Gli analisti politici in genere distinguono i motivi per cui si può esprimere un voto a determinati partiti o, in genere, riconoscersi in una data collocazione politica – che non si esprime sempre necessariamente in un voto, anzi oggi comincia a essere sempre meno collegata al rito elettorale, dato il crescente fenomeno dell’astensione come forma di protesta – in motivi di opinione e motivi di appartenenza.
Si può, in poche parole, riconoscersi in un determinato orientamento perché si è razionalmente convinti della bontà di ciò che esso propone, oppure per motivi di appartenenza familiare, di amicizie, di colleganza, del perché in passato si è compiuta una scelta a favore di un certo schieramento anche se attualmente non se ne condivide la linea, eccetera, eccetera, in una gamma quasi infinita di motivazioni.
In Italia, è cosa risaputa, l’appartenenza prevale nettamente sull’opinione, da qui una certa fissità nel ripartirsi in campi avversi più o meno bloccati della nostra opinione pubblica. Non dico che questo sia un bene o un male, è semplicemente un fatto. Se noi consideriamo il fatto che da settant’anni dobbiamo lottare per la sopravvivenza di una concezione del mondo che oggi è marginale ed emarginata, questa “viscosità” italica, il fatto che un’opinione politica non sia una cosa che si cambia con estrema facilità, che sia in qualche modo simile a una fede religiosa (o al tifo per una squadra di calcio), è un vantaggio ma il rovescio della medaglia, lo svantaggio è che fra le persone che in qualche modo si riconoscono in un’area “nostra” è estremamente difficile formulare un’idea, un concetto, una serie di idee e di concetti che siano ampiamente condivisi, proprio perché il legame fra appartenenza e opinione è spesso evanescente.
Se guardiamo quel che accade sul fronte a noi opposto, a sinistra in particolare, vediamo che vi sono due “anime” facilmente riconoscibili, quelli che possiamo chiamare i post-comunisti e i neo-comunisti. Per i primi, l’esperienza della bandiera rossa e del movimento operaio è qualcosa di definitivamente smaltito: sono radical-democratici talvolta radical-chic, il cui oracolo è “La Repubblica”, desiderosi di estendere a livello planetario la democrazia, la globalizzazione, il mondialismo, di dare il voto agli immigrati; la loro forza di riferimento è il PD, ma guardano con simpatia anche a Monti e al “governo dei professori”. I neo-comunisti sono invece nostalgici del ’68, no global, no TAV, attivisti dei Centri Sociali e con un rimpianto nemmeno troppo mascherato per i bei tempi dell’Unione Sovietica.
Se guardiamo nelle nostre fila, benché numericamente molto più esigue, dobbiamo ammettere che pressappoco ci sono tante “anime” quanti sono i militanti. Almeno, è questa la spiegazione di certi atteggiamenti che altrimenti sarebbero poco comprensibili, almeno se partiamo dal presupposto che sia soprattutto la gente di idee “nostre” a frequentare i nostri siti.
Vi cito in proposito un fatto che ha del sorprendente: se voi credete che nel mondo attuale, nel mondo di internet, della cosiddetta comunicazione globale esista una libera circolazione delle informazioni, che non esista una censura, una selezione delle stesse, che informazioni sgradite al sistema non filtrino senza enorme difficoltà, vi sbagliate di grosso.
La caduta dell’Unione Sovietica ha portato all’apertura degli archivi segreti del Cremlino da cui sono uscite molte cose in grado di rivoluzionare l’idea che noi abbiamo della storia del XX secolo. In particolare dal 1992 hanno cominciato a essere pubblicati una serie di libri firmati Viktor Suvorov, ma il vero nome del cui autore è Vladimir Rezun, ex agente del KGB che portano una serie di prove che l’evento centrale della seconda guerra mondiale, l’Operazione Barbarossa, l’attacco tedesco all’Unione Sovietica non fu che una mossa disperata intesa a prevenire un’imminente offensiva sovietica contro l’Europa occidentale.
In Italia, naturalmente, dove la cultura e la storiografia sono soffocate da un plumbeo conformismo di sinistra, non solo i libri di Rezun-Suvorov non sono mai stati tradotti, ma fino a pochissimo tempo fa non se n’è saputo nulla. Qualche tempo fa, tuttavia, è girata un po’ in internet la traduzione di una recensione cumulativa di questi testi, anch’essa piuttosto datata ad opera di Daniel W. Michaels pubblicata sul numero di luglio-agosto 1998 di “The Journal of historical Rewi
ev”.
ev”.
