Orfeo è l’archetipo del Poeta – Sciamano, che conduce con la sua musicalità in versi in direzione di un percorso volto al risveglio estatico dell’anima, alla sua identificazione con la Natura Divina. La Poesia del Carletti riprende dell’Orfismo la capacità magica di rappresentare la Physis, quale momento dialettico in cui Tutto ed Uno ritrovano la loro similitudine nell’anagogia simbolica e misterica. I versi che seguiranno hanno in tal modo esaltato il nostro sentire e speriamo possano risultare altrettanto galvanizzati per i nostri lettori.
Luca Valentini per la Redazione
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Persiste il gelo ch’assilla le carni
e di lambire cerca anche i comparti
di natura già freddi e senza vene,
scendendo, infatti, fra giunture di ossa;
ma sfido l’aere, a ciò che mi scarni
e, se gli riesca, financo che squarti,
mentre gli ruggio incontro certe pene
di cui non so che superi la possa.
Quindi all’omero tolgo quanto indossa
nudo restando, esposto
in mezzo alle intemperie
che non ricordo così deleterie
come una fiamma che giammai discosto
e sta nel cuore, ’ntro cui s’accese
per volontà bruciante d’alte imprese.
Se vinca, tra gli affanni, ’sto disio
ch’orienta il corpo verso lo sfacelo,
tentando di condurlo a sé dappresso,
quantunque lo sovrasti tanto e stacchi
quant’è d’un’ombra superiore il dio;
se, invece, a tale giunga grado il gelo
da sopraffare quel desire stesso
e con più forza gli spiriti fiacchi;
micidiali saranno quali attacchi
quando che fia consunta
l’ultima fibra inquieta
d’un uomo cui la vita non allieta:
su ciò la testa inferve e vi s’impunta,
demandandone ai nerbi la verifica
per via che strazia il senso e lo mortifica.
Ordunque vanno insieme ed indivisi
fra strida e poi sospiri i miei pensieri,
confluendo in un unico decorso
che la acque valica dell’Acheronte;
s’internano quindi (di morte intrisi)
cotanto addentro ai torbidi sentieri
tramite cui lo Stige fu percorso
da rinvenire un’ulteriore fonte.
A quest’attingono le anime pronte
a smemorare i mali
ed a smarrirne il pondo
per le virtù ch’offersero ad un mondo
cui non riusciva esprimerne altrettali:
dico il Lete, ch’avendolo raggiunto,
lava i pensieri da ogni impuro assunto.
I dubbi tracimanti l’intelletto
risolvono in superne acquisizioni
e quelle, che parevano bramiti,
grida vibranti per l’aura del verno
adesso prendono tutt’altro aspetto,
ricalcando, sul ritmo dei peoni,
gli inni dal Delio nume stituiti
di Febo, la cui lira quasi scerno.
Lo zefiro finanche avverto eterno
degli Elisi beati
ove la mente siede,
sebbene resti in superficie il piede
e la stagione gli uccelletti sfiati
che stando privi d’un rifugio ancora
insieme a me morranno ’n neanche un’ora.
Spinge avverso il suolo le calcagna,
che intanto il corpo tengono alla terra,
l’ultima spinta vaga d’attizzare
le salme ch’appropinquino al collasso:
quando negli organi il cruore stagna,
un lampo invero scuote e mi rinserra
le membra dalla cervice al plantare,
tale che ritto certamente passo.
Non meno splende un qualche grande spasso
sugli occhi ancor che spenti
dell’agghiacciata spoglia,
come in chi vada dove più l’invoglia
canto d’Orfeo, che ogni anima allenti.
Proprio laggiuso, donde ha udito il Trace,
va l’alma mia, ch’a lui s’accorda in pace.
Vasta le penne sopra i vivi oscure,
tu sali strenua a dire,
canzone, qual mi fossi,
nel tempo in cui non vinto me ne mossi,
nel tempo in cui mi volsi, pien d’ardire,
a rimirar la gloria in seno all’Ade
e spensi il mio tormento con pietade.
Cristian Davide Carletti
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