26 Giugno 2024
Kali Yuga

Pensieri in libertà tra stupore e follia – Danilo Leo Lazzarini

 Analisi orgogliosa di un mondo al tramonto
Lo stupore è una malattia che l’età adulta tende a guarire, annulla la sorpresa che il semplice riaprire gli occhi dopo un sonno più o meno profondo dovrebbe provocare. Si rinnova nello stupore l’antico patto tra la potenza primeva e l’uomo, si cela nelle pieghe dell’esclamazione che erompe da un cuore non ancora inaridito, la promessa di eternità. Io credo che ogni giorno si sia circondati dal miracolo, l’incapacità di riconoscerlo è solamente figlia di quell’abitudine che sfianca i cuori e la mente e la rende preda della vigliaccheria più profonda, quella che si arrende al “perché” non espresso, alla descrizione puramente tecnica delle cose e dell’uomo, fotografandole in maniera bidimensionale; altro non sa fare un certo tipo di strumento mentale figlio dei luoghi comuni, che togliere quella profondità che sola determina la differenza tra ciò che è reale e ciò che è puramente finzione, quadro, fotografia. Io mi stupisco, e non capisco come sia possibile il non farlo! Mi stupisco, perché tutto ciò che mi circonda mi porta a motivo di stupore, posso descrivere perfettamente il Sole, ma non riesco a capire, in barba alle mie dotte disquisizioni sulla fusione nucleare, cosa significhi “l’essere Sole”, e la magia di avere sospesa la nel cielo una massa divinamente infuocata e ipnoticamente potente, emerge in tutta la sua manifesta evidenza. Stupore anche di fronte a coloro che non si specchiano in un simile ragionamento, e che esauriscono la loro esistenza nell’immensa bugia della conoscenza descrittiva. D’altronde l’aridità della nostra anima ben si nasconde in mezzo all’estrema abbondanza che la nostra struttura economica sembra proporre. Così questa grande madre disarticolata dal Padre, che pretende di poter nutrire, quantificando il numero di calorie da proporre, dividendo il numero bruto di persone con il quantitativo di energia necessaria alla sopravvivenza delle funzioni fisiologiche, decide di ignorare consapevolmente, conscia quindi della propria colpa, che c’è qualcosa di non quantificabile nelle stigmate dolorose della sua struttura fine, un qualcosa che rifiuta questo tipo di controllo analitico. Poi, non privo di importanza nell’economia della nostra crescita spirituale è lo stupore di fronte alla stupidità che non riconosce se stessa, dello scorrere delle parole senza argini strutturali a similitudine dei torrenti montani dopo improvvise e abbondanti precipitazioni, che non sanno far altro che scorrere, aventi come unica guida la loro stessa irruenza. La mancanza di introspezione che si deduce come manifesta incapacità di digerire l’evidenza della nostra ignoranza sulle cose in sé, si traduce in una falsa conoscenza, e si scambia troppo spesso l’abitudine ad una cosa, con la conoscenza di tale cosa. Nessuno, o forse solo qualcuno, colto alla sprovvista da questa semplice constatazione dedicò la vita ad avvertire l’epistème vigente in quel momento particolare, della assurda contraddizione che spaccia la conoscenza delle cose per la loro misurazione, e quindi la quantità per la qualità. Non ci si inganni, la faccenda si dipana proprio in questo modo: Noi non conosciamo le cose, le osserviamo, ci abituiamo e le scarichiamo nel cestino dei concetti, per ripescarle nel momento in cui ci servono liquidandole con un dejà vù, perché è più facile, perché è più comodo. Questo metodo operativo attanaglia l’azione cognitiva degli individui massificati, quali indubbiamente noi siamo in quest’epoca oscura, lavorando sulla vasta scala dell’inconscio collettivo, ed esercitando così la sua funzione squalificante e completamente impoverente nei confronti del “reale” allineando e destrutturando gli individui di cui sopra, rendendoli facile preda delle ideologie del progresso e dello sviluppo. Va da sé che in un mondo dove, ogni cosa è conosciuta solo, o in massima parte, perché riproposta immaginativamente migliaia di volte, la magia e il rispetto e che si offre istintivamente al mistero sono da considerare come tributi infantili a creazioni immaginifiche, figlie di una fantasia primitiva, e verso cui bisogna operare un profondo e convinto distacco, fino alla completa escissione e dunque “guarigione” dall’infantilismo cui temiamo di essere preda. Frutto temibile di questa visione del mondo di struttura materialista, è un individualismo incontenibile, un atomismo di convinzione dove, negando l’inconoscibile (come concetto) e quindi la possibilità stessa che esista una verità, allora è verità solo ciò che mi risulta utile, attuando la vittoria del verosimile sul vero. Individualismo dicevo, ma di un tipo particolare, in cui si nega il verticale e ci si stende nell’orizzontale: Tutto il male della massificazione con il peggio dell’individualismo! Una simile società, non può che generare un pensiero debole. E poi lo studio della storia! Non posso non stupirmi nell’osservare che la storia, da maestra di vita come dovrebbe.
