Ovunque sia andato, nei viaggi e vagabondaggi per le strade d’Europa, non sono riuscito a sottrarmi ad incontri ed esperienze che mi abbiano fatto sentire partecipe di una comunità. E’ quel ritrovare negli altri il valore di una storia comune di un comune sentire. Altra razza, forse. Ci si scruta ci si annusa ci si gira intorno ci si avvicina ci si ritrae ci si avvicina di nuovo. Questa notte, sfogliando le pagine di un libro, mi sono ricordato di Francoforte sul Meno, del grande magazzino Kaufhof, del maglione rosso con un’aquila al centro, stilizzata malamente, sotto il grembiule grigio da lavoro in qualità di Gastarbeiter. Pur sembrando più un pollo spennato e starnazzante, il suo richiamo è inequivocabile. Metà anni Sessanta.
E’ quell’aquila che mi consente di stringere amicizia con Otto R.. Mi attende all’uscita serale e mi offre una birra. Ha poco più di quarant’anni e da quindici lavora a Francoforte. Tenace e fedele pur se riservato e cauto nel raccontarsi. Riservato perché un buon soldato conosce il senso del dovere e lo preserva in sé, senza ostentazione o ricerca del plauso; cauto in quanto la denazificazione la colpito la Germania e ben oltre le vicende legate al Fuehrer e al Terzo Reich. E’ la cultura stessa di un popolo, le sue radici più intime ad essere state annientate. Leggi severe ed ossessive, il timore e la dimenticanza hanno generato ignoranza stereotipi diffuso senso di colpa.
Nel mio rifugio, dove i libri mi proteggono e dalla finestra vedo il cielo stellato, ho appeso una grande bandiera prussiana della Kriegsmarine. Tutta bianca con la croce teutonica che si stende, con i suoi quattro bracci per tutta la tela. Me l’ha portata un’amica tedesca della mia generazione, che però nulla sa di quelle storie pur avendo avuto il padre comandante, uno dei pochi sopravvissuti, di un U-Boot.
Otto R. è nato nel 1921 a Marienbad, nel territorio dei Sudeti, da poco ceduti alla repubblica di Cecoslovacchia con il diktat di Versailles. Nel 1939 parte volontario fra i primissimi, frequentando la scuola di guerra per cacciatori di carri, Panzerjaeger a Cobur. Decorato più volte, più volte ferito, l’11 ottobre del 1943 ottiene la Ritterkreuz. Difatti il 12 settembre, sul fronte dell’Est, la grande sua occasione: in appena dodici minuti mette fuori combattimento dieci T34 sovietici. Mi mostra il ritaglio del giornale che lo ritrae in uniforme, biondo stoppa, il volto aquilino e, a fianco, la motivazione della decorazione. E’ quanto gli rimane insieme ai ricordi, indelebili. Poi la prigionia in un gulag siberiano fino al 1949 e, impossibilitato a tornare nella terra d’origine, si trasferisce a Francoforte.
Dai giorni, i mesi della mia permanenza in Germania, è trascorso quasi mezzo secolo. I miei capelli si sono fatti tutti bianchi il viso s’è corrotto dalle rughe il passo stanco; l’anagrafe impietosa si è portata via Otto R. pochi anni fa. Fino all’ultimo tenace e fedele. Scrive Tolkien: ‘Le radici profonde non gelano mai’. Alzo la testa, la bandiera de ‘Il sole bianco dei vinti’, il gagliardetto della X Mas, le più recenti del Tibet e della Siria, gli elmetti della Wehrmacht, la fotografia di Ugo Franzolin e degli altri corrispondenti di guerra della RSI, quella di Salvatore, legionario in Gabon, troppo nobile d’animo per restare sulla terra, e di Mila fiera e disperata. Ovviamente il volto da ragazzo cresciuto e mai divenuto adulto di Robert Brasillach.
Le Muse, deputate a proteggere l’arte, fra cui la poesia (ciò che gli uomini compiono per preservare nel tempo il proprio nome), sono figlie di Mnemosine, la memoria. E, in un frammento del poeta Agatone, nella cui abitazione è ambientato il Simposio di Platone, si dice che gli dei tutto possono salvo negare il passato. Il tragico Eschilo chiede ai vincitori di proteggere il tempio dei vinti… La modernità che ha gettato nell’immondezzaio della storia, quali superstizioni favole sciocchezze vane, le tradizioni antiche se ne frega conoscendo, Nietzsche docet, solo il niente che tutto nullifica. La damnatio memorie…
Eppure, qui, nel silenzio della notte, sento la voce dei miei ‘camerati’, di quelli che hanno condiviso momenti della mia esistenza; di quelli che, sconosciuti ma non per questo meno amati, hanno percorso il medesimo cammino. Di idee di lotta di emozioni e di sangue. Ne riconosco il tratto, l’incedere, il sudore, l’entusiasmo e la sconfitta, tutti, comunque e nonostante tutto, in piedi fra le rovine. E so di non essere solo…
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