Ad andare al liceo a piedi mi consentiva risparmiare le 50 lire del biglietto dell’autobus. Soldi spesi bene, per acquistare i libri affastellati sulle bancarelle di Piazza Fontanella Borghese. E di quei giorni e di quei libri ho memoria. La mia privata biblioteca ebbe inizio con tre libri e di cui solo I proscritti di Ernst Von Salomon, nella prima edizione del 1943 voluta da Giaime Pintor, ho preservato la copia. Ingiallita fragile ma integra. E, poi, di Nietzsche il Così parlò Zarathustra in edizione d’inizio Novecento, forse filologicamente imperfetta, secondo i dettami imposti dal duo Colli e Montinari, ma di certo con maggiore afflato poetico. Alfine, questo ormai solo mi conta. Libro scritto con l’inchiostro, ma il mio bagnato da vivo sangue. Nel ’69, poco prima del mio arresto, l’avevo prestato ad un anarchico del 22 Marzo, Giovanni Ferraro. Una sera, dopo aver mangiato una pizza a Trastevere con la fidanzata, mentre armeggiava alla portiera dell’auto, gli spararono due poliziotti, giustificandosi che l’avevano scambiato per un ladro. Così andavano le cose in quei feroci anni ’70. Persi il libro un compagno umile e gioviale ma da allora mi resi conto quanto fosse vero il dire di Nietzsche che scrivere con il sangue è scoprirne l’essenza spirituale. Il terzo libro fui intrigato dal titolo, Hanno fucilato un poeta. Mi colpì la modestia editoriale, quasi latomica, probabilmente clandestina. Nulla sapevo del suo autore, di quel Robert Brasillach, legato al palo dei condannati a morte il 6 febbraio del ’45, di anni trentacinque. Non immaginavo che sarebbe divenuto, nel corso degli anni a venire, il mio fratello più caro…
Passavo per via Milano, un viale che costeggiava da un lato l’alto muro del Ministero degli Interni e dall’altro un altro muro, quello dell’Istituto del Restauro. Un viale dove, in un androne, c’era la redazione de Il Secolo d’Italia e, portiere aggressivo e tosto, Peppe il Matto. Un omone grosso e nerboruto. Si diceva che i comunisti l’avessero torturato (qualcuno sosteneva che fosse stato nella Legione Tagliamento, in Repubblica) e fatto andare fuori testa. Probabile che, al contrario, soffrisse di qualche disturbo ormonale. Fatto sta che una mattina mi afferra, lesto, per un braccio. Inutile sfuggire alla morsa. A sedici anni e al tempo della giovinezza il mio peso forma si aggirava intorno ai 56 chili. Un fuscello con in cima occhiali dalla montatura spessa e un ciuffo di capelli ostili al pettine. E, con voce imperiosa cavernosa e a brutto muso: ‘Tu, che sei uno studente, mi devi portare i libri di Nietzsche’. Non una richiesta, un ordine. Penso: ‘Peppe il Matto che legge Nietzsche?’. Io, piccolo borghese, un po’ presuntuoso ed arrogante, ma – diciamoci il vero – una lettura ostica per chi di filosofia poco o nulla s’intende… La risposta me la dà lo stesso Peppe (ovviamente nessuno, in sua presenza, s’azzardava ad usare il soprannome ad alta voce). ‘Mi hanno detto che parla bene di Mussolini’. A precisione, saputello, quando il padre dello Zarathustra muore, nell’agosto del 1900, il futuro Duce ha diciassette anni.
