di Fabio Mazza
Il 7 Giugno si è tenuta a Roma, un’interessante conferenza organizzata dalla Fondazione Evola, dalla Scuola Romana di Filosofia politica e dalle Edizioni Mediterranee, presso la Sala de “L’Universale” Libreria/Galleria delle Arti, e presentata dal dott. Gianfranco De Turris, nel quarantennale della scomparsa terrena di Julius Evola. Questo è uno dei molteplici convegni che sono stati organizzati, in questi giorni, da diverse personalità ed associazioni culturali, per ricordare la vita e le opere del Barone. La particolarità di quella in oggetto è indubbiamente quella di provenire dalla Fondazione che lo stesso Evola volle nelle sue ultime volontà e nel voler discutere sulla valenza attuale di una delle sue opere più famose cioè, Rivolta contro il mondo moderno. E d’altro canto, la caratura dei relatori non ha davvero deluso le aspettative del pubblico accorso, piuttosto interessato.
Dopo la breve introduzione di De Turris, si è avuto subito un intervento importante da parte di Luca Valentini, collaboratore di Ereticamente, di Vie della Tradizione e di Elixir, nonché libero cercatore dello Spirito. Valentini ha sottolineato l’importanza di Rivolta come fonte contemporanea indispensabile per la formazione di una visione tradizionale del mondo, senza la quale tale idealità non avrebbe avuto lo sviluppo che conosciamo. Una visione che non si limita ad una “filosofia”, ma chiede ed esige una realizzazione effettiva, un “Opus” che cambi in primis la visione globale dell’esistente e dell’uomo, e in secondo luogo che dia modo di rendersi conto di quella che viene definita “terza dimensione della storia”, ossia la certezza che dietro agli eventi storici, che costellano il destino e la vita delle società e delle civiltà, non vi è nulla di “casuale”, quanto piuttosto un azione di influenze contrapposte, un “gioco cosmico” che vede scontrarsi due fronti “luce ed ombra”, tradizione ed anti-tradizione. Fronti che costituiscono, è vero, due parti della medesima realtà cosmogonica (e in questo Valentini sottolinea l’infondatezza della teoria dell’Evola “dualista”), entrambi necessari ad un certo livello del manifestato, ma che non devono far dimenticare l’importanza della lotta e del contrasto a determinate correnti apparentemente casuali, che sono invece determinate dalla “contro-tradizione”. Appunto correnti di pensiero, idee, psichismi, ideologie e convinzioni irresistibili, atavismi: tutto ciò che si può chiamare “anima di popolo o di stirpe”, e che cangia e muta non per “caso”. Esemplificativo è il riferimento al gay pride in corso nella capitale nello stesso giorno. Se c’è qualcuno che ancora si oppone a determinate derive, ciò significa che ancora una visione di Luce non è stata sconfitta definitivamente.
Successivamente è stato il turno del Prof. Giovanni Sessa, il cui intervento sull’importanza dell’Evola filosofo e artista si è snodato nei suoi rapporti con Schelling e con il romanticismo, fino ad inquadrare Evola come un continuatore, o meglio ravvivatore del pensiero idealista in Italia. Chiarissimo nell’esposizione e con un eloquio e una proprietà di linguaggio davvero invidiabili, non può però chi scrive non esternare l’irrilevanza, a suo parere di quegli aspetti di Evola trattati, che sono effettivamente marginali e sono gli unici presi in considerazione dai “filosofi” e dagli accademici, che dimenticano che se Evola fu qualcosa, di certo non fu filosofo, se non nel senso antico e vero del termine, o nell’accezione che di sé intesero dare gli ermetisti, quando si definirono “filosofi ermetici”, non certo nel senso corrente, ossia di dissertatore di opinioni, di cui spesso si esaltano gli intellettuali. Evola fu tanto poco filosofo, quanto molto più aristocrate, guerriero e mago. Ciò non toglie che il contributo del Sessa abbia aperto un interessante spiraglio su determinati aspetti “tecnici” del primo Evola.
