II La vittoria della Grande Madre.
La tarda modernità occidentale ha scomunicato i valori maschili e svalutato la paternità. Il dominus mercato è fondato sul principio femminile della soddisfazione immediata dei bisogni e soprattutto dei desideri. E’ nota la definizione di Gilles Deleuze dell’umano contemporaneo come “macchina desiderante”. Materialismo, coazione a ripetere, riflesso pavloviano: il consumatore con la saliva in bocca alla semplice idea di realizzare l’impulso dell’acquisto. L’archetipo maschile, al contrario, è quello di iniziatore, creatore di forme, promotore ed agente dei cambiamenti. La sua inibizione, anzi la precisa proibizione in nome dell’esistente, dell’unico, dell’organizzazione sociale che non ha alternative poiché si considera lo stadio evolutivo finale di una lunga marcia lineare, accelerata durante la modernità, è la forma evidente della castrazione freudiana.
Ricordiamo un’intuizione di Paul Virilio, circa la natura “dromocratica” del nostro tempo, la velocità come paradigma, o le scoperte Koselleck sul concetto di futuro “passato”, ma il nucleo della contemporaneità è quello dell’adattamento, della costrizione di ognuno entro schemi che circoscrivono o escludono la componente del nuovo e dell’inesplorato in favore della dimensione del consumo, trattenendo la spinta verso l’oltre, l’alterità, l’oltrepassamento entro i confini dell’equilibrio dato, del rassicurante, cioè del femminile. Un femminile, tuttavia, che si manifesta rizomaticamente nella dimensione del potere e della conservazione, attraverso la figura archetipica della Madre, anzi della Grande Madre che tutto contiene in sé.
Per i giovani maschi, niente più riti di iniziazione, e sempre più spesso, nella vita atomizzata di città congestionate o periferie sconfinate, metafore di condizioni esistenziali private di un centro, di una forma (la “gestalt” della psicologia) non c’è neppure più il gruppo amicale dei pari, le fratrie un po’ ribalde e un po’ trasgressive nelle quali il ragazzo sperimentava il proprio genere e, in qualche misura, il suo stesso “sé”. I padri, quando ci sono, diventano “mammi” apprensivi o immaturi compagni di giochi, tutt’al più e purtroppo, amici. Manca la verticalità, il “logos”, o, per usare un’espressione antica, la condizione di chi vede più lontano come il nano sulle spalle del gigante, quel padre che porta il peso e descrive il senso di ciò che il figlio semplicemente guarda.
Alain De Benoist ha parlato di un processo di femminilizzazione delle élite, affermando che la società ha integralmente adottato valori femminili: il primato dell’economia sulla politica, del consumo sulla produzione, della discussione sulla decisione, il declino dell’autorità (e dell’autorevolezza) a vantaggio del dialogo ad ogni costo, l’egemonia della materia sul mondo delle idee. C’è ancora di più: la sopravvalutazione della parola del bambino e la sua protezione ossessiva, la messa in pubblico della vita privata e persino intima (il fenomeno della televisione realtà e di “talk show” disgustosi per miseria intellettuale, vuoto morale), l’umanitarismo generico e mediatico, la prevalenza dell’apparire sull’essere –immagine al posto di onore o sostanza – e poi il sospetto nei confronti della seduzione maschile, equiparata troppo spesso alla molestia. Di pari passo, si è sviluppata la prevalenza femminile nelle professioni educative, tra gli operatori sociali, nella psicologia, più recentemente in magistratura.
