Le tavole pedagogiche dei popoli d’Europa, nel senso di “strumenti” manifestativi dell’universale Tradizione spirituale indoeuropea, sono l’Edda, i canti religiosi della mitopoiesi Germanica, l’Iliade, espressione spirituale della più arcaica Ellenicità nordica, l’Eneide, il poema epico giuridico-religioso della Romanità, i Veda, canti, invocazioni, dottrina del sacrificio ed elegie dedicati agli Dei cosmici della primordiale civiltà dell’India aria. Ora, giunti alla fase, forse, terminale della lenta agonia dell’Europa, è d’uopo porre la quaestio in termini quanto più crudi ed espliciti sia possibile: o si costituiscono, mediante il Risveglio dello Spirito, Ordini di uomini e donne che siano capaci di riconquistare la consapevolezza dell’Origine, cioè la serena e forte convinzione che dalla Scandinavia all’India, attraverso Roma e l’Ellade, la realtà storica, culturale, politica e religiosa, nel senso più alto, è la luce della Tradizione Indoeuropea e che quegli Imperi, quelle Poleis, quelle nationes, quelle Civiltà sono non il nostro passato ma l’eterno presente, come Vita e oltre-Vita, della nostra stessa esistenza; sono ciò che noi, come europei, vorremmo essere ma non abbiamo più la virtus (forza, vis, coraggio e nobiltà dell’animo) per essere, sono ciò che noi, nel profondo, sappiamo di dover essere, soffrendo di non poter esserlo più. Sono la nostra salvezza, il nostro “phàrmakon”, l’unica alternativa alla morte che, come una palude nebbiosa, sta ingoiando l’Europa. In mancanza di tutto ciò, dicevamo, senza, cioè, la riconquistata consapevolezza, che è paidéia e quindi conoscenza come formazione dell’animo cioè carattere come forma interna talmente luminosa che traspare all’esterno negli stessi tratti animico-corporei e che fu qualità eccelsa e potenza di quelle immense apparizioni ierofaniche come la Grecia e Roma, il Sacro Romano Impero di nazione germanica, Dante e il Templarismo, sino al Fascismo europeo come epocale e misteriosa irruzione, in pieno XX secolo, della originaria spiritualità guerriera indoeuropea; senza una nuova e fanatica[1] lotta per la visione del mondo, che deve essere intesa come Mito e Scienza (epistéme) insieme, come fede e conoscenza, come Sangue e Spirito, come la nostra stessa più profonda e vera natura che, svegliatasi, riemerge alla luce della Coscienza e diviene chiarezza della mente, potenza del cuore[2] e luminosità della visione; senza tutto ciò, non resta che conservare quanto più è possibile del nostro patrimonio, come eredità, e tentare di trasmetterlo e/o affidarlo (tràdere) a coloro che verranno dopo di noi.
Questo discorso lo intendiamo quale necessaria premessa al tema che ci accingiamo a trattare. Infatti tale “tema”, per noi, lungi dal dover essere svolto in una più o meno “dotta” o ricercata esposizione di quanto abbiamo indicato nel titolo del presente studio, è e dovrà invece essere sentito e riconosciuto, da colui il quale voglia entrare in sintonia e in sinfonia con detto logos, come possibilità di trovare o ritrovare in noi stessi quel “sistema immunitario” che solo può salvare la nostra esistenza dalla malattia che la sta uccidendo.
