propri riferimenti storico-culturali di questo natura e pensa pure che la nostra Nazione infuenzata da una colonizzazione culturale perpetrata negli ultimi decenni ha perso il legame col proprio popolo fondato sui valori delle proprie radici etniche, dei propri usi e costumi come si usava una volta scrivere sui testi scolastici.
Ringraziamo vivamente l’Ing. Felice Vinci per la disponibilità e auguriamo ai nostri visitatori buona lettura.
Fabio Calabrese: “Comincerò con una domanda forse banale, e che non credo di essere il primo a porle, ma che viene spontanea. Come mai un ingegnere nucleare ha preso la decisione di avventurarsi in un campo così lontano dalla sua specializzazione professionale, a cavallo fra la letteratura e l’archeologia come la questione omerica?”
Felice Vinci: “Sappiamo bene che fino al secolo scorso qui in Italia la maggior parte degli universitari, anche delle discipline scientifiche, proveniva come me dal liceo classico. Quanto a me in particolare, io sono stato sempre un appassionato di Omero e di mitologia (non solo di quella greca!) a partire da quando – ero ancora un bambino – mi appassionai ad un bellissimo libro, Storie della Storia del Mondo, che racconta ai ragazzi la guerra di Troia: scritto da Laura Orvieto ai primi del Novecento, è uno straordinario evergreen che, dopo più di un secolo, è in pubblicazione ancora oggi”.
Fabio Calabrese: “Immagino che questa sua “intrusione” sarà stata vista in maniera pessima dagli specialisti titolati del settore”.
Felice Vinci: “Questo all’inizio è stato senz’altro vero. Ma da tempo la situazione è cambiata: a riprova di ciò sta il fatto che negli ultimi sono stato invitato a presentare la mia tesi in varie Università italiane: ad esempio Pavia (cinque volte), Roma, Padova ecc. In particolare, l’Università La Sapienza di Roma nel giugno 2012 ha tenuto un convegno intitolato “Le origini nordiche dei poemi omerici” e, successivamente, la prestigiosa Rivista di Cultura Classica e Medioevale – fondata da Ettore Paratore e considerata una delle più autorevoli riviste di Filologia Classica a livello internazionale – ha pubblicato un numero monografico di oltre 350 pagine, intitolato La Scandinavia e i poemi omerici, tutto dedicato alla mia teoria, con contributi di studiosi italiani e stranieri (tra cui, ad esempio, la Prof. Ilze Rumniece, preside della Facolta di Lettere dell’Università di Riga). Ma potrei fare molti altri esempi: una lusinghiera recensione a suo tempo uscì sull’accademico “Bollettino della Società Geografica Italiana” a firma del Prof. Claudio Cerreti, Ordinario di Geografia presso l’Università di Roma, per non parlare del seminario in due lezioni da me tenuto presso il Dipartimento di Geografia della Facoltà di Lettere della Sapienza, nell’ambito di un corso, intitolato “Il mare: mito e letteratura”, dove Omero nel Baltico era indicato fra i testi d’esame. Per quanto riguarda l’estero, qui mi limito a segnalare che l’edizione USA del libro, intitolata The Baltic Origins of Homer’s Epic Tales, è stata adottata nel Bard College di New York come libro di testo per gli studenti nell’ambito di un corso di alti studi su Omero; inoltre il Prof. Mullen, titolare di Classics al Bard, con alcuni dei suoi allievi nel 2006 ha effettuato un viaggio in barca a vela nel Baltico (http://vteam06.googlepages.com/), seguendo le rotte indicate nel mio libro, con il finanziamento di un importante Istituto oceanografico americano. Così pure, “ARION. A Journal of Humanities and the Classics” dell’Università di Boston nel 2007 ha dedicato un articolo di 35 pagine a questo argomento. Sono stato anche invitato a presentare la mia tesi nell’ambito di convegni internazionali dell’Università di Vancouver e dell’Università di Riga. Inoltre, i professori del Dipartimento di Filologia Classica dell’Università russa di Saransk hanno integralmente tradotto il libro e lo hanno pubblicato in Russia, diffondendolo presso le università ed i circoli accademici e culturali: io stesso sono stato invitato a presentare l’edizione russa del libro all’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo. Inoltre, mi piace qui riportare i commenti di due studiosi tedeschi all’edizione recentemente uscita in Germania (intitolata Homer an der Ostsee):
“I have now read your book from cover to cover, and I am deeply impressed. Your geographic and meteorological arguments are very strong, and I anticipate that after the usual period of hesitation, scholars of classical antiquity will accept them” (Theo Vennemann, linguista).