L’esito è troppo spesso un mercato dell’emotività e della compassione, o una giustizia basata più sull’elaborazione del lutto o su etiche astratte che sul nudo “ius”. Nella psicologa donna si nota talora un’insistenza eccessiva sull’attribuzione di giudizi precostituiti, libreschi, che etichettano più che aiutare (il “labelling” dei sociologi). C’è poi il gusto della trasparenza, della commistione, dell’ibridazione avalutativa. Lo stesso telefono cellulare si trasforma in protesi, sostituto del cordone ombelicale. Qualcuno ha osservato la decadenza del modo imperativo nel linguaggio comune, ma indubbiamente il mondo della globalizzazione, attraversato da reti, che si instaura e si muove tra flussi e riflussi, senza frontiere precise, né punti di riferimento stabili ha un’impronta femminile. Un universo amniotico, senza la consistenza, la sicurezza ed il nomos della terra (Schmitt). La logica del mare è quella della Madre, e Carl Schmitt ha mostrato come il dominio del mare (potenze talassocratiche, Gran Bretagna ieri, Usa oggi) sia estraneo alla Legge.
Sull’onda dell’accoglienza più recente dell’opera di Johann Bachofen, in particolare del suo lavoro più importante, Mutterrecht, letteralmente Diritto materno, matriarcato, assistiamo ad una rimodulazione generale della società verso forme di prevalenza femminile che erano state abbandonate migliaia di anni fa. Bachofen distinse vari stadi: il primo è quello dell’eterismo, ovvero di un matriarcato senza regole, caratterizzato dal libero accoppiamento, dall’inesistenza del ruolo paterno, dalla proprietà comune e dal principio della Dea Madre; poi lo stadio delle Amazzoni, con il mito di Pentesilea, secondo Bachofen guerriere per contrastare il genere maschile, che avanzava pretese a causa della maggiore forza fisica necessaria nella nuova società di cacciatori agricoltori stanziali; il terzo stadio è quello della matrilinearità, quindi della madre genitore primario, infine il trionfo maschile, con il potere del padre, la paternità legale certificata dall’istituto del matrimonio. Vera o meno che sia l’ipotesi dell’antropologo svizzero, essa è diventata un elemento essenziale del movimento femminista degli anni 70.
Oggi, il problema è quello di fermare una deriva che può diventare pericolosissima per tutti, recuperando un mondo maschile, virile, la cui debolezza è un elemento di grave frattura per l’Europa ed il cosiddetto Occidente. Risulta indispensabile costruire un equilibrio, una sorta di Tao futurista in cui si ritrovi un equilibrio della natura e dei generi, sul modello dei due principi yin e yang. Lo yin e lo yang sono opposti, dice Lao Tzu: qualunque cosa ha un suo opposto, non assoluto, ma in termini comparativi. Lo yin e lo yang hanno radice uno nell’altro: sono interdipendenti, hanno origine reciproca, l’uno non può esistere senza l’altro.
Non possiamo respingere nel passato la figura femminile, né dobbiamo averne l’intenzione. L’uomo, però, deve tornare. Negli Stati Uniti, che sono, purtroppo, guida culturale e pesce pilota del vecchio continente, ci sono numeri da brivido. Il 90 per cento dei senza fissa dimora (i “barboni”) e dei figli fuggiti da casa provengono da famiglie senza padri, come il 70 per cento dei giovani criminali e addirittura l’85 % dei giovani carcerati. Ben il 63 per cento dei casi di suicidio giovanile ha origini nello stesso ambito sociale, e pressoché tutte le statistiche sulle devianze sono concordi nel descrivere la condizione di disastro familiare e di mancanza della figura paterna. Le nascite fuori dal matrimonio o da convivenze stabili sono in aumento dovunque, ed incrementano i dati già esposti. Oltre la metà dei matrimoni si conclude con la separazione ed i sistemi giudiziari sono concordi nell’affidare alle madri il 90 per cento dei figli, escludendo di fatto il padre dalla loro educazione.