Ho, crescendo sempre più presuntuoso ed arrogante, storto la bocca alzato sopracciglio e spalla con gesto di sufficienza, di fronte ad una Destra, quella del MSI, di cui coglievo miseria e limiti culturali rispetto ad una Sinistra, anche in questo campo, onnivora e spocchiosa. I ricordi, gli episodi a conferma, si affastellano fitti nella mente. Forse ne tratteggerò alcuni in altra occasione. Basterà quando venne a Roma il filosofo Jean-Paul Sartre a tenere una conferenza sulla lotta d’indipendenza del popolo algerino. Noi, in sintonia con i parà i generali ribelli l’OAS, contro. Un’Africa bianca, mito il mercenario di Lucera, ‘morto nel Katanga … e la fedina nera’. Ci dissero di andare lanciare volantini mollare qualche ceffone e calci in culo. E, aggiungendo, che tanto avremmo trovato intellettuali vili checche isteriche vecchiette e qualche studente con i brufoli. Ci trovammo contro i camalli di Genova, in servizio d’ordine organizzato dal PCI, con delle mani callose e larghe come palanche. Ci difendemmo, non ci mancava l’incoscienza ondate di sana gioventù e l’eco di narrazioni squadriste, ma ce ne diedero e tante. Oppure a contestare, con relativo lancio di un secchio di merda, lo scrittore Pier Paolo Pasolini che doveva intervenire ad un convegno alla Casa dello Studente. In quella occasione mi salvò lo stesso Pasolini che, inseguendomi, mi gridava dietro ‘Al ladro! Al ladro!’ e non il più pertinente e nocivo ‘Al fascista!’. Forse memore del fratello Guido scannato alla Malga Porzus da banda partigiana al soldo di Tito.
Il tempo e le circostanze portano via con loro uomini idee vicende.. Sono venuti, ad esempio, gli ‘intellettuali’ della Nuova Destra, ben più saccenti di me, che ci hanno buttato tutti nel medesimo calderone dell’idiozia e dell’analfabetismo. Giacca cravatta o, immancabile, il papillon. Accusandoci d’essere capaci, noi, solo di gridare ‘viva il Duce!’ e dar di botte… mentre essi a bearsi di avere sponda con, altro saccente, il filosofo e sindaco di Venezia Massimo Cacciari. Presi da Ernst Juenger e da Alain de Benoist, va da sé, figure d’intellettuali di tutto rispetto, ma guai a trasformarli in innamoramenti. E ancora i ‘caghetta’ dell’ultima ora, felici d’essere traghettati dal Cavaliere al governo e nei salotti ‘buoni’ (leggasi, lupanari’) della Capitale.
E, allora, il sottoscritto – ex professore di storia e filosofia, già insegnante in un liceo della periferia romana, buona penna (mi dico da solo!) e dignitoso eloquio, le pareti foderate di libri (inutili, la gran parte!) e una decina di cui sono (vanitoso!) autore – guarda con affetto e pizzico di nostalgia i vari Peppe il Matto con cui ha coabitato giovinezza e militanza. I ‘pugilotti’ alla Angelino Rossi che mi insegnarono, dopo aver steso un tizio sul marciapiede solo perché s’era dimostrato arrogante, che ‘prima mena e poi discuti’. Parafrasando, l’importante essere, nel gesto e nella parola, cazzotti ben assestati o simili a pietre scagliate per colpire… Il ghigno di Flavio Campo, slacciatasi la cravatta per non farsi strozzare nell’inevitabile colluttazione, avanti a tutti sulle scalette della Casermetta il 28 aprile 1967, mentre un migliaio di compagni sbucavano correndo e al grido di ‘Assassini! Assassini!’ dopo la commemorazione della morte (a noi attribuita) dello studente Paolo Rossi, nel piazzale della Minerva, università La Sapienza. Io, modesto contributo di muscoli in nervi e manganello, fra quella ventina, pochi e soli ma pur sempre felici.
Essi erano la Fede, che non smuove le montagne né consente di attraversare il Mar Rosso (so bene che la politica richiede idee e progettualità, compromessi e tatticismi), ma fa sì che ‘l’asse non vacilla’ e, intorno ad esso e per esso, nasce si radica vive lotta e, se necessario, soccombe uno Stile, quello di uomini che, ieri e se ne richiederebbero nella palude dell’oggi, sentono d’appartenere ad un popolo di ‘credenti e combattenti’. Per questo, forse io, troppo indulgente, prediligo Peppe il Matto con il ‘suo’ Nietzsche…
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