La conclusione è lampante, e ribalta decenni di pregiudizi:
“Questo attacco, [l’operazione Barbarossa] insiste Suvorov, fu un enorme e disperato azzardo. Ma, minacciato da forze sovietiche superiori pronte a schiacciare la Germania e l’Europa, Hitler non aveva altra alternativa che lanciare il suo attacco preventivo.
(…).
Nella primavera del 1945, truppe dell’Armata Rossa riuscirono ad issare la bandiera rossa sul palazzo del Reichstag a Berlino. Lo dobbiamo agli immensi sacrifici delle forze tedesche e dell’Asse se le truppe sovietiche non sono riuscite ad issare la bandiera rossa a Parigi, Amsterdam, Copenhagen, Roma, Stoccolma e, forse, Londra”.
Il fascismo “male assoluto”? No, scudo dell’Europa contro l’aggressione della più bestiale tirannide di tutti i tempi.
Mi sembrava importante fare quanto era in mio (modestissimo) potere per diffondere a mia volta un documento di questa importanza. In più, potevo aggiungere qualche tassello per mio conto. Sembra strano, ma sessant’anni fa, nei momenti più accesi della Guerra Fredda si poteva parlare di certe cose con maggiore libertà di oggi, perlomeno non c’era l’obbligo di non parlare male del comunismo senza aggiungerci la falsa precisazione che comunque le sue atrocità andavano “nel senso della storia” ed erano comunque scusabili di fronte al “male assoluto” fascista oggi più demonizzato di allora perché dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica è solo questa demonizzazione a fornire un pretesto al perpetuarsi della dominazione americana sull’Europa.
Nel dopoguerra, un industriale americano, George Racey Jordan che durante il conflitto era stato ufficiale di collegamento con i sovietici, pubblicò i diari relativi a tale esperienza; anche questa documentazione non mi risulta sia stata pubblicata in italiano, ma su “Selezione” del febbraio 1953 ne fu pubblicato un estratto. Oggi questo fascicoletto è praticamente introvabile.
Dai diari del maggiore Jordan risulta non solo la totale malafede dei sovietici che approfittarono della collaborazione per installare negli USA una ramificata rete spionistica, ma anche l’anomalia del comportamento delle alte sfere della politica e delle forze armate americane che, o agirono con sorprendente irresponsabilità e dabbenaggine, oppure si proponevano finalità molto diverse da quelle dichiarate alla loro opinione pubblica, poiché fornirono ai sovietici non solo una profusione di materiale bellico, ma i piani segreti dell’arma nucleare assieme a una scorta di materiale fissile, nonché beni di lusso in abbondanza per i minuti piaceri della nomenklatura del Cremlino.
Basandomi su questi due documenti e aggiungendovi alcune considerazioni sulle testimonianze della partecipazione italiana alla campagna di Russia, ho scritto un articolo, “La grande menzogna patriottica”, che è stato pubblicato sul sito del Centro Studi La Runa.
Le testimonianze che prendevo in considerazione erano quelle contenute nei due libri di due reduci, “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi e “Il sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern; due testi che sono anche un esempio da manuale di come raccontando un evento e sottolineando certi aspetti piuttosto che altri, se ne possono dare interpretazioni opposte. L’episodio più importante e tragico della partecipazione italiana al conflitto tedesco-sovietico fu, è noto, la ritirata dei nostri soldati dal Volga al Don conseguente al crollo del fronte di Stalingrado, che fu, per la mancanza di mezzi motorizzati, un’estenuante marcia a piedi in condizioni climatiche tremende e già circondati dal nemico.
Il libro di Bedeschi non nasconde certo le condizioni drammatiche in cui il nostro contingente si venne a trovare, per la disorganizzazione e la mancanza di mezzi, ma la battaglia di Nikolajewka nella quale la divisione alpina Tridentina sfondò l’accerchiamento nemico permettendo ai superstiti dell’estenuante ritirata di salvarsi, la lotta eroica in condizioni disperate di inferiorità numerica e di mezzi, che trova un parallelo solo nell’altrettanto eroico comportamento dei paracadutisti della Folgore a El Alamein, è descritta con i toni dell’epopea.