Per vari motivi, poi, l’insegnamento è professione prevalentemente femminile: quasi il 95 per cento alle elementari, due terzi circa alle superiori. Le generazioni maschili non conoscono più se stesse per assenza delle figure di riferimento e per il tramonto di tutte le altre strutture di genere una volta presenti nella società. Di qui ignoranza di se stessi, dipendenza dalla figura della Grande Madre che soddisfa i bisogni primari, elimina i rischi, esercita il controllo, consiglia, diffonde o preferisce il conformismo, il piattume, la pista già battuta. Ricordo un episodio dei miei vent’anni: lavoravo in un’azienda fortemente sindacalizzata in un periodo, gli anni 70, in cui un plumbeo pregiudizio escludeva chiunque non la pensasse in un certo modo. Mi venne fatta una gravissima ingiustizia, con serio rischio personale e allontanamento dal lavoro. Mia madre, una donna che si sarebbe buttata nel fuoco per il suo unico figlio, mi rimproverò con un’asprezza inaudita, perché “non mi ero fatto i fatti miei”. Mio padre mi abbracciò con forza, e mi disse che lui era al mio fianco. Dopo quel giorno, e me ne vergogno, non riuscii più ad amare mia madre e, indirettamente, compresi quanto è importante il padre per un giovane uomo.
La prassi odierna, il sentimento corrente, al contrario, ci mostra una società che è contro il padre, lo esclude, lo emargina, lo ridicolizza, lo considera superfluo a causa delle tecniche riproduttive di tipo zootecnico che il sistema sta facendo passare come splendide conquiste tecnologiche. Gli esperti parlano di una potente scissione tra la psiche profonda, nella quale il padre è il legame con la dimensione sociale e transpersonale, e la coscienza superficiale, dominata dalla madre, il cui vissuto è spesso il contenzioso (vincente) con la figura maschile. Tale scissione indebolisce il maschile dei figli, in cui risiedono le forze più attive e “creative del nuovo” (Ezra Pound), con il rischio di perdita dell’identità sessuale e di genere. Un ulteriore disastro è la dimensione esclusivamente materiale della società intera, che si riflette sulla famiglia, il cui sistema simbolico aveva il suo centro nella figura del Padre terreno, riflesso del Padre celeste spirituale e della sua legge. Oggi legge e diritto si dissolvono in puro Potere, e torna in mente il celebre argomento di Trasimaco nel libro I della Repubblica di Platone, secondo cui “il giusto è l’utile del più forte”, oggi simbolizzato dal consumo, riprodotto socialmente nel conformismo, mitizzato nella nuova divinità impalpabile, destinataria di sacrifici umani chiamata Mercato.
Non si può, peraltro, chiedere alla donna-madre di tradire se stessa: appaga i bisogni, porta la cura ed è protagonista attiva del principio di conservazione dell’esistente. Non è, non può essere anche fondatrice del senso del dovere, banditrice del sacrificio, portatrice della trascendenza: l’esempio più semplice è quello del pacifismo, tipico prodotto della modernità al femminile. Consapevolmente, essa rifiuta la messa a rischio di chiunque, tanto più quella dei suoi stessi figli. Ma la pace è l’esito della giustizia e del reciproco riconoscimento, mai una condizione preliminare o un obiettivo cui sacrificare dignità, onore, ruolo.
Negata la trascendenza, l’unica visione è quella “orizzontale”, impregnata di egoismo e nichilismo. La vita è una, è mia, e non la offro a nessuno, e tanto meno ad una qualsiasi causa: devi farti i fatti tuoi, ingiunge la madre, lascia agli altri l’impegno, il sacrificio, l’inesplorato.
Per il resto, la spiritualità, la visione “verticale”, la linea di vetta è quella delle corsie di un centro commerciale. Di qua la pasta e la marmellata, dall’altro lato, se vuoi, e solo se non ti è di impiccio, c’è un ampio assortimento di dei o di prodotti spirituali, se il sintagma non è: new age, oroscopi, un blando cristianesimo assistenziale, energia cosmica, anima mundi, la ricerca del karma in dieci dispense, Osho o quel che più ci aggrada.