“More and more I am convinced that you will enter the Olympos of science with your extraordinary work and book” (Wilhelm Kaltenstadler, storico)”.
Fabio Calabrese: “Un’altra domanda in certo modo collegata alle prime due: leggendo il suo libro, questo mondo baltico-acheo balza agli occhi con vivida completezza e, diciamolo pure, una forte fascinazione, e viene da chiedersi quale sia stato il punto di partenza di questa sua indagine che ci restituisce un’immagine così inedita del nostro passato”.
Felice Vinci: “Parlando in generale, sono partito da un dato di fatto: mi riferisco all’entità delle discrepanze geografiche del mondo omerico rispetto a quello mediterraneo, sin dai tempi antichi sbrigativamente liquidate con la famosa frase “Omero è un poeta e non un geografo”, che peraltro mal si concilia con la rimarchevole coerenza interna della geografia omerica. D’altronde già nel II secolo a.C. un grande studioso dell’antichità, Cratete di Mallo, ipotizzava una collocazione nordico-artica delle avventure di Ulisse, che successivamente anche Strabone avrebbe collocato nell’oceano Atlantico. Però il vero punto di partenza della mia ricerca risale al 1991, allorché Adelphi pubblicò Il volto della luna, ossia la traduzione del dialogo De facie quae in orbe lunae apparet di Plutarco, che, detto per inciso, è un’opera assai importante nella storia della scienza: sembra infatti che Copernico e Newton abbiano tratto ispirazione da alcuni passi in esso contenuti per costruire le loro teorie sull’eliocentrismo e, rispettivamente, sulla gravitazione, le quali sono alla base della scienza moderna. Ed è qui che Plutarco fa l’affermazione-chiave da cui ha preso le mosse la mia ricerca, ossia che Ogigia (l’isola di Calipso che rappresenta sia il punto d’arrivo delle famose avventure di Ulisse, sia l’inizio del suo ritorno a casa) si trova nell’Atlantico settentrionale, ad una latitudine molto elevata.
Ciò mi ha spinto innanzi tutto a cercarla in quell’inedito contesto – si tratta di una delle isole Faroer – e poi a ripercorrere la rotta della zattera di Ulisse da Ogigia alla Scheria nel suo lunghissimo e periglioso viaggio non-stop in direzione est, verso la terra dei Feaci, collocabile sulla costa meridionale della Norvegia, dove si trovano straordinarie conferme di tutte le indicazioni dell’Odissea (non solo geografiche: ad esempio, il timore, ripetutamente espresso dai Feaci, che l’ira di Poseidone minacciava di seppellirli sotto una montagna, ha recentemente trovato un incredibile riscontro proprio in quella regione, dove gli archeologi hanno riportato alla luce un arcaico abitato preistorico, da essi significativamente ribattezzato “mini-Pompei”, sepolto millenni fa da un’enorme duna di sabbia spostata dal vento durante una tempesta marina)”.
Fabio Calabrese: “Qualcuno però contesta l’attendibilità di quella frase di Plutarco, essendo lui un autore già di epoca romana, relativamente tardo”.
Felice Vinci: “Qui devo subito far presente che, se la collocazione di Ogigia nel nord Atlantico fosse stata una mera fantasia di Plutarco, non saremmo arrivati da nessuna parte; sta di fatto invece che, partendo proprio da lì, si ritrova la localizzazione originaria del mondo omerico nel nord dell’Europa – dotata di una fortissima coerenza geografica, climatica, morfologica e descrittiva, del tutto assente nel tradizionale contesto mediterraneo – e ciò rappresenta una prova a posteriori della validità dell’indicazione plutarchea. Ma non solo: un chiaro accenno ad un “Ulisse nel nord”, in chiave più di antica memoria che di mera ipotesi letteraria, lo troviamo anche in Tacito: “Alcuni credono che anche Ulisse nel suo lungo e leggendario peregrinare sia giunto in questo Oceano e sia approdato alle terre della Germania” (Germania, 3, 2). Anche Tacito non cita le sue fonti; tuttavia il fatto che egli sia pressoché contemporaneo di Plutarco ci dà lo spunto per fare qualche ipotesi. Entrambi infatti vissero a cavallo tra il I e il II secolo d.C., allorché la maggior parte della Gran Bretagna, oltre che la Gallia, era ormai sotto il dominio romano.