Tale Logos non deve essere conosciuto o considerato solo una Filosofia, anche se lo è e lo è attraverso autentici Eroi del pensiero che in quei termini hanno parlato e vissuto, non deve essere visto solo come la nostra Via al Divino e cioè al Sè autentico, anche se lo è, come non è solo l’Idea archetipica di Res Publica, quale immagine dell’Impero (Imperium = comando) degli Dei nel Mondo e sul Mondo; deve essere visto come tutto questo insieme nell’Unità che viene vissuta, ancora una volta, come carattere, forma interna, quasi naturale modo di essere e di pensare, di vedere e di amare, di lottare e di soffrire, in una parola, come stile di vita in quanto espressione etico-comportamentale, uscita all’esterno, della Forma, dell’eghemònichon, della salute riconquistata. Allora, e solo in questo caso, parlare di paidéia ellenica e di mos majorum romano può avere e deve avere un senso salvifico per noi europei; solo quando si riesca a guardare e considerare l’Iliade e l’Eneide, la Repubblica di Platone e l’intera storia dell’archetipo dell’Ordine luminoso che è la Res Publica Romana, non come fatti o entità “culturali”, secondo la concezione anemica, borghese, cristiana e quindi moderna di cultura, cioè realtà letterarie, filosofiche, filologiche o archeologiche, da studio asettico, come si possono studiare le forme e le specie di insetti rari in un laboratorio… ma per quello che sono: la nostra stessa coscienza, lo specchio della nostra natura più profonda che, essendo stata negata, violentata e negletta per secoli dal dominio straniero esercitato tirannicamente nelle nostre società politiche da altre dottrine e culture venute dall’Asia minore, abbiamo “conquistato” e realizzato quanto di più perverso e malevolo si possa pensare, come è nella fattispecie la tragedia del nichilismo e della tecnocrazia prodotti dall’esangue spirito europeo.
Talché, a questo punto, noi dobbiamo riuscire a vedere, che è come dire a riscoprire, qualcosa di unitario, pur tra le dovute distinzioni, che accomuna tutto l’intero universo spirituale indoeuropeo ed è quindi necessario, in termini strettamente pedagogici, che si riconquisti la “visione” di quella che, un tempo, si definiva concezione della vita e del mondo.
Solo dopo aver riacquisito questo stato di coscienza che è il livello esistenziale emergente di una intera consapevolezza e conoscente convinzione, solo dopo essere quasi rinati ed essere divenuti, in un ricordo che è il ritorno, ciò che si è sempre stati, avendolo dimenticato; solo allora possiamo e dobbiamo accostarci con pietas religiosa alla paidèia ellenica e al mos majorum romano. E si conoscerà che la prima è la Via dell’Ascesi della Contemplazione e la seconda è quella dell’Ascesi dell’Azione e che sono queste le due facce della nostra stessa natura spirituale, quale genuino essere nel Mondo dell’uomo e della donna indoeuropei.
È bene immediatamente chiarire che, essendo il mondo indoeuropeo qualificato, nella sua complessità, da una visione cosmica di natura attivo-virile e cioè eroico-guerriera con finalità regali (stato quest’ultimo inteso e sentito come riconquista di un essere dello Spirito che è andato perduto…) non possono le due Vie essere mai in un rapporto conflittuale tra loro, essendoci, anzi, la presenza della natura dell’una nell’altra e viceversa; atteso il fatto che esse sono accomunate proprio da quella natura magica nel senso di attiva dello Spirito che le rende radicalmente differenti dalla realtà spirituale sacerdotale, intimamente asiatica e quindi femminile, pertanto lunare ed estranea al mondo solare indoeuropeo che è, non dimentichiamo, di diretta provenienza Primordiale e, come derivazione genetica, quindi dall’Unità androginica del Principio. L’Ascesi della Contemplazione, infatti, non ha assolutamente alcun carattere passivo o statico, rinunciatario o dualistico