Giovanni Ambrogio Figino, Giove e Giunone (1599) |
Moreno Neri
I testi classici costituiscono uno straordinario deposito di temi interessanti per la riflessione contemporanea. Anche per questo motivo, sarebbe un grave errore smettere di leggerli, come purtroppo sta sempre più accadendo. Essi, anzi, colmano il vuoto di questi anni e invitano a un ferreo confronto, nella misura in cui permettono, molte volte, di aprire le proprie gabbie mentali e ci consentono di raccontare nuovamente la nostra storia e la nostra Tradizione, liberandoci dal timore di affrontare i propri luoghi oscuri. Ci permettono, in breve, di parlare del passato pensando al nostro presente. Questo vale in particolare per il più grande poema epico dell’antichità romana, l’Eneide di Virgilio, l’iniziato pitagorico, un’opera che è ancora capace di metterci di fronte ad archetipi di grande importanza, anche per ciò che riguarda il rapporto fra Tradizione e identità italica.
In occasione di questo 2765esimo Natale di Roma vorrei perciò affrontare un tema che non riguarda direttamente la fondazione dell’Urbe, bensì i prodromi del suo solco quadrato, a più di tre/quattro secoli prima e ai capostipiti della stirpe di Romolo.
Alla fine dell’Eneide, nel XII libro, Giove e Giunone, prima della sconfitta di Turno, si incontrano per siglare la pace. La dea, fino a quel momento implacabile nemica dei Troiani – sia per il giudizio di Paride che aveva disprezzato la sua bellezza, sia perché favorevole ai Cartaginesi, e ora schierata dalla parte dei Latini –, si arrende al volere del proprio fratello/marito: non le resta infatti che accettare il fatto compiuto. Prima della resa definitiva, però, Giunone pone alcune condizioni, relative al futuro che attende Troiani e Latini dopo che la guerra si sarà conclusa. Si realizza in alto, finalmente, l’indispensabile pax deorum olimpica. Oggi diremmo che Giunone e Giove definiscono, attraverso reciproci patti, quale sarà l’identità della gente che sorgerà dalla futura fusione tra i due popoli. Ecco il testo di Virgilio, nella classica traduzione di Annibal Caro:
«… E sol di questo / desio che mi compiaccia (e questo al fato / non è soggetto), che per mio contento, / per onor de’ Latini, per grandezza / e maestà de’ tuoi, quando la pace, / l’accordo e ’l maritaggio fia conchiuso / (che sia felicemente), il nome antico / di Lazio e de le sue native genti, / l’abito e la favella non si mute: / né mai Teucri si chiamino o Troiani. / Sempre Lazio sia Lazio, e sempre Albani / sian d’Alba i regi, e la romana stirpe / d’italica virtù possente e chiara. / Poiché Troia perì, lascia che pèra / anco il suo nome …».
[Virgilio, Aeneis, XII, vv. 820-828: … pro Latio obtestor, pro maiestate tuorum: / cum iam conubiis pacem felicibus (esto) / component, cum iam leges et foedera iungent, / ne uetus indigenas nomen mutare Latinos / neu Troas fieri iubeas Teucrosque uocari / aut uocem mutare uiros aut uertere uestem. / Sit Latium, sint Albani per saecula reges, / sit Romana potens Itala uirtute propago: / occidit, occideritque sinas cum nomine Troia.]
Giunone, in sostanza, chiede che quando Troiani e Latini si sposeranno fra loro, figli e nipoti possano restare Latini, a dispetto della parte troiana. Vediamo in sintesi i punti principali della sua richiesta.
– Il nome. Nonostante la mescolanza fra i due gruppi, il nome del popolo deve rimanere quello dei «nati sul luogo» (indigenae): dovranno chiamarsi Latini, non Troes o Teucri.
– La lingua. I discendenti dei matrimoni misti dovranno mantenere il patrius sermo dei Latini, la lingua paterna. In altre parole essi dovranno continuare a parlare latino, non dovranno adottare la lingua dei Troiani.