Pertanto è ragionevole supporre che leggende e racconti tramandati dai bardi locali di generazione in generazione, in condizioni ottimali per la loro conservazione attraverso i secoli proprio grazie all’insularità della regione, stessero ormai filtrando anche tra i conquistatori. Insomma le fonti delle notizie sull’ “Ulisse nordico” e su Ogigia potrebbero essere riconducibili al mondo celtico, e particolarmente a quello insulare, con la sua lunghissima tradizione orale di matrice druidica, che proprio la dimensione isolana ha contribuito a preservare. A conferma di ciò, proprio nel racconto di Plutarco troviamo un illuminante accenno ad una fonte di questo tipo, allorché, subito dopo aver indicato la posizione di Ogigia e delle isole adiacenti, l’autore afferma testualmente: “I barbari si tramandano che in una di esse Crono è tenuto prigioniero da Zeus”. E’ evidente il riferimento alla tradizione orale di quelle popolazioni, che nel mondo greco-romano erano definite barbaroi. Ora, nel mondo celtico del I secolo d.C. i custodi della tradizione orale erano i druidi, figure complesse di sacerdoti-medici-poeti-intellettuali, che avevano anche un grande peso politico.
Quanto poi a Tacito, era genero di Giulio Agricola, il primo governatore romano della Britannia (attorno all’80 d.C.), il quale durante il suo mandato inviò una flotta romana a fare una circumnavigazione esplorativa della grande isola: pertanto lo storico romano potrebbe aver avuto notizie di prima mano direttamente dal suocero riguardo alla tradizione orale del druidismo. Notiamo anche che il personaggio della dea Calipso, signora di Ogigia, è quello più caratterizzato in senso “celtico” tra quelli descritti nell’Odissea: meta tipica degli immram, i viaggi per mare degli eroi celtici, sono infatti le isole paradisiache situate in mezzo all’oceano, nell’estremo occidente – proprio come Ogigia – dove vivono donne divine che rifocillano ed amano gli eroi colà giunti, e possono anche conceder loro l’immortalità e l’eterna giovinezza (che infatti Calipso promette ad Ulisse). Pertanto non è sorprendente che notizie relative a Ogigia, collocata in un arcipelago che in senso lato si può considerare appartenente alle isole britanniche, siano state acquisite dal mondo romano proprio all’epoca della sua massima espansione in quell’area (invece Strabone e Cratete di Mallo, nati rispettivamente uno e due secoli prima di Tacito e Plutarco, ovviamente non vissero abbastanza a lungo per intercettarle)”.
Fabio Calabrese: “Una persona che non nominiamo le ha mosso l’obiezione che questa ipotesi dell’Omero baltico sarebbe poco originale, poiché risalirebbe agli anni ’70 e si fa in particolare il nome di Piggott, i cui contributi lei stesso cita. A me quest’obiezione sembra poco fondata, perché qui non è questione di copyright come nel caso di un’opera letteraria, tuttavia essa potrebbe essere facilmente rovesciata, e chiedersi perché se interpretazioni di questo tipo sono in circolazione da tre o quattro decenni, né l’archeologia ufficiale né gli studiosi accademici di letteratura omerica sembrano averle prese in considerazione”.
Felice Vinci: “Beh, lasciamo i malevoli (perché qui di malevolenza si tratta) e gli invidiosi a cuocere nel loro brodo! Stuart Piggott è stato un grande archeologo ed accademico inglese di archeologia preistorica, il quale ha evidenziato sia le affinità tra il mondo omerico e quello dell’Europa settentrionale, sia le convergenze tra la civiltà micenea in Grecia e la cultura del bronzo del Wessex (quella che ha prodotto Stonehenge). È pertanto sulla stessa linea di altri importanti studiosi come lo svedese Martin Nilsson ed il notissimo Bertrand Russell, il quale all’inizio della sua Storia della filosofia occidentale scrive che la civiltà micenea trasse origine dai “biondi invasori nordici che portavano con sé la lingua greca”. Però a nessuno di loro è mai venuto in mente di fare l’ultimo passo, quello che ho fatto io basandomi anche sui loro scritti, cioè riconoscere che l’originaria ambientazione dei poemi omerici non è affatto mediterranea, bensì genuinamente nordica”.