Rigoni Stern, invece insiste sullo sbandamento, e verrebbe da dire sullo sbracamento delle nostre truppe durante la ritirata. In più sembra nutrire un odio sviscerato verso i Tedeschi; ingigantisce un episodio marginale: alcuni soldati tedeschi si impadroniscono di alcuni camion che i nostri avevano abbandonato essendo rimasti senza benzina e che quindi non avrebbero comunque potuto utilizzare. I Tedeschi diventano così i responsabili della tragedia che ha colpito il contingente italiano.
Del brutale trattamento inflitto dai Sovietici ai prigionieri in spregio alle convenzioni internazionali, neppure una parola (ed è davvero un peccato che nell’articolo non abbia pensato di citare una lettera di risposta di Palmiro Togliatti a Stalin, emersa anch’essa dagli archivi sovietici dopo il 1991; consultato dal dittatore in merito all’opportunità di riservare ai nostri prigionieri un trattamento meno disumano che ai tedeschi, il suo lacchè e capo del PCI postbellico rispose che non era il caso di avere alcuna pietà: ogni nostro soldato morto significava una famiglia antifascista in più; non c’è niente da fare: comunista significa sempre, comunque, dovunque bastardo e assassino).
Del comportamento degli alti comandi antifascisti e legati alla monarchia che, sperando in una sconfitta per sbarazzarsi del fascismo, sabotarono le nostre forze armate e nascosero a Mussolini lo stato di impreparazione e disorganizzazione del nostro esercito e condussero un gioco sporchissimo sulla pelle dei nostri soldati, nemmeno.
I due libri sono andati incontro a fortune molto diverse: quello di Bedeschi non so neppure se oggi sia più ristampato, mentre “Il sergente nella neve” è diventato un testo di lettura per le scuole e ne è stata fatta anche una riduzione teatrale.
In più, notavo, quello “Stern”, secondo cognome del “Sergente nella neve”, farebbe pensare a un’origine ebraica, ma non è che la cosa sia di per sé molto rilevante.
Ora diciamolo in tutta franchezza: i commenti anonimi o pseudonimi o con generalità incomplete che non consentono di risalire al loro autore hanno la stessa dignità delle lettere anonime. Parlando delle reazioni suscitate da questo articolo come da quello pubblicato su “Ereticamente” che vedremo subito dopo, non intendo dare ai loro autori una risposta che non meritano, ma analizzare una certa mentalità.
Tale Filippo ha commentato “Ma, leggere sta roba fa veramente cadere …le braccia”. Date le motivazioni che adduce, viene da pensare che le sue …braccia siano davvero male attaccate se cadono con tanta facilità. Precisa che in questo caso “Stern” il secondo cognome del sergente Rigoni non è di origine ebraica ma cimbra (i Cimbri sono la popolazione di origine germanica insediata sull’altopiano di Asiago); ne prendo atto, ma è un particolare di scarsa rilevanza che non muta la sostanza del discorso; asserisce poi che “Chiunque abbia letto Rigoni Stern e Bedeschi non può avere dubbi sui motivi delle rispettive fortune letterarie”. Ma dico, siamo davvero così ingenui da pensare che il fatto di essere politicamente allineati in un certo modo non c’entri per nulla? Altro non c’è per giustificare l’attribuzione al mio articolo dei suoi fastidiosi problemi … ortopedici.
La sfilza, piuttosto lunga, dei restanti commenti al mio articolo mi ha sconcertato: la discussione si è incentrata sulla questione delle origini ebraiche o cimbre del sergente Rigoni, cosa in ultima analisi del tutto irrilevante (come se per il fatto di essere “gentili” non si potesse essere lontani dall’obiettività), perdendo del tutto di vista il senso importante dell’articolo, cioè il fatto che alla luce di quanto emerso dagli archivi del Cremlino la storia della seconda guerra mondiale andrebbe completamente riscritta.
Io non posso – ovviamente – sapere se il signor Filippo non sia per caso una persona di tutt’altro orientamento politico per caso capitata sul sito della “Runa”, ma diciamo che anche se fosse “dei nostri” non me ne stupirei troppo, e conosco la psicologia abbastanza da sospettare che se gli argomenti che adduce non giustificano l’intensità della sua reazione emotiva, essa è certamente spiegata da qualcos’altro. Che cosa? Anche qui mi sentirei di avanzare un’ipotesi.
