Abraham Joshua Heschel (1907-1972) è stato il massimo interprete, nel secolo breve, del Chassidismo, movimento di massa dell’Ebraismo sorto in Polonia nel secolo XVIII. Succedette in cattedra a Francoforte a Martin Buber, uno dei più significativi rappresentanti del pensiero ebraico del Novecento. Nato in Polonia, successivamente alle vicende legate alle persecuzioni naziste, fu naturalizzato statunitense. A New York insegnò etica e mistica ebraica. Le sue opere circolarono in Italia negli anni Settanta, grazie alla meritoria azione editoriale della Rusconi. La casa editrice Iduna ha da poco dato alle stampe uno dei suoi libri più rilevanti, Passione di verità, per la cura di Luca Siniscalco, autore di un’interessante prefazione (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 315, euro 24,00).
Un libro appassionato questo, che trascina il lettore di pagina in pagina. In qualche modo l’autore traccia, servendosi di una narrazione coinvolgente, il proprio intenerarium in veritatem. Un testo, lo si sarà già compreso, inattuale, essendo quella che viviamo un’età che, recisamente, nega qualsiasi forma del vero e che ama crogiolarsi nel brodo relativista e nichilista. La vita di Heschel, in termini intellettuali e spirituali, fu fortemente segnata da due grandi innovatori della tradizione ebraica. Innanzitutto, Red Israel, detto Baal Shem T
Attraverso Baal Shem, il filosofo fece esperienza dell’ebbrezza sacra del mondo, mentre, grazie alla guida del Kotzker, incontrò la benedizione dell’umiliazione. Heschel sperimentò, nel corso di una vita tesa al «Centro», come l’uomo stesso manifesti, nella peculiare natura che lo costituisce ontologicamente, la coincidentia oppositorum che vige nel Principio. Visse, nel viaggio verso il vero, la dimensione dell’ «in-tra», che i Greci e Platone chiamarono metaxù, sperimentò, in una parola, la nostra duplice e ambigua natura, sospesa tra l’animale e il dio. Proprio per questo, il nostro itinerarium in veritatem per Heschel può solo dar luogo ad approssimazioni che, come ricordato opportunamente da Siniscalco, si fondano sulla via gnoseologica «dell’intuizione profonda» (p. IV) e della teologia apofatica. E’ in questa tensione al vero, davvero tragica, che vive l’uomo: «chiamato a problematizzare sé ed il mondo; è interpellato dal mistero» (p. IV) che, naturalmente, precede ogni pensiero. Heschel ci dice che il Deus absconditus vive anche nei monoteismi. Per questo, il pensiero di Reb Israel è letto dal nostro filosofo come sintonico a quello del cristianesimo dell’autenticità, proprio di Kierkegaard.
Entrambi ci sollecitano ad allontanarci dal senso comune, ad aprirci alla passione di verità suscitata in noi dall’incontro con il mistero del mondo, abisso di tutti i possibili, cui tante pagine dell’ultimo Schelling, maestro a Berlino del pensatore danese, alludono: «per il Kotzker, così come per Kierkegaard, la verità non è una nozione astratta e dogmatica, bensì un’esperienza sperimentabile, evenemenziale» (p. V). Essa è l’identità della vita individuale con la volontà di Dio. La tensione tragica caratterizza gli uomini in cammino: la sua assenza è segno positivo, esistentivo, che permette di riconoscere l’uomo immerso nel flusso naturalistico, nella dimensione cosale della vita. Per Heschel, anche l’uomo moderno può avere il «risveglio» alla verità, il che vuol dire non risveglio nella verità, ma scoperta della tragicità dell’iter che porta verso di essa.
Ora, qualche considerazione conclusiva. Passione di verità è un libro stimolante, oltre che bello e letterariamente ben riuscito. Lo è anche per quanti, come chi scrive, interpretano i monoteismi, quanto meno, come tradizioni dimidiate. Del resto, Kierkegaard con la sua idea dell’attimo-kairos, mise in atto, ancora una volta nella storia del pensiero europeo, il sacro furto nei riguardi del pensiero classico, come suggerito da Agostino ai suoi correligionari. E’ davvero essenziale farsi mordere dalla passione di verità, ma essa deve condurci ad incontrare nuovamente la potenza abissale della physis, cuore vitale della Tradizione. Nel pensiero del Novecento, tale percorso è stato tentato da Karl Löwith, che ha recuperato il contributo di Spinoza, vale a dire ha incontrato il deus sive natura, esperito sotto il segno della necessità logico-matematica. Ecco, la passione di verità dovrebbe invece ricondurci nel luogo speculativo al quale si affacciarono Bruno e Cusano: di fronte alla physis, al deus absconditus, in cui si mostra il sempre possibile darsi dell’impossibile. Una physis sottratta allo scacco della necessità, regno del principio infondato, la libertà.
Giovanni Sessa
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