Fabio Calabrese: “Le principali prove, almeno quelle più ricorrenti, alla sua teoria sembrano essere quelle basate sulla toponomastica, prove che per loro natura non possono essere conclusive, somigliano a una sorta di test rorschach, Quali riscontri ci sono a livello archeologico?”
Felice Vinci. “Innanzi tutto, per sgomberare il campo da equivoci e fraintendimenti, tengo a sottolineare che nella mia ricerca i toponimi hanno soprattutto valore di traccia o di indizio, mentre la base fondamentale su cui essa poggia è costituita dalle straordinarie concordanze geografiche, morfologiche, descrittive e climatiche del mondo omerico con quello nordico, verso cui ci ha indirizzato la segnalazione iniziale di Plutarco, a cui fanno riscontro le macroscopiche contraddizioni che emergono allorché viene calato – o meglio, “forzato” – in quello mediterraneo. Solo per ricordare qualche esempio fra i tantissimi che potrei fare, pensiamo alle discrepanze tra la morfologia delle omeriche Micene e Calidone e quella delle omonime città greche (ma anche Platone parla delle differenze morfologiche, che non sa spiegare, tra il territorio la “sua” Atene greca e quello della mitica Atene primordiale da lui descritta nel Crizia); all'”impossibile” contiguità, segnalata dall’Iliade, tra l’Argolide e il Pilo; all’assurda rotta del ritorno di Agamennone da Troia a Micene per il Capo Malea (che è come dire che, per navigare a Genova a Napoli, occorre passare dallo Stretto di Messina!); alla troppo breve durata della traversata di Telemaco da Itaca a Pilo, a cui fa seguito il suo velocissimo, e sin troppo agevole, viaggio su un cocchio da Pilo a Sparta “attraverso una pianura ferace di grano” laddove nel contesto greco bisogna oltrepassare impervie catene di monti; all’assurdità dell’Alfeo “che scorre largo per la terra dei Pili”, mentre l’Alfeo greco, il cui letto per un lungo tratto è incassato fra le montagne, scorre da tutt’altra parte; alla lontananza degli alleati dei Troiani dalla zona dei Dardanelli; alla singolare vocazione della Ftia a fungere da terra d’asilo per i fuggiaschi; alle differenze fra il pantheon omerico e quello esiodeo; all’introvabilità di popoli come i Feaci e di regioni come la Scheria; alla singolare dieta degli eroi omerici, basata sulla carne di bue e di maiale, mentre sulle loro mense non compaiono mai né olio, né olive, né fichi (!); alla grande battaglia che prosegue per due giorni consecutivi fra Achei e Troiani senza interrompersi per l’oscurità, ecc. ecc.: tutte queste, e tante altre, sono contraddizioni che invece nel contesto nordico si risolvono immediatamente.
Ciò premesso, anche l’archeologia ci dà le sue conferme: oltre al fatto che l’origine nordica dei Micenei è attestata da precisi riscontri archeologici sul suolo greco, vi sono le tracce lasciate dai Micenei nella cultura inglese del Wessex ed in quella ceca di Unĕtice, precedenti al loro insediamento in Grecia, nonché le analogie riscontrate fra le sepolture micenee e quelle della Russia meridionale. Tutto ciò poi s’inquadra nel più generale discorso delle affinità tra i manufatti egei e quelli dell’età del bronzo nordica; però a questo punto vanno ricordati anche i grandi tumuli dell’età del bronzo ed i graffiti rupestri di navi presenti proprio nell’area della Norvegia meridionale dove, seguendo alla lettera le indicazioni di Omero, erano stanziati i “grandi navigatori” feaci, le rassomiglianze (finora inspiegate) tra l’imponente monumento svedese di Kivik e le coeve manifestazioni dell’arte egea… E che dire dei numerosissimi tumuli, ancora in gran parte da scavare, nel territorio di Toija? A chiudere poi definitivamente il cerchio tra il mondo omerico, la civiltà micenea e l’archeologia nordica stanno i reperti provenienti dal sito germanico di Nebra, risalente al 1600 a.C., dove da un lato le spade inequivocabilmente rimandano ai modelli micenei, dall’altro il disco di bronzo decorato con gli astri d’oro è lo straordinario pendant del firmamento riportato sullo scudo di Achille.