Tutto, nella nuova quotidianità liquida e femminilizzata, ruota attorno ad un verbo: gestire. Qualsiasi cosa deve essere gestita, la famiglia, il lavoro, il tempo libero, le persone che, come figurine, girano attorno a noi. Azione che mette insieme la mera conservazione di ciò che esiste, il suo adattamento pratico, ma in una dimensione orizzontale, senza bagliori, razionale, strumentale. E’ il mondo di oggi: non va toccato nei suoi meccanismi perfezionati, è solo un orologio che va periodicamente caricato, indifferente testimone, mai protagonista. Gli esseri umani si muovono, gestiti, come piantoni di un carcere, il cui compito è percorrere per un intero turno la distanza tra due lati, per incontrarsi a scadenze stabilite con l’altro guardiano che “gestisce” il lato opposto. A turno finito, cambio della guardia, senza neppure la spettacolarizzazione rituale degli “euzones” di Atene.
In realtà, il femminismo e l’intera sinistra occidentale hanno lavorato per il Re di Prussia, ovvero per il mercatismo globale post borghese. Bravissimi a distruggere, hanno creato un clima generale, ed un diritto comune nemico della vita, attraverso legislazioni che spezzano la catena di trasmissione delle generazioni, della famiglia, slegano i vincoli, indifferenti alla continuazione naturale della vita attraverso i legami affettivi che la generano, la accolgono e la amano. L’anello debole da tranciare era il mondo maschile, il principio fallico testimone del nuovo, seminatore e produttore di idee, del rinnovamento, del sangue che pulsa in quanto circola e si rigenera continuamente.
L’abortismo, per vincere la sua triste battaglia, aveva necessità di togliere la parola al padre. Il femminismo ha diffuso la convinzione che il nascituro sia solo un puntino, un granello di polvere da espellere con fastidio dal corpo della donna liberata che dispone della propria sessualità; il padre non conta, lui ha partecipato, sì, ad un atto fisico, ma il suo ruolo è esaurito, ovvero è qualcuno che per trenta denari vende il proprio seme. Non può opporsi alla volontà prevalente della non-madre, e, deresponsabilizzato, si frega forse le mani dinanzi alla scelta altrui, che lo esenta da ogni problema presente e futuro.
La coscienza maschile, che è virile non in quanto sinonimo, ma perché “vir” è l’uomo consapevole di sé, dei propri doveri e obblighi, in nome dei quali rivendica diritti, deve essere ristabilita, risvegliata, rimessa all’onore del mondo, a partire dalla consapevolezza che è l’uomo a decidere di dare la vita, e quindi deve difenderla, proteggerla, orientarla, guidarla. Basta con il timore del politicamente corretto: maschile, e perfino maschilista non è una parolaccia, o un tabù impronunciabile sotto pena di interdetto, basta con la rimozione degli istinti. L’istinto maschile è quello della caccia, della ricerca, della competizione, talora si manifesta con qualche parola fuori posto e non di rado necessita del confronto fisico.
Altra cosa è l’esercizio o la giustificazione della violenza, ma non si deve inibire il maschietto, proibendogli con l’accanimento e lo sdegno di maestrine scandalizzate o madri tremebonde il “gioco pesante”: anch’esso è iniziazione, rito, momento liberatorio, sfogo. Il giovane maschio non è una serafica orsolina e nessuno deve fargli indossare la camicia di forza del buonismo o della “tolleranza” ad ogni costo. Egli deve avere una soglia di accettazione della fatica e del dolore fisico, saper capire che la sua forza è a disposizione di chi è debole, e si sublima in fortezza, resistenza, determinazione. Si tratta di un percorso che ha bisogno di cadute, di sperimentare la sconfitta e persino vedere il proprio sangue. Adesso, in nome dell’Unico, dell’Identico, sembra che non ci siano più neanche i sessi, travolti dal modello uguale e contrario dell’androgino o del transessuale. Dunque, va respinto nel passato tutto ciò che è forte, potente, autorevole, “selvatico”. Un assassinio calcolato del maschile a tappe successive. Tutto in lui deve essere contenuto, trattenuto, controllato, gestito, “depilato” con la dolorosa ceretta della conformità al modello predisposto. Il giovane maschio deve scusarsi di essere quello che è, se lo fa verrà perdonato ed accolto nella fiera dell’Identico. In caso contrario, diventerà un bestione, un selvaggio, una specie di Enkidu nella Saga di Gilgamesh, comunque un deviante.
