Il brontolìo del vecchio ed i vagiti del nuovo sono ancora nell’aria festosa del passaggio e qualcheduno legge passi sparsi attraverso il tempo, a ritroso in esso.
«Dinanzi alla visione dell’età del ferro Esiodo esclamava: “Che non vi fossi mai nato!”. Ma Esiodo, in fondo, non era che uno spirito pelasgico, ignaro di una più alta vocazione. Per altre nature vale una diversa verità, vale l’insegnamento poco sopra accennato, noto anche all’Oriente, cioè che se l’età ultima, il kali-juga, è un’età di terribili distruzioni, coloro che vi appaiono e malgrado tutto vi si tengono in piedi, possono conseguire frutti non facilmente accessibili agli uomini di altre età»
(Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma 1993, p. 444).
Passo potente.
Eppure Esiodo così minimizzato rimane un neo.
«Prima una stirpe aurea di uomini mortali
fecero gli immortali che hanno le Olimpie dimore.
Erano ai tempi di Kronos, quand’egli regnava nel cielo»
(Esiodo, Erga, in Arrighetti G. -a cura di-, Esiodo Opere, Mondadori, Milano 2007, p. 61, 109-111).
Il Samurai si appresta al passaggio. Si fa portare dal figlio uno scanno, scioglie l’inchiostro nella tazzina e scrive:
«Tenendo questa spada,
io taglio in due il Vuoto;
nel mezzo del grande fuoco,
un fiume di rinfrescante brezza!»
(Inazô Nitobe, Bushidō, Massi R. -a cura di-, Edizioni Sannô-kai, Padova 1976, p. 31).
Nel cosiddetto “credo del samurai” un passo così recita, a noi dispersi nel caotico momento che passa:
«Non ho castello: fudô-shin (la mente imperturbabile) è il mio castello»
(Ibidem, p. 29).
Il tempo corre avanti, ma noi guardiamo indietro, come coloro i quali si accertino che il percorso sia quanto più possibile lineare, nei limiti dell’accettabile vicino e allineato al pensiero di un tempo.
«Scherza alto il fuoco,
che incendio immenso, sulle nostre case.
Sarà contento il cuculo di Gautr e i lupi potranno saziarsi.
Ho già messo alla prova sui nemici
per molto meno, padre, e il tuo dolore
oggi mi dà la spinta e la ragione
per battermi, la mia rigida spada»
(Gísli Súrsson, –strofa da manoscritto-, in Koch L. -a cura di-, Gli scaldi. Poesia cortese d’epoca vichinga, Einaudi Editore, Torino 1984, p. 259).
Qualcheduno arriva da lontano, su di una nave, ma non approda sereno, almeno stavolta.
«Gli ha fatto a pezzi, al sorvegliacampane,
pilotato, il cavallo delle spiagge,
dagli dèi, lo Sterminio dei giganti
il bisonte, sostegno del gabbiano.
Non l’ha protetto, Cristo, si è sfasciata,
la nave, il destriero metallico
delle scie. Della renna di Gylfi
ho idea che Dio non si curasse molto»
(Steinunn Refsdóttir Skáldkona, in La Saga di Njáll, in Koch L. -a cura di-, Gli scaldi. Poesia cortese d’epoca vichinga, Einaudi Editore, Torino 1984, p. 261).
Nella grande sala si racconta il passato, si vaglia il presente, si prepara il futuro.
«Hár dice: “Dodici sono gli Asi di stirpe divina”. Poi disse Iafnhár: “Non meno sante sono le Asinnie, né possono meno”»
(Snorri Sturluson, Gylfaginning, in Edda, Dolfini G. -a cura di-, Adelphi edizioni, Milano 2003, p. 71, 20).
Il tempo trascorre, lasciando a noi frammenti spiaggiati, legno lisciato, fradicio o duro, ma consunto, portatore dell’essenza di ciò che fu. Per noi. Interpreti di un intimo tempo ancestrale. Scrutatori di un segno, inseguitori di un simbolo. Noi e basta con le loro strofe tradotte, con il nostro sentire nel petto.
«Rammento i giganti nati primogeniti,
quelli che un tempo mi hanno cresciuta.
Nove rammento mondi, nove nell’albero,
rinomata “misura”, al di sotto del suolo»
(Vǫluspá, -Meli M. -a cura di-, Carocci Editore, Roma 2008, p. 41, 2).
Il mattino è ancora lontano e l’ultimo goccio custodito nel corno accompagna un’ultima strofa:
«Ogni ingresso, prima che si attraversi,
dev’essere spiato
dev’essere scrutato:
ché non si può sapere dove nemici
si trovino seduti nella sala»
(Anonimo, Canzone dell’eccelso, in Scardigli P. -a cura di-, Il Canzoniere eddico, Garzanti editore, Milano 1982, p. 19, 1).
Primo gennaio, 2015.
Gianluca Padovan