Vorrei ora condividere con i lettori di questa intervista una notizia molto recente: sul lago costiero di Orre, qualche chilometro a sud della foce del fiume Figgjo – indiziato per varie ragioni di essere il fiume, attiguo alla città dei Feaci, che fa da sfondo al celeberrimo incontro tra Ulisse e Nausicaa – gli archeologi hanno ritrovato i resti di un antico porto, risalente almeno all’età del ferro. Ora, poiché fra il lago di Orre e il mare vi fu una comunicazione diretta fino alla prima età del bronzo, poi venuta meno, in attesa di ulteriori indagini è logico ritenere che il porto risalga a quell’epoca. Esso si trova su una piccola penisola, protesa sul lago per oltre 400 metri e larga alla base circa 100, chiamata “Flatbaget”, che delimita due baie sui lati opposti. Nell’area vi sono diversi tumuli dell’età del bronzo, non ancora scavati, fra cui uno particolarmente grande. In attesa di notizie più dettagliate in merito al ritrovamento, osserviamo che questa disposizione corrisponde perfettamente alla descrizione della città-porto dei Feaci: «Bello su ambo i lati della città s’apre il porto/ ma stretta è l’entrata; le navi ben manovrabili lungo la strada/ son tratte in secco» (Od. VI, 263-265).
A questo punto è il caso di ricordare una scoperta importantissima, anche se tuttora poco nota: gli archeologi svedesi hanno recentemente trovato nel sito di Bjästamon, sul Golfo di Botnia, i resti di una grande città, databile addirittura al III millennio a.C., dalla struttura sorprendentemente evoluta! Concludo con un concetto fondamentale, di enorme importanza per tutto questo discorso, su cui torneremo dopo: un grandissimo archeologo come Sir Colin Renfrew, decano all’università di Cambridge, nel suo L’Europa della preistoria dimostra che, in base alle datazioni al radiocarbonio corrette con la dendrocronologia, l’età del bronzo europea, che ha molti punti di contatto con quella micenea in Grecia, non poteva assolutamente essere influenzata da quest’ultima perché è di vari secoli più antica (e non più recente, come si riteneva fino a poco tempo fa)”.
Fabio Calabrese: “Lei cita una serie di affinità fra il mondo omerico e non solo l’area baltica, ma tutto il mondo indoeuropeo, usanze, credenze religiose, miti che trovano un riscontro nella mitologia celtica e in quella indiana. Si tratta di un’area vastissima che va dall’Atlantico settentrionale al golfo del Bengala, e a questo punto mi sembra che sia proprio la collocazione baltica degli antenati degli Achei a diventare incerta”.
Felice Vinci. 2Ma perché incerta? La collocazione baltica degli Achei omerici emerge al di là di ogni dubbio dalle sue straordinarie corrispondenze geografiche con il mondo così accuratamente descritto nei due poemi! Faccio un solo esempio: l’arcipelago danese del Sud Fionia, nel Baltico meridionale, è l’unico al mondo a corrispondere perfettamente alle dettagliatissime indicazioni omeriche riguardo alle isole che stanno attorno ad Itaca. Esso infatti è costituito da tre isole principali: Langeland (l’isola “Lunga”, corrispondente alla Dulichio mai trovata nel Mediterraneo), Ærø (la Same omerica, anch’essa collocata esattamente secondo le indicazioni dell’Odissea) e Tåsinge (l’antica Zacinto). Quanto all’isola Asteride, “nello stretto fra Itaca e Same” (Od. IV, 671), dove i pretendenti si appostarono per tendere l’agguato a Telemaco, corrisponde all’attuale Avernakø. Non solo: l’Odissea ci dà un’interessantissima indicazione riguardo al numero dei pretendenti arrivati ad Itaca dalle isole vicine per fare la corte a Penelope: 24 provenivano da Same, 20 da Zacinto e 52 da Dulichio (XVI, 247-250). Confrontandoli con le aree delle isole danesi del Sud Fionia da cui i pretendenti rispettivamente provenivano: Aerø (cioè Same), 88 kmq; Tåsinge (Zacinto), 70 kmq; Langeland (Dulichio), 185 kmq, è facile verificare che i numeri dei pretendenti (24 – 20 – 52) sono quasi esattamente proporzionali alle rispettive aree (88 – 70 – 185)!