E poi lo studio della storia! Non posso non stupirmi nell’osservare che la storia, da maestra di vita come dovrebbe essere, passi a filmato didattico sulle strane e affascinanti vicissitudini dei nostri antenati i quali, poveretti, hanno avuto la sfortuna di vivere in un mondo strano ed incomprensibile… Vecchio, volendo un po’ naif. I più pensano che loro, nelle medesime condizioni, avrebbero fatto cose ben diverse perché dotati di ben diverso cervello rispetto ai nostri antenati, un po’ naif appunto. Anche qui i germi del pensiero debole trovano terreno adatto alla loro terribile virulenza, e questi potenti virus, spostano i termini del discorso sulla superficie piana dell’analisi, condotta con metodi spuri legati all’ignoranza sublime e ad una spocchioseria concettuale che rasenta l’inverosimile. Spesso, i nostri Padri, mi sembrano giganti o, non volendo esagerare pro domo causa, almeno della nostra stessa altezza; Voglio dire che non siamo per nulla diversi (vorrei esserne sicuro) qualitativamente parlando, dei nostri progenitori, di certo siamo un po’ più sprovveduti perché pur avendo, rispetto agli antichi, una possibilità incredibile di attingere informazioni, non ne usufruiamo che in piccola parte, affidando la nostra educazione alla Sinarchia dominante, che decide per noi il grado di approfondimento che dobbiamo raggiungere nell’analisi di un determinato problema e noi, come capretti docili e mansueti, ci dedichiamo anima e corpo a costruire il recinto che nessuno materialmente ci obbliga a costruire. Ma si sa, le mode intessono ordito e trama della nostra prigione e chiamiamo ostracismo sociale il non seguirle. Ma è mai possibile che non ci si possa rendere conto semplicemente aprendo la finestra che non può esistere libertà individuale in un mondo dove esiste una totale globalizzazione e omogeneizzazione del modulo individuale? E mai possibile che ad un determinato segnale tutti trovino gradevole uno specifico capo di abbigliamento o peggio, di cognizione, salvo poi, passato un quid temporale congruente non si sa a cosa, cambiare gusto a favore di un qualcosa d’altro rinnegando allo stesso tempo con le stesse modalità bulgare di identica opinione, ciò che l’attimo prima era squisitamente “a posto”. Tutti noi sappiamo che nei paesi dove i consensi a favore dell’uomo politico al governo si aggirano intorno al 90% non può essere un paese libero, non tanto perché magari il politico non meriti simili consensi, ma semplicemente perché dove esiste libertà, esiste inevitabilmente anche il dissenso. Ed io dissento! Dissento un po’ d’ovunque, e tanto per andare nel personale, dissento contro coloro i quali si convincono (chissà perché) di essere in grado di decidere dei destini altrui senza aver neanche mai dato prova di essere in grado di gestire il proprio. E allora, schierandomi dall’altra parte, mi capita di essere giudicato, in termini di apoftegmi e di inconcusse verità (tautologia) e mi spavento (ma solo un poco), perché mi convinco, accorgendomi una volta di più, che chiunque può dire qualunque cosa avendo come unica tesi a sostegno di questa libertà, una bocca e dei polmoni insufflanti aria nelle vie aeree superiori. E allora? Neanche rabbia…. Ma solitudine si. Solitudine, una solida e orgogliosa solitudine, che mi distacca, mi separa un po’ da tutto e che mi rende generosamente