L’intervento seguente di Stefano Arcella, ci sia consentito dirlo senza tanti giri di parole, è stato di gran lunga il più intenso. Ciò perché si è avvertito, fin dall’inizio il peso di un esperienza “diretta”, di una pratica e di una visione “operativa”, dietro alle parole pronunciate. I riferimenti puntuali alle connessioni dell’opera e del pensiero evoliani con l’opera di Rudolf Steiner, e del suo epigono italiano Massimo Scaligero, sono stati calzanti e hanno aperto, per chi sa e vuole vedere, nuove prospettive nella ricerca sull’integrazione di questi autori, che sono, per chi scrive, assolutamente complementari e indispensabili reciprocamente. L’opera di Evola ha avuto il merito di aprire il varco all’Idea e alle forze dell’Io, di una spiritualità non panteistica e sfaldata, ad un moto non cercante l’estinzione in un indefinito e mistico “tutto”, ma piuttosto un’affermazione di personalità nobilitata e divinizzata, un moto verso la super-personalità, piuttosto che al sub-personale ove spesso conducono molte vie cosiddette “spirituali”. Presupposto per capire il pensiero evoliano è, nell’analisi di Arcella, la consapevolezza della vis immaginativa, ossia della forza del pensiero creatore. Pensiero “magico”, il cui primo aspetto è il “pensiero vivente”, di cui Evola non sentiva il bisogno di parlare, in quanto egli lo possedeva naturalmente: era, per citare le parole di un illustre esponente del pensiero vivente in Italia, Pio Filippani Ronconi, un “mago nato”, ossia aveva già per dignità naturale ciò che per altri è terreno di dura lotta e conquista.
Per concludere, vi è stato l’intervento di Nuccio D’Anna, storico delle religioni, autore di notevoli pubblicazioni sulla spiritualità del mondo greco-romano, ha analizzato la questione della funzione di Rivolta contro il mondo moderno in relazione alla visione tradizionale dell’Ellade e di Roma, sottolineando come, a suo avviso, il pensiero evoliano su tali civiltà sia stato inficiato da un “dualismo” derivatogli da autori ottocenteschi come Bachofen. Interessanti le citazioni sulle civiltà estremo orientali nella dissertazione, a dire il vero poco lineare e vertente su molteplici aspetti,non sempre integrati in un discorso organico.
Al termine notevole entusiasmo del pubblico, che ha rivolto domande ai relatori. Dagli interventi posti in essere è parso evidente però come ognuno abbia capito delle esposizioni in primis, e dell’opera di Evola in secondo luogo, ciò che voleva (o forse poteva) capire, e che conforta i suoi assunti personali. In secondo luogo è parso evidente come un certo ambiente, composto da persone che spesso conobbero per età anagrafica Julius Evola, decisamente poco abbia capito di lui e della sua opera. Fa specie che questi signori, sicuramente vissuti in periodo storico difficile, ma che avrebbero dovuto passare il testimone alle nuove generazioni, si siano smarriti in rivoli e correnti che con l’opera e il pensiero evolvano non hanno nulla a che vedere. Ci si lamenta della mancanza di giovani in simili conferenze, ma ci si dimentica la triste realtà: nel “sottobosco” evoliano si agitano personaggi di dubbio valore intellettuale quando non anche morale. Si passa dai massoni pagani, che evidentemente dovrebbero rileggere l’opera del Barone per ripassare cosa egli pensasse della massoneria, fino ai cattolici tradizionalisti, che vedono nelle parole di Evola in maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo e del cammino del cinabro, una sorta di legittimazione del cattolicesimo, quando la verità è tutt’altra trattandosi piuttosto di una presa d’atto del “meno peggio” esistente, per finire alla maggioranza che ha fatto di Evola un “maestro”, cosa che egli stesso avrebbe aborrito, perché il percorso spirituale ha guide e individui di valore, mai maestri e “guru”.
A ben vedere sarebbe auspicabile un’opera di diffusione del pensiero evoliano pura, schietta e senza sovrastrutture ideologiche, di modo che sia il lettore a poter comprendere, più per intuizione che per ragionamento speculativo, il senso, il valore e il compito che l’opera di Julius Evola a quarant’anni dalla sua morte, ci ha lasciato. E pensare, con le parole di Leon Degrelle, che “seppur morto, egli arde”.
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