nel senso di impotenza dello spirito a varcare… la Soglia, ma anzi essa ha la natura, pur se nella Contemplazione (vedi ad esempio il “percorso” di Plotino…), di voler partire dal Mondo, amando il Mondo e non negandolo, restando nel Mondo, anche quando, alla fine del viaggio, ci si identifica attivamente (e non ci si annulla… femminililmente) con Lui, con l’Uno, mediante un atto di natura apollinea che, essendo tale, è Azione eroica nella via contemplativa, ed è quindi l’Atto, l’Atto puro per eccellenza, che è il Ricordo e quindi il riconoscere, l’affermare: «Io sono Te!»; esso non è la scoperta di una nuova esistenza ma è il Risveglio, la riconquistata conoscenza di ciò che si è e che non si sapeva di essere…! E la natura eroica di tale atto dello Spirito nella Ascesi della Contemplazione è confermata dal fatto che, secondo qualsiasi via o natura o dottrina asiatico-femminile o sacerdotale, esso è sentito e giudicato intrinsecamente luciferico, come accade infatti nella cultura giudeo-cristiana; vedendo essa in quell’atto, invece che la conquista eroica della Conoscenza, il Potere dello Spirito che restaura l’Unità, l’orgoglio e la rivolta nei confronti di ciò che deve restare Altro, esercitando così sull’Io, che deve restare tale, una funzione di primazia e di comando, di irraggiungibile assolutezza, di inavvicinabile potenza, talché il rapporto, per l’Io (umile creatura), sarà e dovrà essere di subalternità che potrà avere solo due aspetti: officiante nella cerimoniale ritualità sacerdotale o annullante nell’esperienza orfico-dionisiaca. Nel mondo indoeuropeo anche l’Ascesi dell’Azione, in tutte le sue forme, ha in sè la contemplazione, cioè la conoscenza, non solo come fine ultimo della stessa ma come natura epistemica, fondata cioè sull’incontrovertibile Sapere che la Guerra è azione sacra impersonale, evocante forze tanto profonde e pericolose che, se “trasportano” la coscienza oltre il sensibile, devono essere però invertite e sublimate sì da superarle (dopo averle conosciute, che vuol dire esperimentate…) nella qualità aurea e solare; quando l’Ascesi eroica è ben riuscita il Mondo viene di nuovo illuminato dalla Luce e ordinato dal Bene ed è, quindi, l’Impero come specchio mondano dell’Ordine cosmico.
La presenza qualificante dell’elemento “Sapere” in ambedue le Vie non può destare sorpresa, per la ragione, geneticamente spirituale, che la caratteristica distintiva dell’anima indoeuropea non è di natura fideistica e cioè irrazionalmente passiva innanzi al Mondo e agli Dei; il che vuole significare che l’uomo indoeuropeo, anche quando sembra credere, in sostanza sa e quindi crede e non crede e quindi sa! La sua razionalità è quella omerica, dorica, apollinea e pertanto geometricamente ordinatrice e limitatrice delle passioni e degli straripamenti psichici oltre il limite, ed è quella di tutta la Grecità vera, da Platone ad Aristotele, dagli Stoici a Plotino sino a Proclo; essa non è la razionalità moderna e quindi astratta e cioè lontana dal Mondo, che è come dire individualistica e pertanto chiusa nella sua arrogante ed illuministica solitudine, ma è la Ragione che, nel processo di conoscenza (la cui natura iniziatica è evidente e della quale tratteremo), viene sublimata, e cioè sollevata dalla individualità del soggetto e, riconoscendo il Nous in se medesima quale governo di essa stessa e atto oggettivo e universale al di là dell’Io, attraverso e per mezzo di questo, si identifica e si riconosce simile alle Essenze, alle Forme, alle Idee degli enti e quindi al Divino del Mondo ed è così risvegliata quale essa è nella sua vera natura: realtà metarazionale, come potenza interna alla ragione, ed è l’Intelletto, il Nous, il Divino in essa presente e ad essa superiore ma da attuare sicchè sia in atto quale Forma della Ragione, Fiore dell’Intelletto, Apex Mentis (Proclo).