Claudio Risé, sociologo e psicologo analitico di scuola junghiana ha dedicato alla dimensione del selvatico maschile alcuni libri, ricordando come per Leonardo da Vinci il “salvadego” fosse colui che si salva. Questa è una ulteriore dimensione da restaurare: selvatico è, soprattutto, colui che, grazie al rapporto con la natura e con le forze primigenie, è indipendente, libero, non chiede aiuto a enti assistenziali, burocrazie, Stati, non si trincera dietro la legge scritta o le convenienze sociali, non permette che la sfera pubblica “materna”, prescrittiva invada, colonizzi la sua vita. Sa rifiutare “la mercificazione dei rapporti, la cultura dello scarto, imparando il dono di sé e il servizio all’altro”, come ricorda Costanza Miriano, una scrittrice e madre che comprende ed ama il maschile molto più di tanti emaciati topini di biblioteca tossicchianti.
Noi siamo prigionieri di due “grandi madri” esigenti, assertive e fintamente protettive: la mentalità “socialdemocratica” dello Stato che assiste dalla culla alla tomba, in cambio di tasse elevate e del nostro cervello, conferito ai funzionari della Grande Madre Pubblica; l’attitudine del consumo dominata dal Mercato e da sua figlia la Pubblicità, che inducono bisogni per consentirci di soddisfarli, e realizzare quello che Jacques Lacan definiva “plusgodere”, attraverso il denaro salvato dalle tasse, della nostra firma sotto titoli di debito e delle sinapsi cerebrali sopravvissute alla prima Grande Madre.
Entrambe queste madri inducono ad una “ipersocializzazione”, che fa dimenticare il rapporto con se stessi. Gli italiani, poi, hanno un rapporto particolare con la madre biologica, che si ripercuote su tutta la visione della vita; l’Italia stessa non è “patria”, terra dei padri, ma matria, neologismo coniato da Marcello Veneziani per definire il rapporto diseguale tra noi e la nostra identità, che non è verticale, ma ombelicale, e che è rappresentato dall’iconografia della lupa, Mamma Roma, eternamente impegnata ad allattare Romolo e Remo, fratelli coltelli.
Un modello maschile tipicamente “nostro” è Enrico Faust, protagonista di saghe germaniche e, soprattutto, personaggio di Marlowe, Thomas Mann e, naturalmente, del poema di Goethe. Faust è disposto a dannarsi, pur di penetrare nel profondo della conoscenza e delle esperienze umane. Lo redime Margherita, che pure egli ha maltrattato e corrotto. Il rapporto con il femminile resta centrale in lui nella forma della Vergine (Margherita, in fondo, tale resta per purezza di cuore). La ricerca, il desiderio di attraversare l’ignoto, costi quel che costi, è in tutto il resto del suo essere, a partire da quello straordinario verso in cui Faust, leggendo l’incipit del vangelo di Giovanni (in principio era il Verbo), alla fine sbotta “In principio era l’azione!”. Viene spontaneo il paragone con l’Ulisse dantesco che dei remi fece ali al folle volo, spronando i compagni con il monito “fatti non foste a viver come bruti, ma a seguir virtute e conoscenza”.
