Il voto amministrativo della Liguria, caricato di valenza nazionale, ha dato il suo responso. Vince il centrodestra, principalmente per merito della figura di Marco Bucci, riprende quota il partito-Stato, il PD pur sconfitto, crolla il grillismo nella terra del fondatore, si spegne la voce del cosiddetto dissenso, diviso, impotente, ridotto a numeri preceduti dallo zero. Non sfonda la pretesa di determinare la politica per via giudiziaria, dopo l’operazione che ha disarcionato Giovanni Toti.
La Liguria è piccola – meno del tre per cento della popolazione italiana – ma rappresenta un laboratorio politico interessante: calo demografico, invecchiamento, deindustrializzazione avanzata, scarse infrastrutture, sanità in crisi, agonia delle aree interne, peso preponderante del settore terziario, forti squilibri territoriali pur in una modesta estensione. In più, il trauma dell’arresto di Toti che ha decapitato la giunta di centro-destra.
Ma l’elemento più importante delle elezioni liguri è l’aumento irresistibile del non voto. Il 54 per cento degli elettori è rimasto a casa. Per la prima volta sono più numerosi gli astenuti che i votanti. Al netto di alcuni punti ulteriori perduti nel ponente (orientato a destra) per le recentissime alluvioni, il dato è clamoroso. I voti validi sono stati 597 mila, un numero risibile, tenuto altresì conto di ventimila schede bianche e nulle. Il dissenso avanza fuggendo, diventa impolitico più che antipolitico. I sette candidati alternativi alle grandi coalizioni totalizzano un miserrimo tre virgola otto per cento. La fuga dalle urne consolida il sistema, che infatti si guarda bene dall’analizzare – non diciamo affrontare – il tema della diserzione elettorale. Viviamo ormai nell’era post democratica e la gente lo percepisce. Un dato empirico ma significativo: nessuna impennata post voto nelle vendite dei giornali locali. Il derby Bucci – Orlando fa sbadigliare. Esultano o imprecano solo le curve ultrà delle due parti, sempre meno affollate.
Le forze interne al sistema – l’alternanza senza alternativa – vincono a mani basse volgendo a proprio vantaggio il discredito da cui sono circondate, neutralizzato dall’indifferenza, dall’opinione prevalente (purtroppo fondata) secondo cui “sono tutti uguali”, dall’assenza della possibilità concreta di cambiare le cose per via elettorale. In una situazione di questo tipo – ben gradita al palazzo – è naturale che avanzino le forze più radicate nel potere. Infatti l’altro dato numerico rilevante è il successo del PD, il partito-Stato, il blocco “istituzionale” per eccellenza, capace di mobilitare ampie clientele e bacini di consenso tra i sindacati, nell’associazionismo, tra i gruppi di interesse, quindi conservatore dell’esistente. Non riesce più a portare al voto i giovani, perde forza nelle periferie, ma rappresenta la conferma della persistenza degli aggregati (V. Pareto) ossia la tendenza delle organizzazioni stabilite a riprodurre se stesse. Perde per la forte personalità di Marco Bucci e per la combinazione tra il sostanziale buon governo degli avversari – ma la sanità è una macchia nera – e il crollo degli alleati. Tiene bene la gamba di sinistra-sinistra, sfuma nell’inconsistenza il centrismo filo dem, ma sembra agli sgoccioli il Movimento Cinque Stelle, ridotto a un’umiliante quattro e mezzo per cento, superato nettamente da Alleanza Verdi e Sinistra.
La speranza suscitata dal grillismo – comunque la si pensi – è evaporata tra scissioni, inconsistenza dei dirigenti e sirene di potere. Le ultime vicende, le polemiche brucianti, il parricidio di Conte nei confronti di Grillo, a sua volta screditato dalla questione dei trecentomila euro annui che percepiva dal movimento – una sinecura o un vitalizio mascherato – sembrano l’inizio della fine. Da alternativi al sistema con un terzo dei voti a ruotino di scorta della coalizione progressista. Una fine ingloriosa che dimostra quanto il movimento fosse una creatura costruita in laboratorio per canalizzare il dissenso popolare. Assolto il compito assegnato dall’alto, il destino è il piccolo cabotaggio a salvaguardia del gruppo dirigente cooptato nel sistema. Lo stesso ex comico non è andato a votare, un segnale molto chiaro.
Più sfaccettato lo scenario del centrodestra. Il trionfalismo di Giorgia Meloni, assecondato dai sondaggi nazionali, non è supportato dai numeri. Il quindici per cento rimediato in Liguria da Fdi è al di sotto delle aspettative. La somma delle due liste civiche personali di Bucci ha superato la corazzata meloniana. Segno che l’invincibile armata disegnata dalle indagini demoscopiche è fragile, dipendente dalla popolarità della sola presidente del Consiglio. Una crepa da non sottovalutare, poiché gli innamoramenti politici degli italiani durano poco. Ne sanno qualcosa Renzi, Salvini, Grillo. Più resilienti Forza Italia – trainata da alcuni candidati campioni di preferenze – e la Lega. Salvini regge nonostante mancasse l’effetto Vannacci e nonostante l’impalpabile presenza di una lista concorrente di ex leghisti duri e puri.