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Come accennavamo all’inizio del presente saggio, a proposito delle tavole pedagogiche su cui e con cui aprire gli occhi della mente, è d’uopo, ora, entrando nel merito, evidenziare che, tanto l’Iliade quanto la Repubblica di Platone come l’Eneide di Virgilio non devono essere pensati come libri da leggere o studiare con l’animo dell’erudito curioso e vezzoso; sono, essi, invece, l’esempio emergente del sistema educativo, che è meglio definire formativo, della cultura del mondo indoeuropeo, ellenico e romano. In una parola, i Canti del poema di Omero devono per noi essere lo stesso specchio in cui si è riflettuta la gioventù ellenica per secoli, ivi vedendo ciò che essa doveva divenire, nel senso di ricordare di essere come provenienza e come Destino; nell’accettazione attiva e consapevole da parte dell’Eroe omerico dell’Ordine del Mondo che è come dire dell’Ordine degli Dei, il giovane, il pais greco, precedente la crisi dell’età di Platone, ha riconosciuto, doveva riconoscere il suo stesso essere profondo e lo ha visto, identificandovisi, in quella religiosa amicizia con il Mondo, con il Fato e con la Guerra, amicizia che è sovrano e libero connubio con il Divino, supremo dispensatore di gioie e dolori, nello stato d’animo dell’aidòs, quale religiosa venerazione e austero pudore nei confronti della sacralità della Vita in tutti i suoi aspetti che è la finitezza dignitosa dell’umanità di fronte all’infinita compiutezza (perfezione) degli Dei che sono gli eternamente beati, gli immortali. Anche qui, nell’Iliade, gli Eroi, nel vivere l’etica superiore dell’Onore e della Gloria, nell’accettare con serena consapevolezza il Destino come moira (porzione, parte, luogo cosmico in cui è collocato il ciclo eroico e il suo grande tentativo di restaurazione dell’Unità primordiale), nell’agire, contemplano il Mondo, la Vita e la Morte, i Re e gli Àristoi (i migliori) che governano i popoli, gli animali per il nutrimento e per il sacrificio, gli Dei e la loro evidente costante presenza; talché gli Eroi conoscono; come accade ad Enea che, pregno di pietas e di sapientia, di gravitas e di clementia, dall’animo religiosissimo, sa ciò che deve compiere poiché il suo agire non è mai cieco ed inconsapevolmente irrazionale o fideisticamente passivo. I modelli, gli archetipi spirituali della formazione dell’uomo omerico e romano indicano certamente la Via dell’Azione ma nella stessa vi è presupposta, come natura in divenire, la conoscenza, come accadrà per la paidéia platonica che, pur avendo la natura dell’Ascesi della Contemplazione, nella Via, quale percorso iniziatico, in sostanza, ha i caratteri, dopo la caduta del mondo omerico e quindi in piena crisi della civiltà ellenica, della Grande Opera eroica di ricostruzione interiore, animica, dell’uomo antico, dell’uomo omerico-indoeuropeo.
Tutta la “fatica” di Platone è dedicata alla pedagogia, all’educazione, alla paidéia, alla restaurazione dell’anér, dell’uomo nobile che ha ricostruito il Signore interiore: l’eghemònichon, dell’àristos (il migliore) che possa e debba riconiugare il Sapere intorno al Divino con la natura regale e guerriera, onde governare secondo giustizia se stesso affinché possa governare e difendere la Polis. L’opera platonica Repubblica è, in buona sostanza, il più grande e completo trattato della Tradizione greco-romana sull’educazione e formazione del buon pais alla conoscenza e quindi al culto della Giustizia affinché possa poi esercitare la missione divina, quale arte regale, del governo delle anime e cioè dei cittadini della Polis. Intorno alla Romanità è necessario evidenziare, nei confronti del discorso portato avanti sopra, la presenza di una differenza radicale nella natura dell’atto con cui lo Spirito si pone dinanzi al Mondo: dopo aver, nei nostri libri, individuato e tematizzato quanto per il Romano, a differenza del Greco, il voluto è come dato, e ciò vuole dire che, lungi dall’accettare e conoscere un Mondo che esiste a priori e per cui vale il principio opposto del dato come voluto (principio ellenico), il Romano non solo accentua la potenza magico-attiva dell’agire, in quanto azione eroico-guerriera, ma, non preesistendo per lui alcun “mondo” anteriore