Questa è un’ulteriore sbalorditiva testimonianza del fatto che l’arcipelago del Sud Fionia effettivamente si identifica con le isole contigue all’Itaca omerica (l’attuale Lyø): quest’ultima poi, non solo per la sua collocazione nell’ambito di quell’arcipelago, ma anche per le sue caratteristiche topografiche, climatiche e descrittive corrisponde perfettamente alle indicazioni di Omero (invece l’Itaca ionia, per ammissione di tanti studiosi, dal Finley all’Enciclopedia Treccani, risulta irrimediabilmente diversa).
Fabio Calabrese: “Un aspetto della sua teoria che sinceramente mi ha sconcertato, è il ridimensionamento della figura di Ulisse. L’Iliade sarebbe una relazione molto realistica e “cronistica” della guerra di Troia, mentre l’Odissea sarebbe basata su una falsificazione: Ulisse sarebbe morto nella guerra di Troia, ma a vent’anni di distanza il figlio Telemaco l’avrebbe “resuscitato” sostituendolo con un impostore per giustificare la strage dei pretendenti della madre che gli avrebbero tolto i suoi diritti dinastici, e per dare credibilità alla cosa, sarebbe stata inventata una storia intessendo leggende e racconti dei marinai dell’epoca. E’ una rivelazione che sarà difficile da accettare per gli studiosi di Omero”.
Felice Vinci: “Comprendo perfettamente questa sua perplessità, però questo è ciò che è emerso da una lettura attentissima del testo dei due poemi (che ho letto e riletto ben sedici volte, di cui le ultime quattro direttamente sul testo greco). Lo stesso vale per certi vocaboli od espressioni di Omero, a cui io do – insieme con tutte le giustificazioni del caso – un’interpretazione diversa rispetto alla tradizione (che spesso risale agli studi degli studiosi Alessandrini, di oltre venti secoli fa, e che gli studiosi successivi non hanno mai osato mettere in discussione): ad esempio, l’omerico chermadion a mio avviso non è un semplice “masso” bensì un’ascia di pietra, e la nymphe neis, piuttosto che una fantomatica “ninfa naiade” è, assai più realisticamente, una “giovane sposa”. In realtà, da tutto l’insieme emerge una figura di Ulisse ben più problematica di quanto non sia apparsa finora: addirittura si trovano convergenze – che non sembrano casuali, anzi, sono spiegabili razionalmente – con le avventure di un eroe polinesiano che, per citare la Treccani, “ricordano stranamente quelle di Ulisse”.
Io stesso più volte mi sono chiesto se fosse conveniente parlare di tutto ciò, ben sapendo che in tal modo mi sarei esposto ad ulteriori attacchi: però alla fine ho pensato – e non me ne pento – che tutto ciò che emergeva dalla mia ricerca, e che fosse adeguatamente documentabile, dovesse essere evidenziato e sottoposto alla valutazione degli studiosi, anche se magari era in contrasto con nozioni tramandate da millenni. In ogni caso, ritengo che anche per questo argomento valga quanto scritto dal Prof. Cerreti dell’Università di Roma, ossia che tutto ciò che io metto in discussione «non è una qualche certezza scientificamente provata, ma molto più semplicemente una tradizione, che a sua volta ha sempre posto infiniti problemi di dimostrazione: una tradizione, però, radicata e quasi connaturata alla nostra cultura, al punto da rappresentare l’unica ma insieme formidabile resistenza contro qualsiasi ipotesi divergente».
Fabio Calabrese: “So che questa non è una questione che viene sollevata per la prima volta, ma lei ritiene che Omero non sia esistito, che l’Iliade e l’Odissea abbiano avuto due autori diversi, che l’autore dell’Odissea o forse una terza mano abbiano scritto o rimaneggiato il XXIV canto dell’Iliade, che in origine aveva un finale diverso, è esatto?”
Felice Vinci: “Premesso che il mio lavoro è essenzialmente di carattere geografico, per la risposta a questa domanda vale essenzialmente quanto ho già detto poco fa riguardo alla scelta di pubblicare tutto ciò che man mano emergeva dalla mia ricerca. Per cominciare, da un approfondito esame è emerso che con tutta probabilità i due poemi siano stati opera di due diversi poeti. Ad esempio, il fatto che Iris, la messaggera degli dei, sia menzionata una quarantina di volte nell’Iliade e mai nell’Odissea (dove il messaggero degli dei di regola è Hermes) mi sembra un notevolissimo indizio del fatto che i due poemi non sono opera della stessa “mano”.