La vittoria del centrodestra – che nell’ultima settimana di campagna era nell’aria – è soprattutto merito della performance di Bucci e del pessimo ricordo dei decenni di centrosinistra. Un ulteriore elemento di riflessione è la forte incidenza del voto “contro”. Molti di coloro che alle urne ci sono andati – la minoranza dei liguri! – hanno votato per antipatia verso Bucci “l’affarista” o Orlando, l’uomo di apparato postcomunista senza un progetto, penalizzato anche perché spezzino, poco ligure nella percezione di molti. Imbarazzante la sua prima dichiarazione post voto – sincera, a caldo – in cui attribuisce la sconfitta ai “problemi del campo largo”, una visione angusta, in perfetto politichese, tipica del mestierante di palazzo avulso dai problemi reali. Una ragione in più per gli astensionisti, numerosissimi tra i giovani. Sarà delusione, disinteresse, estraneità al tema principale – la sanità, argomento da vecchi – ma è davvero malata grave una democrazia che rappresenta pochissimo e pochissimi, per di più anziani.
Discorso a parte merita l’irruzione della magistratura nelle logiche politiche. A molti italiani non piace l’invasione di campo dei giudici – altra criticità, grave debolezza della politica – per cui una minoranza potente e organizzata dell’ordine giudiziario è la vera opposizione al governo (processo Salvini, sentenze pro immigrati clandestini). Se la considerazione dei politici è pessima, il prestigio delle toghe è in declino. Nel caso ligure, sorprendono i tempi dell’inchiesta – e l’origine della notitia criminis, su cui varrebbe la pena di interrogarsi al di là di Toti – ma anche le accuse. Acclarato che il governatore aveva frequentazioni non irreprensibili, preso atto di un ultimo biennio amministrativo poco brillante, alla fine si tratta di finanziamenti registrati e dell’interessamento – improprio ma comune ai suoi predecessori di opposto colore – alle questioni portuali, estranee ai poteri regionali ma centrali nell’economia locale. Superata la fase dell’indignazione che faceva immaginare una comoda passeggiata di Orlando, la perplessità sulla consistenza delle accuse e il sospetto di un ruolo politico delle toghe ha preso campo, rinvigorendo il centrodestra.
Tutte le considerazioni svolte, tuttavia, non pesano quanto la disaffezione/diserzione al voto, l’emergenza civile in cui l’Italia è precipitata. Se chi vince ha il consenso di un cittadino su cinque, significa che il principio democratico è malato. Mancano le alternative: oltre i reciprochi attacchi, i due grandi schieramenti non hanno grandi differenze programmatiche. Il consenso di cui godono diminuisce quanto aumenta il vuoto delle urne, ma non si vedono opzioni alternative. Nessuno contesta le scelte di politica internazionale, il ruolo subalterno in sede europea, l’insignificanza dinanzi ai poteri finanziari, l’assenza di proposte economiche non appiattite sul liberismo. Nessuno, anche nel variopinto pollaio del dissenso in cui cantano troppi galletti sterili, sembra avere un’idea di futuro, un progetto preciso, alternativo e praticabile per l’ Italia di domani.
Senza speranza, in assenza di progetti che uniscano ed entusiasmino, la partita è persa prima di iniziare. Il sistema divide et impera. Storia vecchia, ma nessuno trae insegnamento dalla storia. Oppure- è l’ipotesi che facciamo nostra- i movimentini del dissenso che nascono, si dividono, realizzano la scissione dell’atomo e poi scompaiono senza lasciare rimpianti sono, a dispetto della buona fede dei militanti, altrettanti contenitori messi in piedi dal sistema per controllare, sterilizzare e – nel caso – cooptare l’opposizione che pure esiste e rappresenta, se la non maggioranza, una robusta, crescente minoranza degli italiani.
Il dato ligure impressiona: le sette candidature alternative – variegate, certo non sovrapponibili – rappresentano l’uno e mezzo per cento del corpo elettorale. Fuga dalle urne, nessuna speranza di cambiamento, vittoria dell’immobilismo. E poi sterilità, inconsistenza programmatica, nessuna credibilità di capetti e sigle cangianti: l’evidenza è che il sistema non può essere scardinato dall’interno, come dimostra il fallimento grillino. Chi vota, sostiene per autodifesa il meno peggio. Nulla di nuovo in riviera e in Italia.