– Le vesti. Il futuro popolo dovrà mantenere l’abbigliamento tradizionale dei Latini. Si tratta di un punto che a noi moderni potrebbe sembrare secondario, perlomeno rispetto a nome e lingua. Per quanto, se si pensa ai conflitti provocati anche in Italia dall’uso del velo femminile, per non parlare del burka – o agli episodi di intolleranza che l’adozione dell’abbigliamento occidentale da parte delle donne provoca simmetricamente all’interno di alcune comunità di immigrati –, si comprende subito che anche al mondo d’oggi il vestire non costituisce affatto una materia neutra. In ogni caso, è bene rilevare che per la cultura romana l’abbigliamento faceva strettamente parte dei mores, i costumi, ovvero modelli culturali che caratterizzano un certo popolo rispetto agli altri. Come sappiamo da Virgilio stesso, i Troiani hanno fama di indossare tuniche fornite di maniche, vesti di bisso (una sorta di seta naturale marina) fulgenti perché colorate di croco (un giallo zafferano) e di porpora, mitre con nastrini usati per il sottogola. Questo abbigliamento, considerato effemminato, dovrà essere eliminato e sostituito con il mantenimento di quello latino.
– La geografia e la storia, se così si può dire. La dea vuole che continui a esserci il Latium (e non, poniamo, una nuova Troas, come accadde ad esempio a Londra, di cui pochi sanno che il suo antico nome era Troia Nuova, perché fondata da Bruto, figlio di Silvio, nipote d’Ascanio e pronipote d’Enea, costretto a lasciare l’Italia per aver accidentalmente causato la morte dei genitori, finché, secoli dopo, per corruzione della stessa parola divenne Trinovantum o Troynovant); la dea vuole anche che nel futuro ci siano i re di Alba, una parte fondamentale della storia di Roma, tra Enea e la sua fondazione.
– La potenza e la virtù dei posteri. Sit Romana potens Itala uirtute propago: Giunone chiede che la Romana propago, la stirpe ulteriore che avrà nel Lazio le sue radici, possa fondare la sua potenza sulla virtus italica, e non sul carattere troiano. In questo verso virgiliano è esemplarmente racchiuso il medesimo e unico destino d’Italia e di Roma. Dalla riconciliazione dei contendenti e dalla loro fusione, come vedremo, sorgerà quella generazione a cui Giove promette una pietas superiore a quella degli uomini e degli dei e il dominio del mondo.
Le richieste di Giunone sono molto dure. Il contributo che, secondo lei, i Troiani dovranno fornire alla nuova popolazione è praticamente nullo. A dispetto dei matrimoni misti che verranno combinati, il nome, la lingua, i costumi, le caratteristiche morali dei Troiani dovranno scomparire. La cosa ancora più sorprendente, però, è che Giove non solo sorride, comprensivo e orgoglioso, riconoscendo nella fiera indignazione di Giunone il suo stesso sangue, e accetta tutte queste richieste, ma rincara addirittura la dose, rendendo esplicito anche il modo in cui interverrà sulla combinazione fisica dei due popoli per soddisfare le richieste della moglie. Ecco il testo, sempre nella traduzione di Annibal Caro:
… A ciò Giove sorrise, / e così le rispose: «Ah! sei pur nata / ancor tu di Saturno, e mia sorella, / e consenti che l’ira e l’acerbezza / così ti vinca? Or, come follemente / le concepisti, il cor te ne disgombra / omai del tutto. E tutto io ti concedo / che tu domandi, e vinto mi ti rendo. / La favella, il costume e ’l nome loro / ritengansi gli Ausoni, e solo i corpi / abbian con essi i Teucri uniti e misti. / D’ambedue questi popoli i costumi, / i riti, i sacrifici in uno accolti, / una gente farò ch’ad una voce / Latini si diranno. E quei che d’ambi / nasceran poi, sovr’a l’umana gente, / si vedran di possanza e di pietade / girne a’ celesti eguali; e non mai tanto / sarai tu cólta e riverita altrove».
[Virgilio, Aeneis, XII, vv. 829-840: … olli subridens hominum rerumque repertor: / «es germana Iouas Saturnaque altera proles, / irarum tantos uoluis sub pectore fluctus. / Uerum age et inceptum frustra summitte furorem: / do quod uis, et me uictusque uolensque remitto. / Sermonem Ausonii patrium moresque tenebunt, / utque est nomen erit; commixti corpore tantum / subsident Teucri. Morem ritusque sacrorum / adiciam faciamque omnis uno ore Latinos. / Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate uidebis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores».]