o che prescinda dalla sua azione (sacra), egli, identificando il mondo come cosmos, cioè ordine, con la Res Publica, che è come il paradigma nei cieli di Platone, realizza il voluto, cioè edifica (Rito di fondazione) e diffonde (civitas augèscens) qui nel Mondo la Res Publica, fa discendere dal Cielo sulla Terra il Modello (che è lo stesso Juppiter Optimus Maximus come Idea) e lo sente, lo considera, lo giudica come dato, come fatto storico (e non più mitico) divino, indiscutibile, immodificabile, poiché la sua creatio riutuale,che è tanto dei Magistrati quanto della Civitas, avviene nella pax deorum, cioè con il consenso attivo degli Dei che si manifesta e si rende visibile nei Riti e nella stessa Fortuna imperiale del Popolo Romano. Questa Idea è il cuore della Tradizione romana: il mos majorum; essa è indissolubilmente unita al Pensiero vivente che costituisce la filosofia platonica e neoplatonica come Rito sacrificale interiore e stile di vita spirituale e, quindi, esercizio di Ascesi per l’assimilazione al Divino (omoiosis Theò); Ascesi che è la Via Secca anagogico-epistrofica dell’anima votata alla purificazione; Pensiero che è l’essenza Ignea che arde dagli inizi alla tarda Grecità: da Parmenide a Platone, da Aristotele agli Stoici, da Plotino a Proclo sino agli ultimi bagliori di Damascio; talché il mos majorum dei Romani e la Vita filosofica, che è teologia teosofica, degli Elleni, sono la Luce che il Mondo Classico lascia in eredità all’Europa: ultimi grandi exempla del primo sono, emblematicamente, l’Augusto Marco Aurelio Antonino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco e il prefetto Vettio Agorio Pretestato, mentre i filosofi neoplatonici Proclo e Damascio unitamente all’Augusto Flavio Claudio Giuliano lo sono della seconda.
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Se la formazione dell’uomo, sia greco che romano, consiste nel dare la forma al suo essere secondo i principi fondamentali della Tradizione Classica, principi che sono gerarchici ed aristocratici sotto il profilo spirituale, in buona sostanza, va detto, però, per colui che sa, che nessuno “dà” la forma, il carattere, il signore interiore se non lo stesso uomo che lo edifica, lo costruisce con fatica; nel senso che chi opera in tale guisa deve consentire che una natura dormiente si svegli, un “ricordo” diventi presenza viva e con essa egli si identifichi, cioè divenga ciò che è, che deve essere e che non è possibile che non sia. Non sono la Res Publica o la Polis, il filosofo, come maestro spirituale, o gli exempla, cioè le grandi figure di coloro i quali hanno dedicato la vita e l’animo agli officia come magistrati e condottieri di legioni vittoriose, effigiati in maschere di cera, quali libri della “biblioteca” della propria famiglia, che il puer romano vede e conosce sin dalla nascita e che in ogni cerimonia funebre della propria gens, egli vede sfilare ed essere punto di riferimento e di onore per tutta la Civitas; non sono “queste” realtà esterne all’uomo ellenico e romano a “dare” a lui “qualcosa” che ancora non ha. Ciò può apparire vero a livello politico-essoterico ma non nella dimensione dello Spirito, cioè nell’esoterico: sotto tale profilo l’intera paidéia ellenica ed il mos majorum romano sono percorsi di realizzazione iniziatica, sarebbe a dire, stadi di conquista dell’essere interiore in cui è lo stesso uomo della Tradizione ellenico-romana che dà a se stesso in atto ciò che potenzialmente egli è, per la semplice ragione che la virtualità ad essere ciò che egli deve essere è veicolata dal sangue e, quando tale elemento è o sarà difettoso, sarà la potenza dello Spirito in termini oggettivi, per usare il lessico hegeliano, cioè sarà la Tradizione come Via dal Divino e verso il Divino e quindi come complesso di Istituzioni, Riti, leggi, cultura, come visione degli Dei e del Mondo, come stile di vita e cioè l’Impero, nel tempo, che daranno nuova forma ad un altro sangue, facendolo divenire, in quanto razza dello Spirito, veicolo di nuova Romanità, che è la vittoria formatrice del jus civile (il dato culturale dello Spirito) sullo jus gentium che è il dato biologico del sangue, il che vuol dire fare di quello che era il Mondo (Orbis) la Città (Urbs).