Io ho fatto un chiaro riferimento al valore dei nostri soldati rivelatosi tanto più nelle circostanze drammatiche di una lotta disperata in condizioni di inferiorità numerica e di mezzi, Nikolaewka come El Alamein, come tanti episodi della prima guerra mondiale. Non è la prima volta che lo osservo: di fronte alle prove storiche evidenti che smentiscono il cliché, lo stereotipo che cercano di darci a bere da settant’anni dell’italiano opportunista e vigliacchetto, molti non sanno cosa replicare, ma restano con …le braccia cadenti, attaccati a quest’immagine che non ci fa certo onore.
E’ una cosa che ho osservato più volte: negli ambienti “nostri” tutto ciò che è interpretabile come patriottismo, italianità, dà spesso un fastidio non minore di quello che fino a poco tempo fa si riscontrava “a sinistra”, anche se oggi in un perverso gioco delle parti “i compagni” sembrano aver capovolto il loro orientamento ed essersi scoperti ferventi patrioti, in realtà per dare fastidio alla Lega, per farci digerire l’accostamento fra il risorgimento e la cosiddetta resistenza, per indorarci la pillola della dissoluzione del nostro popolo in un’ibrida realtà multietnica, per una serie di motivi che sono l’esatto opposto di un reale sentimento identitario.
Per essere chiari, Filippo e l’anonimo estensore del commento che segue illustrano bene lo scarto fra opinione e appartenenza, ed entrambi ci richiamano involontariamente all’esigenza di avere un’idea precisa riguardo al concetto di identità.
Ultimamente ho pubblicato su “Ereticamente” un articolo, “Il paradosso e l’equivoco”. Il paradosso è, a mio modo di vedere, quello delle declinanti fortune del nostro ambiente in un momento in cui, mai come ora, ci sarebbe bisogno di una forte presenza “nostra”; l’equivoco è quello di scambiare le nostre concezioni con “la destra”, l’atlantismo, il filo-americanismo, cose che di certo non ci appartengono ma che siamo trovate appiccicate in conseguenza della situazione creata dalla Guerra Fredda, ma che ormai dovremmo scrollarci decisamente di dosso, essendo la stessa cessata da quasi un quarto di secolo. Vi trascrivo il commento di qualcuno che non ha ritenuto opportuno firmarsi in alcun modo.
“Non vi è nulla di positivo nel MSI: l’atlantismo è la Destra,il capitalismo, una delle due teste del mostro che è il Sistema. Per quanto riguarda l’Italia del tricolore giacobino e massonico, non esiste: è stata voluta proprio dal Sistema che a parole siamo tutti capaci di combattere. Non si può combattere il Male con il Male: l’unica riscossa identitaria europea e dei suoi veri popoli non può prescindere dallo smantellamento dei farseschi nazionalismi ottocenteschi, per una Fortezza Europa costituita non da Stati-apparato come l’Italia unitaria, ma dalle vere etnie europee”.
Riguardo al vecchio MSI io esprimerei una maggiore cautela: ultimamente ho avuto su questo argomento una discussione epistolare con Maurizio Barozzi della FNCRSI, persona che ritengo bene informata e attendibile nelle sue valutazioni, che mi ha espresso l’opinione che l’impulso alla costituzione del MSI sarebbe venuto da ambienti atlantici che intendevano catturare l’opinione pubblica “nostra” in direzione atlantista e filo-americana, ma bisogna anche tenere conto del fatto che negli anni nelle sue fila hanno militato tanti camerati in buona fede.
Per quanto riguarda destra, atlantismo, filo-americanismo, filo-sionismo magari, assolutamente d’accordo.
Ciò su cui invece non posso proprio assolutamente convenire, è la presunzione dell’inesistenza della nazione italiana. Se l’anonimo avesse ragione, quanto meno non si capirebbe perché mai i pupari del grande capitale finanziario internazionale che stanno dietro ai burattini della BCE e della UE mirino così scopertamente alla dissoluzione degli stati nazionali a favore della pseudo-Unione Europea, mentre non è un mistero capire perché questa vecchia favola marxista che le nazioni sarebbero una creazione artificiosa della borghesia liberale ottocentesca, alla quale i “compagni” mostrano di aver smesso di credere (con l’eccezione forse di qualche professore che avendo insegnato sciocchezze per tutta la vita, non può che continuare a farlo), debba avere ancora credito nei nostri ambienti.