I due poeti, che hanno composto i loro lavori oralmente (la messa per iscritto risale a molti secoli dopo, allorché in Grecia venne introdotta la scrittura alfabetica), a mio avviso avevano anche due personalità assai differenti tra loro: il primo cantore delle gesta dell’Iliade ha certamente visto gli orrori del campo di battaglia e probabilmente era anche un medico militare, come appare dalle sue accuratissime descrizioni del corpo umano e delle ferite, mentre il suo collega dell’Odissea dà l’idea di un personaggio, per così dire, più “da salotto”, che forse ad un vero combattimento non prese mai parte.
Riguardo poi all’ultimo libro dell’Iliade, io non sono stato certo il primo a nutrire dubbi sulla sua autenticità. Ne consegue che, nella sua versione originaria, il poema forse aveva un finale diverso da quello giunto fino a noi (che termina con i funerali di Ettore, lasciando in sospeso la sorte di Achille, anche se preannunciata più volte, e la conclusione della guerra). Ora, l’Iliade mette bene in chiaro che la morte di Achille è strettamente legata, anche temporalmente, a quella di Ettore: “Subito dopo Ettore il tuo destino è segnato” (Il. XVIII, 96); invece il testo a noi pervenuto comincia a divergere da tale schema a partire dal momento in cui, una volta ucciso Ettore, Achille, dopo aver giustamente pensato di effettuare una ricognizione attorno alle mura della città per saggiare le intenzioni dei Troiani dopo la morte del loro comandante, cambia improvvisamente idea e decide di tornare alle navi per rendere gli onori funebri a Patroclo. Da questo punto in poi, la guerra rimane sullo sfondo, anzi viene quasi del tutto dimenticata, il ritmo dell’azione, fino allora molto serrato, improvvisamente rallenta ed il lettore comincia a percepire un’atmosfera completamente diversa.
Insomma la conclusione dell’attuale Iliade praticamente lascia tutto incompiuto: essa in realtà appare funzionale all’Odissea, perché consente a quest’ultima di attribuire l’esclusivo merito della caduta di Troia ad Ulisse e alla sua assurda trovata del cavallo di legno. Invero di quest’ultimo (su cui molti secoli dopo si sbizzarrirà la fantasia di Virgilio, fiorito, non dimentichiamolo, in una civiltà lontanissima anche temporalmente dal barbarico mondo di Omero) l’Iliade non parla mai; essa invece riporta una profezia (Il. XV, 68-71) che accredita l’idea, ben più realistica, della caduta di Troia in seguito ad una serie ininterrotta di attacchi frontali che iniziano subito dopo la morte di Ettore. E dalle tenebre dell’età del bronzo europea ci arriva l’immagine quasi “cinematografica” delle fiamme che avvolsero questa Fort Alamo preistorica: “Troia in un fuoco violento tutta arderà/ incendiata, la incendieranno i figli guerrieri degli Achei” (Il. XXI, 375-376)”.
Fabio Calabrese: “Nelle parti conclusive del suo lavoro, lei estende la sua analisi dai poemi omerici alla Bibbia, identificando l’eden biblico in Scandinavia. E’ un punto che mi ha provocato forti perplessità, perché la sua teoria a questo punto sembra spiegare troppo. A questo punto verrebbe da pensare che l’intero patrimonio letterario e mitologico del mondo mediterraneo andrebbe trasposto nel Baltico, e questo non sembra molto credibile”.