equidistante. Vorrei dire che mi dispiace, ma non è vero! Non mi dispiace affatto! Non provo dispiacere a contemplare nell’altro, questo rappresentarsi come degno testimone di un mondo di tenui luci e di profonde ombre. E così ringrazio gli Dei perché, pur sentendomi un nano intellettuale, trovo sia facile far bella figura in un mondo spiritualmente al tramonto e così, soddisfacendo il mio ego, li sopporto, sopporto il loro incongruo sentire, li sopporto per puro e colpevole narcisismo, ma no, non ci siamo! Non ci siamo, perché qualche volta sarebbe necessario il disprezzo. Qualche volta ci vorrebbe del sublime disprezzo. Qualche volta è sublime disprezzare la sicurezza del branco per andare oltre, verso un inconoscibile altrove, spostare il pesante nulla dell’utile conosciuto ed uscire dal recinto… Ma non si possono sollevare grossi carichi senza delle grosse braccia. Perché uscire dal recinto ha uno ed un solo significato, cioè quello di “essere dall’altra parte”, nella parte insicura del mondo. E questa consapevolezza ci prende e ci scombussola, e grava sulle nostre spalle come un peso tremendo. Ci vogliono delle grosse braccia dicevo… Ci vuole un qualcosa che esula da tutto ciò che noi affermiamo essere normale, ci vuole fame di divino, ci vuole il cuore dell’immortale…. Ci vogliono gli occhi del folle! Ed io folle credo di esserlo, perché credo alla fonte unica della conoscenza, perché disprezzo la sicurezza del branco e mi rifugio sovente nel divino sogno di onnipotenza che tutto mi avvolge e mi Riscalda nei momenti in cui non credo più di essere folle, ma ipotesi terribile, di essere un normale che si crede folle.
Immensamente più appetibile è la certezza che mi assale nei momenti creativi, ed è quella cioè di sentirmi un folle che si crede normale, e indossare la normalità come si indossa un abito, quando quell’abito, lo si indossa solo per coprire quella nudità che sconvolgerebbe i più, ma che invece io trovo l’unica ed esaltante maniera di essere… Follemente nudo! Follemente nudo di fronte a questo mondo di normalmente vestiti. Follemente nudo, sentendomi parte di quel tutto attraverso il quale l’universo mi parla, attraverso quel tutto a cui i vestiti impediscono di esprimersi, impacciandolo e costringendolo nelle immorali vesti del pudore verso se stessi e della vergogna verso il nostro essere. La cultura del nulla ha mille apologeti, aggiungono fango al fango nella speranza di risultare puliti, e siccome il concetto reale di pulito mal si sposa al fango, allora si cambia il concetto del pulito, ed il pulito diventa fango. Cercano di aggiungere cose su cose per trovare la bellezza, ma la bellezza la si trova togliendo! Quando null’altro si può togliere, là allora è la bellezza. Non aggiungete nulla a voi stessi, se volete ritrovarvi toglietevi più cose possibile. E giunto alla fine di questo mio sfogo mi accorgo di essere partito dallo stupore per arrivare alla follia e come novello Ulisse vorrei provare ad affrontare il mare magnum dell’ovvio con la terribile ma ignea nostalgia per la patria perduta non consentendomi, a differenza del nostro Odisseo, neppure in nuce la speranza di un porto sicuro. Spingersi al largo, non risparmiando nessuna forza per tornare. con una sola certezza, quella che i nostri Dei sono potenti.
Danilo Leo Lazzarini

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