Nelle prime pagine di Niente di nuovo sul fronte occidentale, il celebre romanzo di Erich Maria Remarque – oltre tre milioni e mezzo di copie vendute alla sua pubblicazione (1929) e un film made in USA di un regista ebreo di origine russa –, libro divenuto simbolo di ogni opposizione agli orrori della guerra, si assiste all’infiammata esortazione del professor K. ai suoi allievi di arruolarsi volontari nell’esercito del Kaiser allo scoppio della Prima Guerra mondiale. Indossare la divisa, abbandonare i banchi il calamaio l’inchiostro i libri. Il suo appello sarà accolto. La gran parte di quei suoi studenti si faranno ammazzare nelle trincee all’assalto con la baionetta maciullati dal cannone e falciati dalle mitragliatrici asfissiati dai gas venefici i corpi straziati privati della vista di braccia gambe ridotti a miseri storpi. Lo stesso protagonista verrà ucciso da un proiettile di qualche anonimo cecchino mentre tenta di prendere una farfalla che si attarda ai bordi della trincea. Un simbolo certo di libertà di variegati colori di pace contro il grigiore infame la ferocia la stupidità degli uomini contro.
Berlino, 16 ottobre 1916, dalla Dichiarazione degli insegnanti delle scuole superiori del Reich: ‘Prestare servizio nell’Esercito istruisce la nostra gioventù anche in tutte le opere di pace, e pure nella scienza. Infatti la educa a mantenere fede al proprio dovere e alla rinuncia di sé, le dona la consapevolezza e il senso dell’onore degli uomini autenticamente liberi che, con impulso spontaneo, si mettono al servizio della collettività’. (Qui emerge l’eco dei Discorsi alla Nazione tedesca del filosofo Fichte, l’eredità dei poeti Teodoro Koerner, caduto nella battaglia di Lipsia, di Max von Scheckendorf, l’autore del Canto delle Fedeltà – quest’ultimo diverrà per espressa volontà di Himmler l’inno delle SS). ‘E’ nostra convinzione che per l’intera cultura dell’Europa la salvezza dipenda dalla vittoria che il militarismo tedesco saprà conquistare, insieme con la vigorosa disciplina, la fedeltà, l’abnegazione del popolo tedesco concorde e libero’.
Beh, poco da eccepire al di là della retorica, dell’enfasi del momento. Nell’età del nichilismo la trasmutazione dei valori è rovinio vorticoso verso il basso. Non negli Inferi, si badi bene, dove combattono anime temprate dal fuoco e acciaio, ma nella palude ove abitano ‘gli ultimi uomini’… Da insegnante, per circa quarant’anni, ho attraversato più generazioni, educate – si fa per dire – a illudersi di vivere in tempi di ‘pace perpetua’ (l’intento di Kant nello scrivere il libello dal medesimo titolo era di ben altra funzione – proteggere quel ramo storto dell’umanità nella sua inevitabile imperfezione). Del resto gli USA hanno preso calci in culo dai ‘musi gialli’ in Viet-nam anche perché i loro giovanotti bruciavano il richiamo alle armi disertavano facevano barricate dei campus universitari.
Di ben altro tenore – e spessore – Tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern) di Ernst Juenger, libro edito inizialmente dal padre in duemila copie, subito esaurite. Egli fu testimone di quel conflitto, partito come volontario da semplice soldato fino ad essere nominato tenente, con al collo la massima decorazione Pour le merit (22 settembre 1918), quattordici ferite, innovatore di tecniche d’assalto contro i camminamenti nemici. Libro lucido asciutto nel linguaggio analitico da entomologo quale, poi, diverrà l’autore – lo scatenarsi delle forze telluriche e del loro dominio, tecnica e mobilitazione totale. Un esempio: ‘Un uomo in servizio di sentinella all’improvviso si piega su se stesso, rosso di sangue. Un colpo alla testa… Qualche palata sulla macchia rossa e ognuno torna alla propria occupazione’. (Abbiamo letto Niente di nuovo sul fronte occidentale, ci siamo commossi; abbiamo letto Tempeste d’acciaio, ci siamo coinvolti).
Accanto al computer, fra carte libri penne e l’immancabile Settimana Enigmistica, ho di Edlef Koeppen Bollettino di guerra, di cui ho letto ormai più della metà, edito nel 1930 e in linea con la narrativa la memorialistica e tutto quanto abbia il sapore di denuncia di quel recente passato di una generazione bruciatasi tra il filo spinato e le trincee. Non ebbe particolare notorietà e a torto, a mio parere. Come in Juenger non c’è poesia se non nella parola nuda diretta oggettiva – e ciò spiega perché trovò il favore del poeta Gottfried Benn (fra i grandi del Novecento e di cui mi riprometto di tornarvi sopra). Le vicende dell’artigliere Adolf Reisiger – personificazione dello stesso autore – si accompagnano a documenti ritagli di giornali e semplici pubblicità dichiarazioni ufficiali di ministri e generali e tramite la sperimentazione descrittiva di tecniche impersonali. Come in Alfred Doeblin (Berlin Alexanderplatz) o John Dos Passos (I tre soldati) con la cosiddetta tecnica del montaggio. Al paragrafo 6 capitolo secondo parte seconda ‘Il nemico sta bombardando’, reiterato per oltre venti volte, dando tra un periodare e l’altro il senso martellante del cannoneggiamento nemico, di quello stare sotto le bombe ove ognuna può essere fatale con il sibilo schianto e ancora l’ennesimo sibilo lo schianto definitivo.
Maurizio Rossi presenta in un sabato grigio di autunno annunciato la ristampa de la conquista di Berlino di Joseph Goebbels, edita da AR che l’aveva proposta ormai nel lontano 1978. Devo possedere copia originaria, finita in qualche scaffale e magari soffocata da libri più recenti. Come sempre chiaro preciso comprensibile con quel richiamo fiorentino che dà un tocco in più. In un anno, tra il 1926 e il ’27, il partito nazional-socialista riesce sotto la guida del futuro Ministro della Propaganda ad imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica berlinese ad aprire squarci in quartieri considerati impenetrabili. Un libro che non è soltanto il racconto di un’avventura, una sorta di inizio di che porterà nel ’33 Hitler al potere. E’ una guida alla militanza allo stile una visione dell’azione che diviene visione del mondo… Questo spiega il suo fascino in quegli anni in cui ancora, pur nel tramonto di troppe illusioni, vi fu chi ancora credette di poter conquistare le piazze con i bastoni prima, con la P38 poi. E fu sangue generoso versato stupidamente dall’una e dall’altra parte.
Un libro – mi viene da pensare e lo suggerisco a Maurizio – che riempie lo spazio e il tempo che intercorrono tra gli avvenimenti narrati ne I Proscritti, che sono una sorta di premessa, di Ernst von Salomon, testimone e partecipe della fragilità di Weimar, e Le ultime ore dell’Europa di Adriano Romualdi, ove la fine in stile nibelungico si risolve fra le macerie di Berlino e il rogo purificatore alle porte del bunker. Tutto – sembra suggerirci – nasce si compie si dissolve. Come le piante gli animali gli uomini. Sarà poi vero? Gli ideali e i sogni muoiono tutti all’alba o, nel tramonto, altre aurore ci attendono? La storia simile a un treno ove le rotaie rappresentano i fatti e la loro interpretazione. Forse in qualche lontano orizzonte, scegliendo lo spirito guerriero descritto da Juenger e rigettando il gusto dolciastro di Remarque, si incontreranno nuovi ‘proscritti’ nuove ‘conquiste’ e dalle ceneri una nuova ed eterna Europa vedrà germogliare rami meno storti.