Felice Vinci: “Ritengo qui necessario premettere la premessa (mi scuso per il gioco di parole) con cui ho introdotto l’ultima parte del mio lavoro: «…rivolgeremo l’attenzione ad un problema che, pur non essendo centrale rispetto alla nostra tesi, risulta ad essa indissolubilmente legato: si tratta della vexata quaestio della sede primordiale di queste popolazioni, nel cui novero si trovano gli stessi Achei omerici (…) Avremo così modo di formulare alcune ipotesi e congetture, che saranno talvolta supportate da positivi riscontri, senza tuttavia avere assolutamente la pretesa di essere arrivati a conclusioni certe e definitive; nutriamo però la speranza di poter fornire qualche traccia che serva da spunto per futuri studi e ricerche su questi affascinanti argomenti». E qui, dopo aver trovato ed studiato vari aspetti, invero non pochi né minimi, che sembrano correlare il mondo celtico (e non solo) addirittura a quello della Bibbia, in certo senso mi si è ripresentato il dilemma di poco fa: è più conveniente tenersi queste cose ben nascoste in un cassetto, paventando critiche malevole che potrebbero trarne spunto per attaccare indiscriminatamente anche il corpo principale della teoria, oppure è meglio sottoporre anche queste ipotesi per così dire collaterali all’attenzione di futuri studiosi per gli opportuni approfondimenti e le necessarie verifiche? Lei già sa quale è stata la mia risposta. D’altronde, un sommo come Galileo (ma per carità non fraintendiamo: io mi sento nessuno rispetto a lui!) se non ricordo male nel Sidereus Nuncius ha esposto una sua teoria sull’origine delle maree che si è rivelata alquanto sballata: tuttavia nessuno mette in dubbio, basandosi su questo per così dire infortunio, l’attendibilità delle sue grandi scoperte”.
Fabio Calabrese: “Vorrei concludere con un’osservazione di carattere più personale. Io sono impegnato da anni a sostenere la tesi che l’Europa antica ha avuto nella storia della civiltà un’importanza di solito sottovalutata, soprattutto riguardo alle parti di essa non mediterranee, le più lontane dall’area mediorientale, dove convenzionalmente si suppone la civiltà avrebbe avuto origine. La sua concezione di un Omero non mediterraneo mi sembra in linea con questa mia tesi. Ne conviene?”
Felice Vinci: “Certamente ne convengo! Ma penso che le farà particolarmente piacere sentire cosa dice a questo riguardo Colin Renfrew, il grandissimo archeologo e accademico che ho già citato poco fa:
«Molti di noi erano convinti che le piramidi d’Egitto fossero i più antichi monumenti del mondo costruiti in pietra, e che i primi templi fossero stati innalzati dall’uomo nel Vicino Oriente, nella fertile regione mesopotamica. Si riteneva anche che là, nella culla delle più antiche civiltà, fosse stata inventata la metallurgia e che, successivamente, le tecnologie per la lavorazione del rame e del bronzo, dell’architettura monumentale e di altre ancora, fossero state acquisite dalle popolazioni più arretrate delle aree circostanti, per diffondersi poi a gran parte dell’Europa e al resto del mondo antico (…) Fu quindi un’enorme sorpresa quando ci si rese conto che tutta questa costruzione era errata. Le tombe a camera megalitiche dell’Europa occidentale sono ora considerate più antiche delle piramidi e sono questi, in effetti, i più antichi monumenti in pietra del mondo, sì che una loro origine nella regione mediterranea orientale è ormai improponibile (…) Sembra, inoltre, che in Inghilterra Stonehenge fosse completato e la ricca età del Bronzo locale fosse ben attestata, prima che in Grecia avesse inizio la civiltà micenea. In effetti Stonehenge, struttura straordinaria ed enigmatica, può a buon diritto essere considerato il più antico osservatorio astronomico del mondo. E così, ogni assunto della visione tradizionale della preistoria viene contraddetto (…) Tutto lascia pensare che le nuove datazioni sferrino un colpo decisivo all’intero quadro di pensiero che ha dominato la discussione archeologica fino agli anni più recenti (…) Le nuove datazioni, invece, ci rivelano quanto abbiamo sottovalutato quei creativi ‘barbari’ dell’Europa preistorica, i quali, in realtà, innalzavano monumenti in pietra, fondevano il rame, creavano osservatori solari e facevano altre cose ingegnose, senza alcun aiuto dal Mediterraneo orientale (…) Pertanto i collegamenti cronologici tradizionali si spezzano e le innovazioni del Mediterraneo orientale che, si supponeva, erano state portate in Europa per diffusione, si trovavano ora ad essere presenti in Europa prima che in Oriente. Crolla così l’intero sistema diffusionista e con esso cadono i presupposti che hanno sostenuto per quasi un secolo l’archeologia preistorica. Queste sono le conseguenze di quella che può a ragione essere chiamata seconda rivoluzione del radiocarbonio» (L’Europa della preistoria).
Insomma, tutto è cambiato, ci dice il Renfrew, anche se forse qualcuno non se ne è ancora accorto”.
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