11 Ottobre 2024
Anzio Nettuno Punte di Freccia Rsi

Operazione Shingle

di Mario M. Merlino

Winston Churchill, parlando alla Camera dei Comuni, ebbe a dire con il suo linguaggio colorito: ‘Io avevo sperato di lanciare sulla spiaggia un gatto selvatico, mentre invece ci troviamo sulla riva  con una balena arenata’. Si può così sintetizzare lo sbarco di Anzio, avvenuto alle prime ore del mattino del 22 gennaio 1944. Cinquantamila soldati della VI Armata con il supporto di 500 cannoni e 400 carri armati, mezzi da sbarco, navi da battaglia fra cui 5 incrociatori, protezione dal cielo di 2600 tra caccia e bombardieri. Al comando l’americano maggiore generale John Porter Lucas con la sua pipa ricavata da un tutolo di granoturco e i molti, troppi dubbi sulla validità e riuscita dell’operazione. Una operazione, nome in codice Shingle, fortemente voluta dal premier inglese che considerava l’Italia il ‘ventre molle’ in quella che lo storico Eric Morris ha definito ‘la guerra inutile’. Prendere alle spalle i tedeschi, fortificati intorno all’abbazia di Montecassino, e giungere lesti a Roma, immagine propagandistica dell’inesorabile vittoria degli alleati. A ciò contribuiva l’insistenza di Stalin che si aprisse un nuovo fronte tale da alleggerire il peso del conflitto sostenuto dalle armate sovietiche. E, forse, attraverso l’umiliazione del nostro paese, colpire Mussolini ‘unico colpevole’ del disastro, fino a cercarne e ottenerne la morte per non portarlo davanti ad una Norimberga italiana nel timore di quelle carte, mai ritrovate e di cui il Duce non si separava mai, considerandole il mezzo per essere assolto dalla storia…

Storici e testimoni si sono divisi nel valutare l’operato di Lucas nell’usuale gioco tra detrattori e suoi difensori. Rimane il fatto che egli preferì attestarsi per rafforzare la testa di ponte lungo il litorale di Nettunia – Anzio e Nettuno, divenuti oggi due comuni a se stanti -, invece di procedere rapidamente attraverso la pianura pontina dirigendosi verso i colli Albani, Valmontone e Velletri, dove transitavano i rifornimenti per Cassino e la linea Gustav. Tre giorni che consentirono al maresciallo Kesselring di racimolare truppe sufficienti per stringere in una sorta d’assedio gli alleati. Infatti nell’entroterra i tedeschi erano ben pochi e impreparati a contrastare uno sbarco nemico.
(Tutto questo è lo scenario ove si svolge l’azione del racconto Il piccolo Badoglio, che appartiene al prossimo libro in uscita prevista primi di maggio. Dunque, mi si consenta evitare anticipazioni… se no chi se lo compra e dove finiscono i miei ‘lauti guadagni’?).
Durante i mesi che seguirono – solo il 23 maggio l’offensiva alleata riuscì ad aprirsi la strada verso Roma e costringendo le truppe tedesche a ritirarsi verso Nord in quell’inesorabile lenta, straziante per la popolazione civile sottoposta ai bombardamenti alle rappresaglie, avanzata che sarebbe culminata solo alla fine di aprile dell’anno successivo – sul fronte di Anzio apparvero i primi soldati dell’Italia che non voleva arrendersi alla logica dell’8 settembre. Il btg. Barbarigo della Decima Flottiglia Mas, mille e cento uomini al comando del capitano di corvetta Umberto Bardelli. In tre mesi di combattimento, ritirarsi e riconquistare le posizioni – sovente buche scavate nel terreno o al riparo di casali semidiroccati -, assalto all’arma bianca, duecento morti, un centinaio di dispersi e ancora feriti e mutilati. Oggi cento di quei caduti riposano in piccole cassette di zinco nel Campo della Memoria, reso cimitero di guerra dall’Onorcaduti dopo anni di burocrazia carte bollate impedimenti istituzionali e ostilità politiche. Un progetto strenuamente voluto da tutti i reduci della XMAS che si sono adoperati alla sua realizzazione. In primo luogo dall’ausiliaria Raffaella Duelli che, nell’immediato dopoguerra, andò a raccogliere i resti dispersi e pietosamente custoditi nella tomba di famiglia al cimitero del Verano. E dall’architetto Alessandro Tognoloni, che ha disegnato la struttura, già sottotenente che con il suo plotone respinse i mastodontici Sherman a bombe a mano, decorato di medaglia d’oro alla memoria, dato per morto e recuperato con il fianco squarciato dagli americani, curato e portato negli Stati Uniti, nel campo di prigionia di Hereford per non cooperatori.
E il btg. Degli Oddi, inquadrato nelle SS, seicento cinquanta uomini in grigioverde con le mostrine e l’elmetto tedesco, che dopo l’8 settembre s’era immediatamente schierato con l’alleato germanico. Al gagliardetto del battaglione fu concessa la medaglia d’argento al valor militare. Fra i pochi sopravvissuti il conte Pio Filippani Ronconi, orientalista di fama, che si presentava alle cerimonie commemorative con il suo berretto a visiera delle SS. Ricordo che, in una di queste occasioni, tre giovani camerate mi chiesero se potevo presentarle e lui: ‘Siate degne madri di futuri eroi!’… E i barchini d’assalto e gli aerosiluranti, fra cui il capitano pilota Carlo Faggioni. E i paracadutisti che si batterono fino alle porte di Roma dove, a Castel di Decima, cadde il loro comandante, il maggiore Mario Rizzatti. Si era lanciato contro un carro armato con il mitra e scagliando una bomba a mano. Gli fu concessa la medaglia d’oro così come al diciassettenne Ferdinando Camuncoli, il cui padre Ezio era un noto letterato e direttore di giornali nella RSI. (Era stato proprio Ezio Camuncoli a diffondere la notizia del bombardamento del Tempio Malatestiano di Rimini e dell’episodio, forse immaginario, della ragazza romagnola che aveva portato su un campo minato dei soldati canadesi e che aveva ispirato il poeta Ezra Pound per Corrispondenza Repubblicana, uno dei due Cantos scritti direttamente in italiano).
Ultima annotazione. Sono nato il 2 giugno 1944, nelle prime ore del mattino. Due giorni prima che gli alleati entrassero a Roma. Raccontava mio padre che, mentre nascevo, una sottile fila di soldati tedeschi sfilava lungo i muri di via dell’Olmata per raggiungere alcuni camion sulla piazza di Santa Maria Maggiore e, su questi, ritirarsi verso Nord. Con i fucili puntati verso i tetti e le finestre nel timore d’un attacco partigiano, che in effetti non vi fu. L’ultimo della fila, arrivato di fronte al portone della clinica di Santa Elisabetta, retta da suo
re tedesco-polacche, abbandonò il fucile e vi cercò rifugio. Per lui la guerra era finita. Ho sempre voluto credere, con immotivata presunzione, che qualcuno – e quel qualcuno ero io – dovesse raccogliere l’arma abbandonata. Per il Fascismo, per l’Europa…

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