Nella generazione della futura prole mista fra Latini e Troiani, dunque, la componente troiana è destinata a svolgere un ruolo solo residuale: a emergere sarà solo la parte latina. L’espressione usata da Virgilio in questo passaggio cruciale del poema non lascia dubbi: commixti corpore tantum / subsident Teucri, in altra traduzione «i Teucri saranno mescolati solo nel corpo» della futura progenie. Dobbiamo cioè immaginare che, nella mescolanza (commixti) fra le due stirpi, il contributo troiano sarà di carattere esclusivamente fisico, limitato al corpo dei discendenti. Come se non bastasse, però, Giove aggiunge che questo contributo troiano andrà a depositarsi «sul fondo» del composto (subsident). Perché questo? Evidentemente è importante che i discendenti abbiano non solo costumi (mores) latini, ma anche corpo il più possibile latino. La parte troiana si depositerà sul fondo del composto (subsidere) proprio come sul fondo si deposita la feccia del vino o la morchia dell’olio: tutti processi per descrivere i quali i Romani impiegavano subsidere, il verbo che indica la separazione della parte di scarto, il deposito, da quella che si vuole limpida e pura. Nel caso di persone lo stesso verbo subsidere significa colui che rimane fermo, chi resta di riserva, chi si arena.
Vi è chi, come Maurizio Bettini (ma non solo), il quale col suo Contro le radici: Tradizione, identità, memoria, il Mulino, Bologna, 2011, pp. 61-77 è stato fonte d’ispirazione per questo contributo, in maniera unilaterale e un po’ offuscata, a mio parere, ha rinvenuto, in questa decisione di Giove riguardo alla futura identità del popolo troiano-latino, un insopportabile sapore di pulizia etnica e c’è anche chi ha parlato di genocidio culturale. Questo perché nella stirpe futura i Troiani non daranno alcun contributo di carattere morale o culturale (lingua, nome, costumi); la loro presenza sarà solo fisica, e per di più ridotta a residuo, a qualcosa che si è per così dire «spiaggiato» e non serve più a nulla. Nome, lingua, costumi e altro dei Troiani, verrebbero recisi con una spietata lama identitaria.
Per inciso, avrete in proposito avuto modo di notare in Virgilio i termini di «lingua patria e costumi degli Ausoni» (sermo patrius atque mores Ausonii) e di «sangue Ausonio» (sanguis Ausonius), con quell’Ausonio che sta per «latino, italico» e che richiama il nome della Loggia Madre “Ausonia”, fondata a Torino l’8 ottobre 1859, alla vigilia del rinato Regno d’Italia. Ma anche questi Ausonii, come ci racconta Virgilio nel libro VIII dell’Eneide, sorprendentemente, non sono originari dell’Italia, indigeni, ma vennero dall’Armenia quasi nel principio dell’Età dell’Argento, all’indomani del felice regno di Saturno.
Ma per quanto impressionante può essere la tesi identitaria, non è questo l’aspetto parziale che più colpisce in questo testo di Virgilio, il quale, come diceva Borges, «spalanca non le porte dell’inferno, ma quelle dell’universo».
Dietro alle spalle e all’origine dell’Urbe Condita, dodici secoli prima della nostra era volgare – ma lo stesso si potrebbe dire dell’intera umanità 60mila anni fa – c’è una diaspora, una parola greca che significa «dispersione». Significa che i popoli sono naturalmente in movimento: a volte per spirito d’avventura, ambizione di conquista, desiderio di vedere il mondo, a volte perché cercano una vita migliore, cibo più abbondante, a volte perché, come i Troiani, hanno perduto la loro patria o ne sono stati cacciati via o ne sono fuggiti stanchi di lottare per spartirsene le scarse risorse, non necessariamente materiali, ma anche quelle ideali come la libertà e la giustizia. Profughi, conquistatori o «migranti economici», la nostra terra è sempre stata percorsa dai più vari popoli; prima della fase romana si possono ricordare i coloni greci e i misteriosi etruschi, forse provenienti dall’Asia minore; alla fine dell’impero romano, dalle invasioni barbariche (e i tedeschi usano una parola meno insultante: Völkerwanderung, migrazione dei popoli), i cui nomi sarebbe lungo elencare; in seguito, nelle nostre terre si sono succedute innumerevoli popolazioni: arabi, normanni, albanesi, greci, francesi, spagnoli… Significa che nei secoli si sono succedute invasioni e commistioni di ogni tipo. Eppure, a dispetto di tutte queste mescolanze, non macchie ma arricchimenti vitali, pare che l’antico patto di Giove e Giunone, per uno degli arcana fatorum (i segreti del destino e, insieme, l’inflessibile volontà degli Dei che presiede allo sviluppo della storia di Roma), abbia fatto permanere la forza, la limpidezza e la purezza dell’essenza linguistica e culturale della nostra stirpe, consentendo il nostro Risorgimento. Simbolicamente e giustamente preceduto dal ripristino, nel 1849, della tradizione del Natale di Roma, con un agape nei Fori con libagioni augurali, durante la breve esperienza della Repubblica Romana.