Il fatto è che ci troviamo stretti in una bella contraddizione: da un lato il sentimento di appartenenza alla “natio” dovrebbe essere il primo, il più evidente marchio della nostra identità, dall’altro non possiamo nasconderci il fatto che il movimento risorgimentale è andato a inserirsi in un moto complessivo di sovversione e decadenza dell’Europa, che il vero volto delle rivoluzioni liberal-democratiche in cui anche il nostro risorgimento è inserito, era il movimento tendente a spostare il potere “dai castelli alle banche”, la sostituzione dell’aristocrazia del sangue con l’oligarchia del denaro.
Che l’idea stessa di Italia nasca con le rivoluzioni liberali ottocentesche, questa è una sciocchezza marxista (una delle tante), e non occorre una profonda conoscenza storica per dimostrarlo. Certamente vi ricordate il lamento di Dante per la disunione della nostra Penisola: “Ahi, serva Italia”, e prima di lui Guittone d’Arezzo, “Ora è stagion di tanto dolore”, poi “All’Italia” di Petrarca, il lamento che Michelangelo mette in bocca alla sua “Notte” nelle Cappelle Medicee. Per non parlare di Machiavelli, pronto a sacrificare qualunque cosa a un “Principe” capace di creare un forte stato nazionale, ma anche Guicciardini elenca fra i suoi desideri quello di vedere l’Italia libera dallo straniero, per arrivare fino a Leopardi, figlio della piccola nobiltà provinciale che, pur estraneo al movimento romantico, scrive anch’egli un’ode “All’Italia” i cui sentimenti patriottici non sono meno forti di quelli dei romantici stessi né del Petrarca. Farsi da Dante e Guittone, questi nostri intellettuali erano forse dei veggenti che presentirono l’invenzione borghese ottocentesca con cinque-sei secoli d’anticipo?
Riguardo alla questione risorgimentale; nel 2011 sono caduti i centocinquanta anni dell’unità nazionale e, come era prevedibile, sono stati accompagnati da un acceso dibattito fra “patrioti” e anti-risorgimentali. Io ho dedicato alla questione un ampio saggio, “Il grande equivoco” che è stato pubblicato sul n. 70 de “L’uomo libero”. Ve ne riassumo la tesi: A mio parere tutti quanti, che si collochino nell’uno o nell’altro schieramento, hanno confuso due cose molto diverse che sarebbe invece mantenere ben distinte: una, l’insorgenza spontanea del nostro popolo che ha ritrovato un orgoglio e una dignità dopo secoli di oppressione e dominazioni straniere, l’altra, TUTT’ALTRA COSA, un movimento di uomini, collegati al liberalismo-massoneria internazionale che a un certo punto si è impadronito di questa insorgenza, l’ha per così dire CONFISCATA per le proprie finalità; il caso è tutto sommato abbastanza analogo a quello rappresentato dalla storia dei movimenti socialisti dove l’ansia di riscatto sociale del socialismo umanitario delle origini è stata del pari CONFISCATA e distorta ai propri fini dalla tirannide bolscevica.
Sono numerosi gli episodi che dimostrano che la favola marxista del carattere esclusivamente borghese del moto risorgimentale a cui le masse popolari sarebbero rimaste estranee, non ha nessuna consistenza. Pensiamo a Venezia che resistette per un anno e mezzo alla riconquista da parte degli austriaci, sopportando un durissimo assedio, finché non fu piegata da un’epidemia di colera, l’ultima isola di resistenza popolare in Europa che mostrò al mondo intero che il leone di San Marco aveva ancora gli artigli.
Pensiamo a Brescia, “la leonessa d’Italia” che si ribellò agli Austriaci per impedire loro di prendere l’esercito piemontese alle spalle, e tenne per dieci giorni le truppe austriache impegnate in durissimi combattimenti strada per strada. Pensiamo alla stessa impresa garibaldina. Crediamo davvero possibile che Garibaldi avrebbe potuto con un migliaio di uomini conquistare un regno esteso a metà della nostra Penisola se non avesse potuto contare “in loco” su un fortissimo appoggio popolare? Pochi anni dopo quelle stesse genti meridionali che avevano appoggiato e accompagnato la marcia trionfale di Garibaldi diedero vita a quella ribellione popolare che è stata a lungo calunniata come brigantaggio. E’ chiaro che si sentirono e furono TRADITE dallo stato unitario.