Ecco che, a questo punto, appare chiaro il senso del concetto che Evola esprime in guisa ricorrente in tutta la sua opera; il dato esperienziale della coscienza e dei suoi stati ha, per necessità del mondo dello Spirito che ha la stessa forza cogente delle leggi della macrofisica, come corrispondenti altrettanti stati di conoscenza che sono differenti livelli ontologici del Mondo, sia nell’Infero che nel Supero. Gli Dei non esistono… a priori… se non si conoscono… e non si conoscono se non si esperimentano! Se l’“Inferno” e il “Paradiso”, esotericamente, sono stati della coscienza dove lo stesso “luogo” dello Spirito, una natura luminosa conoscerà come quest’ultimo ed una tenebrosa come il primo, nei quali ed attraverso i quali, pertanto ci si identifica, essendo ed apparendo l’oscurità o la luminosità, la causa risiede nel principio che si conosce ciò che si è e si è ciò che si conosce! È la ragione in virtù della quale, sul piano oggettivo, cioè sovraindividuale, nell’agire, nell’azione della spiritualità indoeuropea, si possa e si debba edificare l’Ordine della Res Publica o della Polis, proiettando e creando fuori dal Sé, ormai realizzato, il Sé medesimo. Tale è il significato profondo della paidéia e del mos majorum: la Tradizione è “consegna” non passiva, non è un dono, né una scoperta, anzi deve essere, poiché è, conquista eroica, ricostruzione laboriosa, risveglio sofferto e lungo, marcia di avvicinamento alla meta che è, in essenza, lo stato della coscienza che coincide con il Sapere, fermo ed incontrovertibile, intorno agli Dei ed al Mondo, intorno alla Res Publica ed alla sua potenza universalizzante; Sapere che è Azione e Azione che è Sapere in quanto essendo Forma vede la Forma e per l’effetto edifica e crea l’Ordine uni-formato, cioè conforme all’Uno nei Molti. Solo così, in tale guisa, la Tradizione greco-romana può e deve essere intesa per quello che è nella sua essenza, cioè Forma vivente, potenza della Vita nella quale alberga l’Anima dell’Europa che, essendo (in quanto Anima) il sonno dello Spirito, attende il Risveglio.
La paidéia ellenica ed il mos majorum romano, a questo punto, non possono non essere amati e vissuti come esperienze spirituali, a seconda della propria equazione personale, come percorsi di autoiniziazione e quindi di trascendimento consapevole e lucido, nella eroica solitudine che è purezza ed incontaminata distanza sia da Logge che da Chiese, cioè dalle “strutture” della modernità antieuropea individualistica e quindi astratta. Davanti a tale discorso sta in piedi la solitaria presenza eroica del ghibellino Dante che, a quasi mille anni dalla fine storica della Civiltà Classica, indica all’Europa le sue Vie: «fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza...»; dove appare luminosamente chiaro che la “virtute” è l’Ascesi dell’Azione e la “conoscenza” è l’Ascesi della Contemplazione, che è come dire Roma e Atene!
Giandomenico Casalino
[1] Da “fanum”: altare o luogo sacro primordiale e quindi precedente il manifestarsi della Civitas.
[2] “Cuore” è da intendere nel significato ermetico-arcaico del termine: centro dell’Opera anamnestica della natura degli Elementi nel microcosmo…
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