In conclusione, l’invenzione letteraria di Virgilio ci offre il modello mitico della costruzione della nostra identità e della nostra Tradizione. Vi è l’idea di un popolo che nasce dalla mescolanza e dalla diversità. È un’idea che io definirei una concezione «progressiva», che va oltre le contrapposizioni, in un necessario incontro, dove la convertibilità è rappresentata dal consenso su valori riconosciuti. In termini contemporanei piuttosto che di «pulizia etnica», mi sembra, a proposito di questo mito, che dovremmo invece parlare di «integrazione» o almeno di «assimilazione». Esiste addirittura un termine tecnico per descrivere questo processo in cui entità politiche precedentemente indipendenti si unificano in una città o in uno stato: sinecismo (dal greco, letteralmente «coabitazione»).
Del resto la natura sintetica della prisca Tradizione italica ci viene confermata anche da Sallustio, che, parlando della fusione tra Troiani e Latini e della fondazione di Roma, afferma:
Come si raccolsero entro le stesse mura, benché di diversa stirpe, dissimili per lingua e viventi gli uni in un costume e gli altri in un altro, si fusero con una facilità che appare incredibile ricordare: così in breve da una turba dispersa e nomade l’unità dei cuori fece sorgere una nazione.
[Sallustio, De Catilinae coniuratione, VI, 1-2: «hi postquam in una moenia conuenere, dispari genere, dissimili lingua, alius alio more uiuentes, incredibile memoratu est quam facile coaluerint: ita breui multitudo diuorsa atque uaga concordia civitas facta erat.»]
E tutto questo diversamente da ciò che avveniva nel mondo greco dove l’unità etnica è il fondamento di una polis, la città, la nazione, che escludeva dal suo corpo civico non solo i non greci, i barbari, ma anche i meteci, gli stranieri greci stabilitisi nella città, che non erano figli di madre cittadina. Come dunque ci confermano Sallustio e Virgilio la nostra Tradizione, che vede unita in un binomio inscindibile Roma e l’Italia, non è fondata su una medesima sostanza etnica, ma su un crogiuolo di differenti stirpi, in una unione sacrale basata su un fatto spirituale (concordia, unità di cuori) anziché strettamente biologico. Tutto ciò doveva fedelmente riecheggiare nell’azione storica dello Stato romano, quale forza formatrice e imperiale.
Si è anche acutamente osservato (Marta Sordi) che «La legge del sacrificio diventa così per Virgilio la legge fondamentale del progresso storico. Il lungo estenuante cammino di Enea e dei Troiani verso la terra promessa … sbocca, apparentemente, in un fallimento, nella perdita di sé, come entità nazionale: ma è proprio questo sacrificio liberamente assunto (il fato virgiliano non prende mai l’uomo alla sprovvista, ma ne sollecita sempre la libera adesione) e totalmente consapevole che arricchisce di sofferta e dolorosa umanità la tragica sequenza di battaglie, di uccisioni e di stragi che Virgilio rappresenta nell’Eneide e che costituisce la storia di Roma e fa dell’Impero stesso, che di quella sequenza è il frutto e il compimento, un valore degno di essere realizzato. … si rivela così la chiave di lettura spirituale del poema: nulla di grande, di bello, di valido nasce se non alla scuola del dolore; nulla nasce se non dalla morte, ma dalla morte intesa come sacrificio … . Questa verità che Virgilio coglie operante nella vita del cosmo come nel mondo misterioso delle coscienze, egli la coglie anche nella vita dei popoli e nella storia degli imperi.»
La realtà sociale e culturale sembra, dunque, essere governata dal fatum, la divina parola pronunziata sull’Olimpo una volta per tutte. Con la stessa sublime sicurezza con cui era permesso dal Giove di Virgilio ai nostri avi di affermare un tempo, con fierezza, le solenni parole civis romanus sum, qualunque fosse la loro origine etnica (quanti imperatori romani, chiediamocelo, furono di origine barbara e anche africana?), il medesimo ideale di cittadinanza permetterà a uomini di cui devono essere riconosciuti i diritti proprio in quanto tali (e persino ai Troiani d’oggi, i Turchi, come pure ai lontanissimi Seri di 2mila anni fa, i Cinesi d’oggi), almeno ai nati nel luogo (indigenae), senza differenza di colore e di religione, di affermare un giorno con orgoglio sono un cittadino italiano. Chi ha ben compreso il simbolismo delle nostre origini, dovrà necessariamente soddisfare l’impegno a perpetuare questa missione.
21 aprile 2012 Moreno Neri
Giovanni Ambrogio Figino, Giove e Giunone (1599)
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