Un altro personaggio letterario che rappresenta un idealtipo maschile positivo è il Principe Mishkyn di Dostoievsky. Fragile, cresciuto lontano della famiglia e dalla patria proprio per quella sua semplicità che è tutt’altro che idiozia, Mishkyn è un a creatura spiritualmente superiore, incapace di fare il male, portatore di una virtù profonda, la compassione, che è ben più della moderna empatia, ma ha anche la capacità di mettere a nudo il nucleo del dolore del suo interlocutore. Rappresenta altresì lo splendore della bellezza e lo slancio in virtù del quale egli assume su di sé il male altrui, non ne ha “cura” in senso femminile, lo fa suo integralmente. C’ è in lui, e nella sua follia finale, qualcosa del Chisciotte cervantino, che lascia il suo piccolo mondo di hidalgo di paese per rincorrere il sogno anacronistico della cavalleria errante, deciso ad accettare le privazioni, le sofferenze, a trasfigurare in Dulcinea la rozza contadina Aldonza, raddrizzare i torti, soccorrere le vedove, consolare gli orfani. Il Cavaliere dalla Triste Figura parte dal punto cui perviene Myshkin: la follia come estrema autodifesa dinanzi al male del mondo, che comunque entrambi affrontano, l’uno combattendo giganti in forma di mulini a vento, l’altro svelando il male e caricandolo sulle sue spalle. Comunque, uomini.
Espellere il Guerriero, l’Errante ed il Ribelle dal cuore maschile attraverso la ver gogna o la stigmatizzazione è stato un crimine cui dobbiamo porre rimedio, e possiamo farlo solo noi uomini, riaccogliendo nel fondo dell’anima questi tre grandi simboli, di cui eroe eponimo è il Cavaliere. Albrecht Duerer ce ne ha lasciato la più alta espressione artistica nella celebre incisione del 1513 “Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo”. Anacronistica come la cavalleria di Don Chisciotte, giacché la temperie medioevale aveva lasciato spazio alla prima modernità, anzi atemporale, l’opera del grande tedesco rappresenta un eroe impassibile, solitario, seguito dal suo fedele cane, a cavallo con una possente armatura, spada al fianco e lancia in resta, che incede lento e severo. Accanto a lui, la Morte ed il Diavolo non gli fanno paura, indegne di uno sguardo. Il Maligno può soltanto provocare nuovi scontri, ma ai cimenti il cavaliere è avvezzo, e la Morte è lì, pronta a chiudere il ciclo. Neanche la fredda sorella può molto su di lui, che non conosce la viltà ed ha superato le tentazioni. Quanto alla sconfitta nella lotta, fa parte del gioco, è accettata, e ciò che davvero conta è la causa del Cavaliere, non il suo successo.
La sua nobiltà, la calma gravità di fronte a tutto è incomprensibile ai molti che non scendono mai nella mischia dove andrebbero in pezzi i loro occhialini di miopi volontari ed appagati. Il cavaliere riassume in sé ogni nuova rotta tentata, ogni volo, i naufragi, le frontiere varcate e quelle inespugnate, sfide e sfidanti, temerità di soldati volontari, gioco, amore, contemplazione, guerra, superbia di toreri, il drammatico coraggio di navigatori come Vasco Da Gama. Ne I Lusiadi, poema nazionale del popolo portoghese, egli parte per l’ignoto e saluta la sua gente sulle sponde del Tago, cosciente che lo sguardo suo e dei marinai verso la torre di Belem, simbolo della Patria, può essere l’ultimo ricordo di vita, e sembra trattenere sulla retina non meno che nella memoria quell’immagine che sfuma.
Il Cavaliere avrà una sorta di pronipote nel poeta di Baudelaire, l’Albatros schernito dagli equipaggi per il suo incedere goffo, ma che spiega in volo le sue grandi ali fatte per le tempeste e quando sta lassù ride degli abissi. Il cavaliere porta con sé e dentro di sé il bene ed il male, estraneo al grigio del mondo, fiero della sua aristocrazia interiore. Lo smarrimento è degli altri, degli ex uomini, delle comparse paganti nel film della vita, ma anche di coloro che ci stanno schiacciando nella loro tenaglia di denaro, potere, apparenza. Il Cavaliere, come Parsifal, non sarà mai un puntino in più tra la plebe desiderante con maglia della salute. Vuole la vittoria, accetta la sconfitta, sa che lo aspetta la morte.
L’uomo di oggi?