L’episodio forse più interessante, peccato che sia scarsamente conosciuto fuori dal Friuli Venezia Giulia, avvenne a Osoppo, un paese dell’alto Friuli che, nonostante le sue dimensioni modeste, nel 1848-49 resistette per mesi alla riconquista austriaca. In suo onore, nel 1943-44, ne prese il nome la brigata partigiana “bianca” che operava in Friuli. La triste fine di questa unità è uno degli episodi più bui e meno ricordati della cosiddetta resistenza. Avendo rifiutato di passare agli ordini del IX Corpus jugoslavo, cosa che prefigurava l’annessione dell’intero Friuli alla Jugoslavia come dagli accordi intercorsi fra Tito e Togliatti, furono circondati e disarmati con l’inganno dai comunisti della brigata Garibaldi e fucilati in massa. Ho spesso provato un senso di pena per i ragazzi della Osoppo che hanno pagato atrocemente una scelta sbagliata: se volevano lottare per riscattare l’onore dell’Italia, quanto avrebbero fatto meglio ad arruolarsi nella RSI!
Quel che non cambia, invece, è il senso della parola “comunista”: bastardo, traditore, assassino pronto a colpire alla schiena.
Ma torniamo alla nostra analisi del risorgimento. Gioverà ricordare che il primo episodio di quell’insorgenza spontanea che testimonia del nostro ritrovato orgoglio nazionale, il primo episodio che possiamo chiamare risorgimentale non si pone certo sotto il segno giacobino-liberal-massonico; tutto al contrario, fu la ribellione di Verona alle a
ngherie delle truppe napoleoniche che portò alla spietata repressione da parte dei Francesi nota come “pasque veronesi”, perché anche questi “liberatori” come quelli del 1943-45, non avevano nessuna pietà.
ngherie delle truppe napoleoniche che portò alla spietata repressione da parte dei Francesi nota come “pasque veronesi”, perché anche questi “liberatori” come quelli del 1943-45, non avevano nessuna pietà.
La cartina di tornasole per distinguere il moto IDEOLOGICO liberal-massonico dalle finalità di riscatto nazionale, è molto facile da trovare: quando l’interesse dell’Italia e quello della loggia venivano a conflitto, cosa sceglievano questi “patrioti”? Regolarmente la loggia, dimostrando così chiaramente quale fosse la loro vera “patria”.
Un esempio palmare in questo senso è rappresentato dalla guerra franco-prussiana del 1870. I garibaldini accorsero in difesa della Francia: quella stessa Francia che nel 1848 aveva distrutto la repubblica romana, che nel 1859 aveva abbandonato il Piemonte con il voltafaccia di Villafranca e preteso ugualmente l’annessione di Nizza e della Savoia, e che all’epoca era l’ostacolo all’annessione di Roma.
Con la Prussia di Bismark, invece, non avevamo alcun genere di contenzioso, anzi, era grazie a essa che lo stato italiano aveva potuto annettersi il Veneto solo quattro anni prima. Ma tutto questo non contava, quel che contava davvero era il feroce ODIO IDEOLOGICO nutrito verso la Prussia di Bismark e per ciò che essa rappresentava, odio ideologico che i garibaldini condividevano certamente con i liberali e i massoni di tutta Europa: la rinascita del principio aristocratico in Europa, una rinascita che per di più non nasceva dal tronco ormai fatiscente degli “ancien regime”.
A costoro non dobbiamo nessuna gratitudine, il nostro riscatto nazionale è stato un effetto collaterale non previsto e non voluto della loro azione demolitrice del vecchio ordine europeo. Noi possiamo senza nessuna contraddizione sentirci figli di una grande nazione europea che ha dato al mondo Roma e il rinascimento, e combattere le forze che hanno prodotto la decadenza dell’Europa.
Saggezza significa saper rinunciare a qualcosa per salvare tutto il resto, e il qualcosa a cui dobbiamo avere la saggezza di saper rinunciare, sono precisamente le micro-patrie, i localismi, i campanilismi oltre tutto inevitabilmente contrapposti, nemmeno scogli ma ghiaia destinata a essere sommersa e sbattuta per ogni dove al montare della marea, la marea montante del mondialismo, della globalizzazione, del meticciato planetario. E’ nella difesa della nostra cultura e della nostra identità italiana ed europea che abbiamo il dovere di tenere fermo.
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